sabato 13 ottobre 2007

ANTONI TAPIES "Biografia"

RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI

Antoni Tàpies nasce a Barcellona nel 1923. È tra i fondatori della rivista e del gruppo "Dau al Set" (La settima faccia del dado), di impronta neo-dadaista. Nel 1950 tiene la prima personale alla Galeria Layetanas di Barcellona e compie il primo viaggio a Parigi, dove incontra Pablo Picasso. Nei primi anni ‘50 la pittura di Tàpies si volge verso l’art autre. Si susseguono mostre importanti: nel 1952 partecipa alla Biennale di Venezia, dove espone più volte negli anni, e nel 1993 ottiene il premio per la pittura.
Tra la fine degli anni ‘50 e ‘60 si colloca una lunga serie di importanti mostre. Nel 1959 Tàpies partecipa per la prima volta alla Documenta di Kassel, mentre l’anno successivo presenta le sue opere al Museu de Arte di Bilbao. Nel 1962 espone al Kestner Gesellschaft di Hannover, al Guggenheim di New York e al Kunsthaus di Zurigo. Nel 1964 è ancora a Kassel, nel 1965 a Londra, all'Insitute of Contemporary Arts, nel 1967 a San Gallo, al Kunstmuseum, nel 1968 a Vienna, al Museum des XX Jahrhunderts, ad Amburgo e Colonia, al Kunstverein.
Nel 1973 Parigi gli rende omaggio con una retrospettiva al Musée d’Art Moderne.
Nel 1977 espone all’Albright-Knox Art Gallery di Buffalo. Nel 1980 è la volta del Museo Español de Arte Contemporanea di Madrid e dello Stedelijk Museum di Amsterdam. Nel 1981 Tàpies riceve altri premi e onorificenze: la medaglia d’oro per le Belle Arti da re Juan Carlos I e la Laurea honoris causa del Royal College of Art di Londra.
Nel 1984 inizia a lavorare al progetto della Fundació Antoni Tàpies di Barcellona. Il sogno è finalmente coronato nel 1990, con l’inaugurazione ufficiale.
Figura chiave dell’informale internazionale, nell'ambito di questa corrente Tàpies ha svolto il ruolo di tramite tra la cultura surrealista dei suoi inizi, a contatto con Mirò e Picasso, e le successive esperienze oggettuali, che hanno anticipato le sperimentazioni dell’Arte povera. I suoi dipinti, le sue sculture, i suoi libri d’artista hanno segnato uno spartiacque tra le generazioni storiche dell’arte e le neoavanguardie.
Antoni Tàpies: Passione per la materia
Testo di Flaminio Gualdoni tratto dal catalogo della mostra Antoni Tàpies (Lissone (Milano), Museo d'Arte Contemporanea, dal 9 aprile al 26 giugno 2005)
Quando nel 1957 Antoni Tàpies ottiene il X Premio Lissone, il primo d’una serie innumerevole di riconoscimenti internazionali, è giusto all’avvio della propria maturità pittorica.
Di due anni prima è l’incontro fondamentale con Michel Tapié, grazie al quale si compie la sua evoluzione verso l’art autre, e da pochi mesi si è tenuta la prima personale parigina da Stadler, dove ha esposto i frutti della nuove esperienze materiche.
Detto così, questa potrebbe essere la cronistoria breve di una delle numerose "conversioni" all’informale che caratterizzano quel tempo, nulla più nulla meno che l’incrementarsi, per quanto autorevole, della schiera dell’accademismo d’avanguardia. Invece, il caso di Tàpies è singolarissimo e fervido, sia per la strepitosa qualità dell’artista, sia, soprattutto, perché la sua maturazione è il compimento naturale di un percorso già decennale e per molti versi unico, segnato da un intendimento del tutto particolare del patrimonio surrealista.
La frequentazioni con il meglio della cultura catalana, da Joan Prats a Joan Brossa, la breve – e non così determinante, in sé - esperienza di Dau al Set, così come il costante riferimento intellettuale a Picasso, fanno da scenario a una poggiatura surrealista che si nutre, più ancora che di modelli pittorici - e si sono fatti, costantemente e a ragione, riferimenti a Mirò e Klee - di orientamenti intellettuali profondi.
