lunedì 31 marzo 2008

MAMMA COME NASCE UN IDEA?

a cura DI D. PICCHIOTTI

Nel pensiero di Platone l’uomo costituisce un ponte fra il mondo sensibile e il Mondo delle Idee: l’anima dell’uomo, precipitata sulla Terra dal Mondo iperuranio, riacquista le ali grazie a Éros, e può tornare a contemplare la perfezione delle Idee. L’imperfezione del mondo sensibile giustifica la difficile e drammatica riconquista del Cielo da parte degli uomini; la perfezione delle Idee e del loro mondo non giustifica l’esistenza del mondo sensibile. Nel Timeo Platone spiega il “mito verosimile” del Demiurgo, la cui azione ordinatrice collega il Mondo delle Idee al mondo fisico, trasformandolo da materia informe in kósmos, anzi, in un “essere vivente”.
 
Quando e come nasce il pensiero? Ma con l’uomo stesso, naturalmente. Non appena l’uomo nasce automaticamente comincia a pensare, a consiederare, a giudicare. E’ la funzione naturaledella vita. La vita si muove, si pensa, pensa soprattutto se stessa, si vive e gioisce della propria esistenza. Quando la vita si pone in un mondo di materia - che è quello in cui viviamo - fa muovere le forme che quest’ultimo assume, le fa divenire, le rende apparentemente coscienti.
La filosofia occidentale fa risalire i primi tentativi di organizzare il pensiero in formulazioni precise interno al 600 a.c. Probabilmente questo sarà il caso qui in occidente, ma i primi scritti vedici risalgono a una data ben anteriore. Quando parliamo di Talete, quindi, non possiamo parlarne come del primo filosofo della storia. Il Maha-bharata risale a migliaia dianni prima di Talete, e ancora più antico è il Ramayana, ma erano queste scritture opere che trattavano di vera scienza e filosofia, oppure vanno relegate nel mondo del mito? Altra vecchia questione.
I libri di storia della filosofia sostengono che prima di Talete furono fatti tentativi di “filosofare”, e cioè di dare spiegazioni razionali ai fenomeni della vita, ma il loro tentativo dovrebbe essere paragonato a quello di un bambino che tenta di mettersi una cravatta. Tutto si è risolto, sostengono gli studiosi, in un cercare di risolvere un mistero con un altro mistero (vedi Esiodo). Ma è una tesi corretta, questa? La mitologia greca, ad esmepio, propone tesi che con ogni probabilità fanno capo a teorie preesistenti provenienti dall’oriente. Sarebbe sufficiente un breve lavoro di comparazione per vedere quante similitudini esistono con le scritture vediche, come i Purana o il Maha-bharata. Ci viene da domandarci se fra uno scopiazzamento e l’altro alcuni autori antichi non avessero commesso il solito errore di svuotare certe informazioni o storie dei loro contenuti, trasformandoli in infantili, per quanto artistici, racconti mitologici. Quando i Veda parlano di Indra - che nella mitologia greca corrisponde a Zeus - o di Agni - Vulcano - o di Varuna - Poseidone - ne parlano in un contesto così scientifico da far cambiare completamente senso alla cosa. In altre parole, ciò che per gli storici moderni erano mitologie, per i Veda sono storie e personaggi realmente accadute e vissuti. Mitologie, dunque? Simbolismi? Prodotti della fantasia di un poetico autore. Dipende. Dovremmo discriminare.
Ma la fantasia, che ruolo ha? Siamo sicuri di dare il giusto significato al termine? Fantasia è fantasmagoria, una forma inesistente colorata e abbellita dall’intelletto di un certo senso estetico. Dunque un uomo può accomunare l’informazione della montagna e dell’oro e sognare una montagna d’oro. Quest’ultima non esiste, ma la montagna sì, e anche l’oro. Ma non possiamo sognare o inventare una cosa totalmente inesistente; possiamo colorarla, abbellirla, aggiungere altre cose - e anch’esse devono essere esistenti -, ma non inventare di sana pianta. Quindi la fantasia, come creazione di una cosa dal nulla, non esiste. Il fatto è che dobbiamo imparare a scindere gli elementi che compongono una data cosa, una data descrizione, e porli ognuno nella giusta prospettiva e dimensione: isolarli per poterli esaminare, insomma, per poi magari rimetterli insieme dando un giudizio complessiva della loro composizione.
