mercoledì 3 ottobre 2007

Josè Muñoz " Hombre di China "

di  Goffredo Fofi

Hombre di China è il titolo della personale del disegnatore di origine argentina Josè Muñoz, realizzata dalla Hazard Edizioni di Milano nel mese di maggio a Lisbona, in Portogallo, e a giugno, nell’ambito del salone del fumetto
Una mostra dal percorso espositivo volto a ricreare la singolare esperienza artistica di Muñoz in quasi quarant’anni di attività di ricerca nel campo del fumetto d’autore e dell’illustrazione contemporanea. Più di un centinaio di tavole in bianco e nero, decine di acquarelli e disegni a colori in cui ritroviamo storici personaggi quali Alack Sinner o Sophie, creati con lo sceneggiatore Carlos Sampayo negli anni Settanta, ma anche numerose opere inedite e tavole tratte dalle pubblicazioni più recenti come le graphic novel sorte dalla collaborazione con il romanziere nordamericano Jerome Charyn.
Josè Muñoz è un autore dal segno carico di forza emotiva ed originalità al servizio di un continuo rinnovamento alimentato da molteplici influenze provenienti dalle arti visive, dalla letteratura e dalla musica. Da anni contribuisce a rendere l’arte sequenziale un maturo strumento di espressione artistica sempre più apprezzato da lettori, disegnatori ed editori di tutto il mondo.
Il catalogo, edito dalla Hazard Edizioni, è introdotto dai testi di autorevoli esponenti dell’illustrazione, come Lorenzo Mattotti, e della critica, quale Goffredo Fofi.