Del milieu surrealista di epicentro parigino Tàpies guarda ai Bataille, ai Caillois: ovvero al versante di ricerca sapienziale delle radici prime, in odore parimenti d’antropologia e di magia, di filosofia e d’alchimia. Non il gioco iconografico, non l’illustrazione onirica lo affascina, ma quello che nelle parole di Picasso è "il sole nel ventre", l’intuizione oscura e prelogica della vita, del generarsi e perdersi della forma, della capacità del segno di fuggire a se stesso verso un riverbero radiante di sensi.
La materia, le visionarie inserzioni oggettuali, le trame grafiche graffite con urgenza concitata e brusca, sono dunque congenitamente impliciti sin dall’inizio, nel suo lavoro. Il problema di Tàpies non è, prima, di essere, di sentirsi, surreale o astratto, così come dopo non sarà di definire la qualità del proprio informale. Altro è il senso, altra la ricerca oscura e potente, della sua pittura.
Nelle opere della seconda metà degli anni Cinquanta, dalle quali prende avvio la pluridecennale grandiosa partitura visiva del lavoro di Tàpies, l’intuizione profonda del senso della materia è valore chiave.
Lo stesso artista scrive di "una specie di materia prima interiore", che egli non intende "come un mondo a parte, ideale o soprannaturale, ma come l’unica, totale e veridica realtà, della quale tutto si compone".
La materia come sostanza oscura ma dotata di plurime vocazioni, della quale l’artista può farsi complice agonistico nel processo continuo di formatività, nel flusso generativo dagli snodi imperscrutabili: non per equivalenza naturale, come è di altri artisti in questa stagione, ma per intuizione definitiva del senso stesso del divenire permanente dalla quantità alla qualità.
L’artista affronta la materia, ne assedia le smemoratezze, la fa crescere e formarsi come realtà in se stessa. Non gli importa riconoscerle, men che meno imprimerle, un destino, un lògos comunque: il senso del processo è di eccitarla a dirsi, a farsi generazione, nel flusso mobile e mai padroneggiabile che le è proprio.Il suo dunque non è un informe, piuttosto un per non formare; non un fare, piuttosto un agire.
In queste tangenze evidenti con antiche sapienzialità, non banalmente nutrite anche di suggestioni orientali, risiede un atteggiamento che non si riconosce in alcun dover essere della pittura, men che meno nell’idea corrente di linguaggio, e di stile.
Esso comporta, anche, un grado di politicità assai preciso, in quanto implica una svalutazione della nozione stessa di forma come portatrice di una funzionalità, comunque eteronoma. Meglio scavare negli strati sostanziosi, negli scacchi allo spazio e alla luce, una condizione di straniamento alla modernità ossedente, e un sapere reale del quale non sia possibile l’esproprio da parte delle culture costituite.
"Io sono stato catalogato nell’informalismo, ed è un’etichetta da cui non posso sbarazzarmi. E ciò mio malgrado, perché non ho mai firmato alcun manifesto in favore di qualsiasi movimento. Ma sono scritto nella storia come un informale". Così Tàpies, ribadendo nel 1973 la transitorietà di tali aspetti esteriori del suo fare rispetto alla ragione fondativa, e incoercibile, che ne ha guidato le scelte.
Dunque, il quadro non rappresenta delle cose, ma è una cosa; non racconta la realtà, perché è, in se stesso, realtà.
Tàpies ne ausculta le fisiologie, all’inizio, con una sorta di ispido rigore. I materiali, i colori avari, i primi oggetti di umile e potente presenza, sono gli elementi apodittici con cui Tàpies costruisce i titoli stessi. Ma, più, sono le sostanze delle quali egli asseconda i tortuosi flussi formativi, immettendovi il lievito di una sorta di visionarietà che incontra, per vie accidentate, i propri segni.