Si parla di mitologia, dunque; ma stiamo attenti a non commettere errori per troppa fretta: nei Veda ci sono molte “mitologie” che poi si sono rivelate realtà storiche o scientifiche.
Nel corso del tempo gli studiosi che hanno indagato nel pensiero antico hanno sviluppato un loro particolare metodo di suddivisione e di analisi. Per questioni pratiche ritengo che sia utile usare anche noi lo stesso metodo.
I primi pensieri organizati in modo da avere una struttura didattica precisa anche se magario semplice risalgono a circa 600 anni prima di Cristo. Questo periodo è chiamato periodo greco- romano, perchè appunto è acaratterizzato da filosofi greci (per la prima parte) e romani (per la seconda). Questo periodo va dal sesto secolo prima di Cristo fino al sesto secolo dopo Cristo.. Undici secoli, dunque. Tradizionalmente, questo periodo viene diviso in tre momenti, che sono i seguenti:
- periodo che precedette l’avvento di Socrate. I pensatori di quel periodo vengono chiamati presocratici e sofisti. Vedremo poi perchè questi sono considerati due gruppi separati. Questo periodo va dalla nascita di Talete, che si presuppone avvenuta intorno al 630 ac., fino al 450 ac. Durò quindi duecento anni circa.
- Il periodo della grande filosofia greca, che comprende i nomi più famosi: Socrate, Platone, Aristotele. Questo periodo va dal 450 fino alla morte di Aristotele, avvenuta nel 322 prima di Cristo. Circa 130 anni.
- Infine il periodo delle scuole di pensiero che fiorirono dopo Aristotele, pèer questo chiamate post-aristoteliche. Si va dalla morte di Aristotele fino al sesto secolo dopo Cristo. Si può anche fissare una data per la fine dell’affascinante pensiero classico: nel 529 Giustiniano fece chiudere le scuole filosofiche di Atene, segnando ufficialmente la fine del pensiero pagano e greco.
Se consideriamo bene questa divisione, vedremo che ha una certa logica non solo storica, ma anche concettuale. I filosofi di quei tempi erano uniti da metodi di ricerca o da conclusioni che talvolta si accostavano, altre volte divergevano, ma in sostanza avevano molto in comune. Ad esempio, alcuni di loro vedevano la causa della creazione nell’elemento acqua (Talete) e c’era chi dissentiva relegandolo invece all’elemento aria (Anassimene), mentre qualcuno già spaziava su livelli più concettuali e sottili (come Anassimandro), ma un filo comune li univa tutti: la natura che osserviamo è la causa di se stessa.
Come spesso è accaduto nel corso della storia, la filosofia, il pensiero non potevano non riflettere il mondo dove gli uomini vivevano. Quindi questi raggruppamenti filosofici non hanno solo un carattere sotrico (non sono soo accomunati solo dal fatto di essere vissuti nello stesso periodo) ma anche da altre forti somiglianze. Vediamole insieme.
I sistemi del primo periodo concordano in una caratteristica fondamentale: il monismo materialistico e panteistico. Fa eccezione, come vedremo, il solo sistema concepito da Pitagora, che si avvicina di più a quello partorito dalla poetica mente di Platone.
Cosa s’intende per monismo? Questo termine proviene dal greco monos, cioè uno. Quando un pensatore arriva alla conclusione che tutta la realtà dev’essere racchiusa in un unico elemento, è chiamato monista. Quando gli si contesta il fatto che la creazione non è “monos”, un blocco unico, ma è molteplice, diversificata, e che quindi la sua causa non può essere “unica” in qualità, egli ribadisce che i vari aspetti dell’universo nascono dal diverso e mutevole atteggiarsi dello stesso eleemnto primordiale. Ma entreremo nelle disquisizioni concettuali in seguito. Quindi per monismo materialistico s’intende quella dottrina che individua questo unico elemento nella materia. E panteismo cosa significa? Quando si ritiene la materia origine di tutto, questa acquista automaticamente i caratteri della divinità, ossia della causa prima di tutti gli enti: questo significa panteismo, cioè: l’origine di tutto, il dio inteso come entità e non come persona, è la materia tutta.