«In una recente intervista il Grande Muñoz, diceva l’incanto che provoca in lui "la macchia che si rompe e inonda il bianco". Sembra un verso. Lo è. Mediando tra le più disparate influenze, che presto elencheremo, José Muñoz costruisce i suoi "fumetti" come poemi, assistito dal compare Sampayo, ardito quanto lui. E se talvolta la trama si fa prosa e racconto, tavola per tavola l’immagine resta verso, resta poesia.
Nella stessa intervista Muñoz elencava tra coloro cui deve qualcosa i fumettisti argentini Breccia, Pratt, Oesterheld; e gli statunitensi (e bisogna insistere sull’uso di questa parola al posto di "gli americani"": poiché sono americani anche i latini, gli indios, poiché l’America è entità ben più vasta degli Usa) Crumb, Deitch, Herrimann, Green, ovviamente l’autore di "Dick Tracy" Chester Gould, Spiegelman, eccetera; e i "fumettari mancati" Godard Fellini Welles Bergman; e i "noiristi" Usa Chandler Hemingway Hammet; e i grandi pittori espressionisti, e Masereel e Grosz, e Van Gogh e Munch e Bacon; e i grandi scrittori argentini Arlt (Arlt soprattutto, così ignorato dagli stupidi lettori italiani) e Borges e Cortàzar; e i grandi autori musica y letras di tango Discépolo, Gardel, Piazzolla; e i grandi jazzisti Usa, in testa ai quali sta la cantante di blues Billie Holiday, cui Muñoz ha dedicato uno dei suoi fumetti più commoventi e più belli, perché il blues e il tango hanno qualcosa in comune, Jessie e Billie e la senoras del tango Libertad, Mercedes, Azucena...
Ce ne vogliono di cose "per fare un mondo". E "per fare un artista", "per fare un fumetto"! Ci vuole una cultura radicata e profonda, pronta a confrontarsi con le culture degli altri nella scoperta di sottofondi comuni e di aperture inconsuete, e ci vuole una cultura tecnica, un know how costruito nella pratica e nell’apprendimento. E ci vuole... la poesia; che è sapersi mettere all’ascolto di una propria, unica ispirazione, e saper costruire un verso, una strofa, un poema. Lasciare che la macchia si rompa e inondi il bianco, ma poi indirizzarla, costruirle dighe e anche romperne; lasciare che il nero inondi i riquadri in cui la pagina bianca è stata divisa secondo una programmazione sapiente, secondo le regole, quelle prescelte e fatte proprie, del racconto, del romanzo...
Per capire Muñoz bisognerà mettersi all’ascolto dei suoi personaggi, della loro saudade o spleen o malinconia e della loro ironia, ripercorrendo con loro le strade della conoscenza; dall’innocenza e disponibilità, alla conoscenza. L’antica trafila di ogni romanticismo, l’apprendistato a una vita che non può non sfociare in disillusione e disincanto, è percorsa dagli eroi di Muñoz con rigorosa serietà (come è di ogni vero eroe/antieroe, anche Alack Sinner e il suo creatore sanno presto che "conoscere è soffrire" e non gliene frega niente di essere degli winner, gli basta essere dei losers con dignità. Non stupisce che nella citata intervista, comparissero tra i "maestri" anche i nomi di attori che furono qualcosa di più che tali e che divennero i loro personaggi, Bogart, Mitchum..., eroi/antieroi molto hemingwayani, che sanno morire in piedi, che la conoscenza ha rattristato ma non domato. Perdenti perché, nel gioco dell’esistenza, nessuno è davvero vincente, ma perdenti di qualità: di morale e di persuasione.
L’innocenza è solo un’età della vita; e tanto meno può esistere una innocenza della collettività se già è così difficile conservare quella del singolo. "Se uno cerca un paese innocente, constata che non c’è".
La parte che è in noi dell’adolescenza-giovinezza può vivere romanticamente anche la sconfitta, idealizzare anche i perdenti che siamo o diventeremo. E il fumetto (il romanzo, la narrazione in ogni sua forma) ha bisogno di idealizzazione se vuole che qualche lettore (o spettatore o ascoltatore) si identifichi con il personaggio e con l’autore e con la loro visione del mondo. Ma è indubbiamente adulta e dura da accettare la constatazione delle sconfitte collettive, la sconfitta delle utopie. Una società che non sogna di diventare migliore e non si dà progetto positivo su cui mobilitare le sue migliori energie è una società di meri consumatori, è una società di robot. Ed è dura vivere in una società come questa, basata sulla dittatura palese o occulta dei vincitori transitori, illusionisti manipolatori di maggioranze. Ne sanno qualcosa gli eroi/antieroi di Muñoz, di quanto costi non farsene avvilire corrompere distruggere...
Ecco dunque il bianco e nero necessario dei vicoli, degli alberghetti infidi e dei locali-rifugio, degli sguardi sospettosi e dei passi guardinghi. Il nero (come nelle sinfonie in nero di Cornell Woolrich e del suo doppio William Irish) è il color del buio, è l’ombra che minaccia ma in cui ci si può nascondere, e di lì aprirsi cautamente a spiragli di luce, a incontri di misteriose ma imprenscindibili, miracolose affinità. Lo stile diventa allora tutto, nelle tavole di Muñoz, e il suo nero, con i corollari del bianco e del grigio, ma anche dei rari colori che talora ne esplodono, il suo nero è la sua ispirazione: l’oscurità da cui si viene, l’oscurità che incombe su di noi, l’oscurità in cui, anche, ci si nasconde. E resta sempre un sufficiente spazio bianco per il contrasto, per le contraddizioni e le magie della vita. 
L’espressionismo metropolitano di Muñoz non può non appartenerci, con le sue ombre e le sue luci. Di quelle ombre e quelle luci così terrene e così immanenti siamo anche noi prigionieri e protetti, nel nostro difficile transito lungo i passaggi noti e ignoti. Da un luogo all’altro, da una immagine all’altra, protagonisti in eterno di una ricerca (di cercati e di cercanti) in cui ci accompagnano le note tristi di un tango o la voce roca di un blues.»
       Goffredo Fofi

1 commento:

Anonimo ha detto...

The last work of José Muñoz:
«Las fieras cómplices» by Horacio Quiroga
http://librosdelzorrorojo2.blogspot.com/2007/09/las-fieras-cmplices_18.html

Great.

Best Regards,

Eric