La materia è forte, ricca, d’un turgore che lascia erompere il rapporto insieme sensuale e interrogativo che l’artista accetta d'intrattenervi: egli non la eccita, piuttosto ne provoca una sorta di sorda umiltà fisiologica, un pudore altamente anestetico, perché l’immagine che ne nasce non è illusione, né teatro: è effettiva figura del possibile, con il corpo suo, la sua anima, la sua propria vita.
Questo procedere per moti taciti e convulsi si nega anche, per un tratto d’esperienza, l’eventualità stessa della captazione sensuosa. Scrive lo stesso Tàpies nel 1958: "L’opera è frutto di una lenta gestazione dell’artista. Prende per così dire l’abitudine di pensare e di reagire per mezzo di immagini che poi in modo quasi inconscio, si decantano, si imprimono o si cancellano. Ma quando crediamo, di potere di punto in bianco, lavorare su di una determinata idea, ci accorgiamo che anche l’opera comanda, perché ha le sue leggi - interne ed esterne - di sviluppo. Si ribella e ci impone le sue condizioni come i personaggi di Pirandello. Come ovunque vi sia vita, si svolge un dialogo tra l’autore e la materia della sua opera. All’inizio lo scopo non è sempre chiaro: ‘il cammino si forma sotto i passi". E ribadirà più avanti, a proposito di questa fine decennio, la propria "forte avversione per il colore", quella che lo induce a rastremare il proprio campire al bianco e nero, poi alla dominante grigia, in odore di monocromia.
Il suo è un ragionare di sostanza spaziosa, anzitutto, sostanza/spazio come luogo di scorrimento tra l’innesco proiettivo primo della sensazione e lo spessore astratto di coscienza che la avverte: è spazio dunque non statuito, postulato, condizionale, ma avvertito fin dal grumo genetico primo del processo come tensione, e relazione; come dramma sospeso. Ed è ragionare di una luce che su quello spazio incide cruda, facendosi di quello spazio sostanza e identità non per trascrizione, non per traduzione, ma per qualità e vocazione propria, specifica, che ne svela i differenziali, le movenze, i caratteri.
Nelle nominazioni del tempo, anch’egli viene annesso all’allora conclamata "poetica del muro". La consistenza della superficie, fatta spalto resistente, pieno, anziché schermo di proiezioni; la sua oggettività indeclinabile, presente, forte, questo dicono. Ciò farebbe e fa di Tàpies, in quel momento, un fenomeno di grande novità e attualità, comparabile con uno spettro d’esperienze che va da Fautrier a Burri, da Kline a Twombly a Scanavino. Egli tuttavia sa, da buon spagnolo, che il proverbio che avverte: "non lasciare che sia il critico a insegnarti il movimento del drappo", non vale solo per i toreri. Dunque, poco gli importa di aggregazioni e di mondanizzazioni entro il sistema artistico. Altra è la sua misura.
Il suo corso espressivo si nutre anche di assunzioni e di immissioni oggettuali in cui la cosa adespota, contaminando il piano di alterità che l’aspettativa attribuisce al pittorico, si avvia verso una deriva sontuosa di senso. Nessuna diretta eco dada, beninteso, sul versante del ready-made. Semmai, una rilettura che monta alla ragioni sorgive del collage picassiano, alimentata parimenti dalla "situation surréaliste de l’objet", e che ha alle viste, fondamentalmente, la possibilità di dar vita a situazioni oggettuali ulteriori. Quella che viene indicata come la scultura di Tàpies ne è in realtà una declinazione di tipo totemico con implicazioni di laico feticismo, che ha a che fare con la "situation", appunto, e con lo snodo psicologico tra riconoscimento e trascorrimento visionario che sarà, anni dopo, dell’arte povera.
Integrato alla forma-pittura, l’oggetto vale invece eccedenza fantasticante e cortocircuito dell’avvertimento del reale. In Tàpies, meglio che dovunque, l’arte celebra la propria possibilità di sottrarsi a quella che Lacan le attribuisce come "fonction de l’écran", restituendo totale responsabilità al "regard" e alla sua identità. Cosa tra cose, il quadro non si perde tuttavia dietro le fisime di un oggettivismo proclamato: è, comunque, pittura, in bilico tra la fissità esemplare e compiuta che le chiediamo e l’essere momento-pausa di un fluire accidentato e imperscrutabile, nella misura ineffabile di un tempo, esso sì, autenticamente autre.