Vediamo ora i sistemi del secondo periodo,quello dei grandi filosofi. La caratteristica fondamentale nella quale essi concordano è la tesi opposta, e cioè il dualismo metafisico. Vediamo cos’è il dualismo. Dualismo, due, ha un sifgnificato evidente: l’origine di tutto non può essere un agente solo, bensì due, lo spirito e la materia, esistenti in ogni cosa che vediamo e sperimentiamo. C’è la vita e la morte, il movimento e l’inerzia, l’organico e l’inorganico. L’origine di tutto deve essere “duale” per poter spiegare le differenze che esistono nella realtà.
Per metafisico s’intende qualcosa che è oltre il mondo, cioè lo spirito, la trascendenza.
Nel terzo periodo invece i filosofi rifiutano ciò che veniva considerato un progresso e ritornano alla concezione del monismo materialisticxo, anche se cercano di presentarlo in una veste nuova. Le scuole più importanti, come vedremo, sono l’epicuriesmo, lo stoicismo, lo scetticismo e il neoplatonismo. Mentre le prime due scuole proclamano il ritorno all’indagine della natura maetriale e del trionfo della stessa, lo scetticismo dichiara l’impossibilità umana di raggiungere certezze di verità attraverso la filosofia, e cioè attraverso la propria intelligenza.
Il neoplatonismo inaugura invece una nuova forma di monismo, destinata a una grande fortuna nella storia della filosofia: il monismo spirtualistico e panteistico. Secondo questa dottrina l’elemento unico non è più la materia, ma lo spirito, che è identificato con Dio, quindi diventa panteistico. Secondo questa ipotesi Dio non è certo una persona, ma entità dispersa negli eleemnti spirituali.
A parte quindi il periodo d’oro della filosofia classica, caratterizzata dai tre giganti Socrate, PLatone e Aristotele, i caratteri essenziali del pensiero di quel tempo sono due:
1) la materia è la realtà, non esiste una trascendenza,
2) la materia è eterna, non soggetta al decadimento del tempo.
Nel prossimo articolo tratteremo degli affascinanti sistemi filosofici enunciati dai pensatori che precedettero Socrate e dai sofisti.
Ecco, in questo primo articolo ho voluto dare una panoramica di cosa s’intende per filosofia. Spero di essere stato chiaro. La filosofia (quella buona, s’intende, come per ogni cosa) allieta ed eleva l’animo umano, lo pone su un piano di nobiltà perchè mette in moto precise dinamiche interiori: il pensiero, la ricerca del vero, del buono, di ciò che è verità; la ricerca del sè, di cosa siamo noi, e delle cose tutte che sono al di là di noi stessi. Se poi arriveremo alla conclusione che l’esistenza non esiste, oppure che esiste solo ciò che sperimentiamo direttamente, oppure che oltre questo mondo di materia transiente e illusoria esiste un Dio trascendente, che egli sia mero concetto astratto, o energia, opersona senziente, almeno potremo dire di esserci arrivati nella giusta maniera (al di là della diquisizione di ciò che è giusto o sbagliato), e cioè attraverso la ricerca sincera.

QUESTA BELLISSIMA POESIA SCRITTA DA EMILIO COLLODEL ERA GIA NATA CON LUI.

I FIORI DI EMILIO

I fiori sono come le persone,
nascono, crescono
e poi arriva il giorno di morire.
Il loro corpo è debole e sottile
ma danno una gioia immensa,
un fiore può dire
anche amicizia, anche odio,
ma un fiore rimane sempre un fiore

sabato 29 marzo 2008

ARISTOTELE

a cura DI D. PICCHIOTTI

Aristotele inizia la sua carriera di filosofo criticando la teoria delle idee di Platone. Naturalmente tale dottrina era discussa a fondo dal maestro e tra i discepoli, però Aristotele si distingue subito per averne affermata radicalmente l'inutilità. La teoria delle Idee, secondo Aristotele, complica inutilmente la spiegazione della realtà: le idee sono più numerose degli individui (se diciamo ad esempio che l'uomo è un animale razionale, troviamo in ogni individuo già almeno tre Idee, quella di uomo, di animale, e di razionale). Se poi si dice che gli individui sono simili all'Idea, si deve riconoscere che questo singolo uomo e l'Idea (di Uomo in sé) non sono simili di per sé (infatti l'individuo non possiede certo l'universalità dell'Idea, è un uomo in particolare e non l'Uomo in sé); devono allora essere simili in virtù di un terzo uomo che, sia simile da un lato all'Idea e dall'altro all'individuo; ma per poter far ciò, il terzo uomo ne esige un quarto, e questo un quinto e così via all'infinito. Insomma, il solco tra le Idee e gli individui si rivela incolmabile. Per sanare il radicale dualismo platonico bisogna dichiarare che reali sono proprio gli individui (ecco la trovata di Aristotele!): è nelle cose visibili che va cercata la causa stessa della realtà, degli individui, del loro divenire. Con l'abbandono del platonismo, Aristotele si dedica ad una sistematizzazione del sapere talmente profonda che egli sarà il culmine del pensiero greco antico. Non solo: le sue idee influenzeranno il mondo occidentale per molti secoli per cui non c'è branca del sapere che non abbia risentito dell'impronta, diretta o indiretta di Aristotele.

Aristotele divide le scienze in tre gruppi: le scienze teoretiche (la filosofia prima o metafisica, la fisica e la matematica), le quali ricercano la conoscenza disinteressata della realtà e si occupano dell'essere necessario (Dio, mondo, numero), mentre le altre si occuperanno dell'essere possibile (ogni altra cosa che esiste); le scienze pratiche, che comprendono l'etica e la politica, le quali ricercano il sapere per raggiungere la perfezione morale e sono di guida alla condotta umana; e infine le scienze poietiche o produttive (le arti e le tecniche), che ricercano il sapere in vista del fare, per produrre i vari oggetti.
Metafisica
La scienza più alta è per Aristotele la metafisica (che in realtà lui chiamava filosofia prima e, più tardi, verrà anche detta ontologia, cioè studio dell'essere), la quale viene da lui definita in quattro modi: essa è la scienza che studia le cause e i principi primi, studia l'essere in quanto essere; studia la sostanza; studia Dio e la sostanza immobile. Dire che la metafisica studia l'essere in quanto essere significa che essa non ha per oggetto una realtà in particolare, bensì la realtà in generale, cioè gli aspetti fondamentali e comuni di tutta al realtà. In altri termini, la matematica studia l'essere come quantità, la fisica studia l'essere come movimento, solo la metafisica studia l'essere in quanto tale, considerando le caratteristiche universali di ogni essere (ecco perché è chiamata "filosofia prima" mentre la altre scienze sono "filosofie seconde"), ed è dunque il presupposto indispensabile di ogni ricerca.
Se la metafisica è lo studio dell'essere, che cosa è l'essere? Aristotele dice che l'essere ha molteplici aspetti e significati (noi diciamo ad esempio che l'uomo è, la neve è sui monti, Dio è...). Esso viene perciò diviso da Aristotele in quattro gruppi principali: l'essere come categoria; l'essere come potenza e atto; l'essere come accidente; l'essere come vero (e il non essere come falso). Noi vedremo brevemente i primi tre aspetti.