Questo dicono, tra l’altro, le delucidate strategie compositive cui Tàpies ricorre. La croce, al di là dell’evidente simbologia, è assunta come struttura originaria dell’idea stessa di spazio, e sottoposta e deroghe potenti, così come il disassetto dei punti d’equilibrio, oppure la enfatizzazione del bordo, e soprattutto la forzatura delle diagonali e delle tensioni curvilinee. Sottraendoli alla responsabilità struttiva che il comporre pittorico ha loro storicamente attribuito, l’artista recupera tali elementi a una visione - questo è una dei passaggi decisivi della sua esperienza - in quanto segni dei quali sia in gioco la significanza, e l’accelerazione simbolica, dunque la differenza.
Mentre il dibattito artistico si è affannato a cercar di sceverare quale sia l’informale materico rispetto al segnico, Tàpies ha proceduto per brusca unificazione a indicare che, in realtà, di falso problema si tratta. I segni sono lì, d’altronde, anch’essi oggetti adespoti nel mondo, capaci di risignificarsi e di schiudersi in gorghi ulteriori: a cominciare dai graffiti.
"Malgrado le sue radici popolari il graffito ci evoca mondi di gravità e trascendenza. Il proibito e il peccaminoso, il cerimoniale sacrilego, plasmati su pareti umide di orinatoi o sui fatiscenti disperati templi della suburra, ci riportano a sacrifici religiosi, a delitti rituali che aspirano a far nascere nuove vite. La pintada è lo squillo di tromba in pieno sole. Il graffito sa più di Eraclito e di Ermes, di Nicola Cusano e di Amleto. Luci e ombre, tutte e due necessarie, che si complementano e si fondono, che, demolite nel mondo d’oggi, perdureranno forse per sempre nello spirito di un’ arte e di una visione del mondo che si nega alle speculazioni urbane dei bulldozer, all’asfalto, al cemento, all’asetticità funzionale dell’organizzazione perfetta, alla stabilità confortevole, conformista, castrante... e che può finanche diventare dominatrice, terroristica e tirannica.
La pintada è vitale. Essa distrugge i piedistalli del falso ordine e l’ipocrisia dei valori che non concedono amnistie. E a volte può essere il grido del sole e il rosso sangue delle quattro ditate che sono il simbolo della nostra libertà e democrazia. Ce la toglieranno dalle strade ma essa risorgerà più forte e sicura dalle mani degli artisti e dei poeti". Così, nel 1984, Tàpies, a instaurare con i segni del mondo, con quella sorta di landa postalfabetica così consanguinea, nel sapere primo, alla "logique de la pensée préalphabétique" cara a Leroi-Gourhan, un rapporto profondamente empatico e allo stesso tempo sovranamente arbitrario. E dice di lui Arnaldo Pomodoro, a sua volta geniale uomo di segni: "Mi colpisce la costruzione architettonica che riesce a dare al quadro: che è un dettaglio ingigantito, dove non vedi mai l’intera struttura e guardando ricordi un particolare, un segno soltanto…".
Per questo, nei decenni, il suo quadro essendo cosa, sostanza di objecthood, è sempre anche, allo stesso tempo e per identificazione primaria, pagina. Per questo Tàpies lavora sulla carta, e sull’idea stessa di libro, senza nulla mutare della propria tensione, della propria coscienza incoercibile.
Per questo ancora, di fronte a questi segni urgenti, a queste materie stratificate ed elise, a questi oggetti al limite d’una vita possibile, noi avvertiamo comunque un’unica tensione, un unico sentir vivere e sentirsi vivere, una idea di corporeo che non si lascia ridurre all’arbitrio della logica.
Questa è la potenza di Tàpies, questo l’enigma geniale della sua opera, consegnata al nostro sguardo.

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