Col termine "categorie" Aristotele intende le caratteristiche fondamentali che ogni essere possiede. Esse sono dieci: sostanza, qualità, quantità, relazione, agire, subire, dove (luogo), quando (tempo), avere e giacere. La prima di esse, la sostanza, è la più importante perché è il riferimento comune alle altre categorie che, in qualche modo, la presuppongono (la qualità ecc. è sempre riferita a qualcosa che esiste di già: l'uomo, ovvero la sostanza, è alto, uno, padre, cammina ecc.). Il che ci porta a concludere che, se l'essere si identifica con le sue categorie e le categorie si riferiscono alla sostanza, la domanda su "che cos'è l'essere ?" si trasforma in "che cos'è la sostanza?".
La sostanza è in primo luogo ogni individuo concreto (uomo, cavallo, albero, tavolo ecc.) a cui si riferiscono delle proprietà che lo caratterizzano. E' quindi un sinolo, unione di due elementi che Aristotele chiama materia (hyle) e forma (eidos, morphé). La forma è la "natura" propria di una cosa, è ciò che la rende quella che è e la distingue dalle altre; è dunque la sua "essenza", il suo significato fondamentale, il suo "essere dell'essere". La materia è invece ciò di cui una cosa è fatta, ciò di cui è composta (ad esempio un uomo è fatto di carne ed ossa; una sfera è fatta di bronzo ecc.), ed è dunque un elemento passivo, che viene 'strutturato', dalla forma, nel senso che è la forma che rende ad esempio l’uomo 'animale razionale', mentre la materia sarà il corpo dell'uomo. Entrambe però, la materia e la forma, sono necessarie per fare una sostanza: non può esistere un uomo senza il corpo (materia), né l'anima (forma) senza il corpo.
Se la forma è l'essenza necessaria, da essa si distinguono gli accidenti, i quali sono le varie qualità che si possono avere o non avere senza per questo influire sulla sostanza stessa. Ad esempio Socrate non cessa di essere uomo mentre può essere allegro, triste, sano, malato, ecc. Per cui mentre l'accidente cambia nel tempo, la sostanza rimane la stessa, identica, pur nel mutare delle varie qualità.
Se la forma è l'essenza necessaria, è ciò per cui ogni essere è necessariamente quello che è, allora essa è anche la risposta che possiamo dare circa il che cos'è? di una cosa, in quanto definire un essere vuol dire chiarirne l'essenza (che cos'è questo? è un uomo; cos'è un uomo? un animale razionale). Questo ci porta a fare un breve excursus in ambito logico per accennare al principio di non contraddizione (lo vedremo meglio più avanti): esso sostiene che ogni essere ha una natura determinata che è impossibile negare di esso e quindi, in questo senso, gli è necessaria, non potendo essere diversa da quello che è. E' espresso da Aristotele nel modo seguente : "è impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia". Il che viene dimostrato da Aristotele per assurdo dicendo che, se una parola ha un significato, non è possibile che A sia insieme B e non-B, cioè ad esempio che 'uomo' sia insieme 'animale razionale' e 'non animale razionale'. Ne riparleremo tra qualche pagina.
Tornando alla sostanza, possiamo notare che praticamente ogni cosa è una sostanza, in quanto di ogni cosa - da Dio al più piccolo sasso - si può sempre e comunque chiedere che cos'è?. Ciò significa che tutti gli esseri, prima di qualunque altro valore, hanno questo che li accomuna: il fatto di essere delle sostanze. Il che implica che, per Aristotele, tutte le scienze, in quanto sono tutte rivolte alla ricerca e alla definizione delle sostanze, abbiano la stessa dignità. Con questa idea Aristotele ha ulteriormente abbandonato il Platonismo, giacché per Platone valeva la pena di indagare solo ciò che era ottimo e perfetto e le scienze della natura non erano in fondo delle 'scienze' ma solo delle opinioni probabili. Per Aristotele invece ogni scienza ha valore di per sé. Egli ha quindi giustificato il valore della ricerca scientifica nel suo senso più ampio (ed ecco perché si è occupato di ogni ramo dello scibile) ed ha eliminato il pregiudizio platonico contro l'indagine della natura.
Aristotele afferma, come già Platone, che la conoscenza nasce dalla meraviglia nei confronti della realtà e consiste nel chiedersi il perché delle cose. Ma chiedersi perché una cosa esista o perché sia così e non altrimenti, equivale a chiedersi qual è la causa (= condizione, fondamento, ragione) della cosa stessa, e quindi vi potranno essere diversi tipi di cause. Aristotele elenca quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale.
La causa materiale è appunto la materia, ciò di cui una cosa è fatta (il bronzo è la cosa materiale della statua). La causa formale è la forma o essenza della cosa (la 'ragione' è la forma o essenza dell'uomo). la causa efficiente è ciò che dà origine, inizio a qualcosa (il padre è la causa efficiente del figlio). La causa finale è il fine, lo scopo a cui una cosa tende (il diventare adulto è la causa finale del bambino). La teoria delle cause è legata al problema del mutamento o, meglio, del divenire. Che vi siano delle cose che mutano è una esperienza quotidiana. Ma come poter definire il divenire il generale? Per Aristotele il divenire è il passaggio da un tipo di essere ad un altro. In breve, l'unica realtà è l'essere, ed il divenire è soltanto uno dei modi dell'essere. Approfondendo la questione Aristotele elabora i concetti di essere in potenza e di essere in atto. La potenza (dynamis) è in generale la possibilità, da parte di qualcosa, di cambiare, assumere dunque una certa 'forma'. L'atto (energheia) è la realizzazione di quel cambiamento, è la cosa esistente che si ottiene in seguito al cambiamento. Ad esempio un pulcino è in potenza un gallo, come il gallo è il pulcino in atto (l'atto viene anche chiamato entelecheia, cioè realizzazione o perfezione attuata). L'atto è per Aristotele superiore alla potenza poiché è la causa, il senso, il fine di ciò che è in potenza. Alla domanda se è nato prima l'uovo o la gallina, Aristotele risponderebbe 'la gallina', proprio perché la gallina è la realizzazione compiuta di ciò che è solo in potenza, che potrebbe avvenire ma non è ancora, mentre solo ciò che è in atto ci permette di conoscere quello che è in potenza.
Non ci rimane che illustrare la metafisica come 'studio di Dio'.
Sviluppando un argomento già presente negli ultimi dialoghi platonici, Aristotele sostiene che la materia non può avere in se stessa la causa del proprio movimento. Dunque tutto ciò che si muove, è necessariamente messo in moto da qualcos'altro. Questo qualcos'altro, poi, se è anch'esso in movimento, è mosso da altro ancora (come la pietra è mossa dal bastone, che è mosso dalla mano, che è mossa dall'uomo). Orbene, in questo processo di rimandi non si può procedere all'infinito perché altrimenti rimarrebbe inspiegato il movimento iniziale, dalla cui constatazione siamo partiti. Non potendo così andare all'infinito, vi devono essere dei principi, ovvero dei motori immobili a cui fanno capo i vari movimenti e, a maggior ragione, vi deve essere un principio primo e immobile, un Primo Motore Immobile, a cui fa capo tutto il movimento. Per Aristotele questo Motore Immobile è Dio stesso, a cui il filosofo attribuisce anche altre caratteristiche. Prima di tutto Dio deve essere un atto puro, cioè un atto senza potenza, giacché la potenza è la possibilità di cambiamento mentre Dio, se è Motore Immobile, non può essere sottoposto al mutamento. Inoltre Dio deve anche essere forma pura o sostanza incorporea perché è appunto privo di materia.
Alla domanda: come può il Primo Motore muovere restando immobile? Aristotele dice che esso non muove come una causa efficiente, dando un impulso, ma muove come causa finale, cioè come 'un oggetto d'amore'. In altre parole, il Primo Motore muove come l'oggetto d'amore attrae l'amante, pur restando immobile. Dio è la Perfezione che, come una calamita, attira e quindi muove il mondo. Di conseguenza, l'universo è una sorta di sforzo della materia verso Dio e quindi, in pratica, un desiderio incessante di prendere 'forma', Non è tanto Dio che dà forma al mondo, ma è piuttosto il mondo che, aspirando a Dio, si auto-ordina (non si dimentichi che per i Greci l'universo non è creato, non ha avuto origine, sussiste da sempre).
Un'altra caratteristica del Dio aristotelico è che è vivente. Ma di quale tipo di vita? Quella che per Aristotele è la più perfetta, quella che all'uomo è possibile solo per breve tempo, e cioè la vita del puro pensiero, della contemplazione (theoria). E che cosa contempla Dio? Non può che contemplare la cosa più perfetta e quindi... contempla se stesso: egli pensa se stesso, è 'pensiero di pensiero'. Si noti che Dio non è però unico. Per i Greci era 'divino' tutto ciò a cui si può attribuire l'eternità e l'incorruttibilità, per cui sono divine molte cose, come le sostanze soprasensibili, l'anima razionale dell'uomo e anche i motori dei cieli. Aristotele pensava infatti che il cielo fosse in realtà costituito da moltissime (da 47 a 55) sfere celesti, ognuna delle quali veniva mossa da una intelligenza motrice, che era dunque divina, analoga al Primo Motore ma inferiore a lui, anzi inferiori le une alle altre, come sono gerarchicamente inferiori le sfere che, una dopo l'altra, sono tra le stelle fisse e la terra. E si ricordi, in ultimo, che il Dio di Aristotele non è né creatore e né provvidenza. Esso non crea il mondo dal nulla (questa è una concezione ebraico-cristiana) visto che il mondo è eterno; non conosce e non ama il mondo giacché l'amore è visto come una imperfezione, in quanto è la tendenza a ricercare ciò di cui abbiamo bisogno (ricordate Platone?) mentre, se Dio è perfetto, non può avere bisogno di nulla e quindi non può amare. Il Dio di Aristotele è insomma una statica perfezione che si bea eternamente di se stessa.
Fisica
Com'era visto il mondo da Aristotele? Pensate che quanto egli sostenne rimarrà tale fino al 1600, quando Galilei e altri daranno origine alla scienza moderna. Vi è, secondo Aristotele, il mondo celeste ed il mondo sublunare, in cui è situata la Terra. Le sostanze del mondo sublunare sono costituite da quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. Ogni elemento si muove in una direzione determinata dal suo peso; ciascuno di essi ha quindi un luogo naturale a cui tende (per Aristotele non c'è il vuoto perché in uno spazio vuoto nulla offrirebbe resistenza e quindi non ci sarebbe differenza di velocità tra corpi pesanti e corpi leggeri). La terra, in quanto corpo più pesante, occupa il centro dell'universo, Al di sopra della Terra vi sono la Luna, il Sole, i pianeti e le stelle. I corpi celesti sono legati ad una serie di sfere concentriche, che si muovono in cerchio (perché è il moto perfetto) intorno alla Terra. Il movimento circolare è eterno, così come è eterno il mondo nel suo complesso ed eterne le specie animali e vegetali che lo popolano (bisognerà aspettare Darwin per contestare questo aspetto). Il moto circolare è proprio delle sostanze incorruttibili ossia dei corpi celesti. Essi sono composti da una quinta essenza o etere. I processi di generazione e corruzione sono propri solo delle singole sostanze del mondo sublunare.
Nel mondo sublunare vi sono molte specie viventi. Non ogni corpo ha naturalmente la vita: basti pensare alle pietre o ai metalli. Solo un corpo organico, ossia un corpo dotato di strumenti in grado di svolgere certe funzioni, può avere la vita in potenza. L'anima, secondo Aristotele, non può esistere indipendentemente dal corpo: essa è l'atto perfetto o entelecheia di un corpo che ha la vita in potenza; mentre il corpo è la 'materia' di quel sinolo (composto) che è l'essere vivente. L'anima ha diverse funzioni: quella nutritiva e riproduttiva (che è anche comune a piante ed animali), quella sensitiva (propria solo degli animali e degli uomini : si ricordi che per Aristotele è il cuore e non il cervello il centro delle funzioni percettive e fisiologiche), e infine quella intellettiva, propria solo dell'uomo, che è un intelletto che non ha bisogno di un supporto corporeo per svolgere il suo compito (ad esempio giudicare il vero dal falso, ciò che è da desiderare o da fuggire ecc.). L'intelletto è in potenza e diventa in atto quando conosce. Mentre l'anima individuale umana non è immortale (l'abbiamo visto prima dicendo che è legata al corpo), l'intelletto produttivo (poietikos) è sempre in atto ed è impassibile, separabile e quindi immortale. Aristotele dice che è divino e proviene all'uomo dall'esterno. Il che procurerà diversi fastidi ai commentatori posteriori di Aristotele che cercheranno di risolvere in qualche modo la posizione non ben chiara del maestro.
Etica
Passiamo ora all'etica aristotelica. Se fino a Platone l'etica non aveva alcuna autonomia rispetto alla filosofia, con Aristotele questa autonomia è riconosciuta alla cosiddetta 'filosofia pratica', che comprende però, insieme, sia etica che politica o, meglio, l'etica è vista come politica nella misura in cui essa può ispirare una legislazione adeguata per promuovere la felicità collettiva e dunque anche individuale. Aristotele riconosce però subito che il campo del bene e del giusto su cui indaga il sapere etico-politico presenta un tale grado di variabilità e instabilità da non consentire altro approccio alla verità se non per approssimazione. D'altra parte, dice Aristotele, quel che vogliamo acquisire in un trattato di etica come l'Etica nicomachea (ovvero Etica a Nicomaco, dedicata al figlio di Aristotele che aveva preso il nome dal nonno) non è tanto la conoscenza 'teorica' della virtù, quanto uno strumento per diventare 'uomini buoni e felici'.
E appunto nella felicità consiste il bene più alto per Aristotele Il bene non è più, come in Platone, l'Idea o la realtà più alta, ma, molto più concretamente, "ciò a cui ogni cosa tende". Da questo punto di vista, vi è una molteplicità di fini e quindi di beni, anche se vi è una gerarchia di desiderabilità tra tutti i beni. La felicità comprende molte cose: una buona vita, una attività coronata da successo, un gruppo di amici con cui condividere le esperienze, il possesso di un minimo di beni, insomma oggi diremmo una 'esistenza realizzata'. Non per nulla il termine greco per 'felicità' è eudaimonia, che vuol dire letteralmente essere accompagnati 'da un buon demone', quindi da una sorte propizia.
Aristotele si riferisce comunque ad una felicità esclusivamente umana e, del resto, per lui non è neppure concepibile una felicità ad esempio degli animali; non solo, ma per Aristotele l'uomo potenzialmente felice è il membro giusto, agiato, della polis, per cui ne sono esclusi schiavi, artigiani ecc. Comunque Aristotele riconosce la fragilità della felicità concessa agli uomini: il virtuoso sarà però capace di fronteggiare con serenità le varie vicissitudini della sorte (tyché).
Ma come si diventa 'giusti'? Non certo attraverso un insegnamento teorico. La via maestra per la virtù è l'abitudine alla condotta virtuosa (si noti in greco il nesso linguistico tra ethos, carattere, ed ethos, abitudine). In altri termini, si diventa giusti abituandosi a compiere azioni giuste. La formazione morale si attua cioè attraverso l'abitudine e finisce per consolidarsi in una sorta di 'seconda natura' del soggetto.
Il criterio effettivo a cui paragonare il nostro comportamento non è, per Aristotele il riferimento ad un bene più o meno astratto, ma è costituito dal comportamento effettivo di una figura socialmente riconoscibile e approvata per la sua conformità ai modelli morali condivisi: è insomma l'uomo che è serio e virtuoso, lo spoudaios, che costituisce 'il canone e la misura' del comportamento morale. Aristotele nomina esplicitamente, a questo riguardo, Pericle e i suoi simili, come rappresentanti del 'perfetto gentiluomo ateniese'. Detto in breve: vuoi essere virtuoso? Comportati come fa Pericle.
Però se lo spoudaios funge da criterio di virtù, è perché egli ha scelto di vivere secondo virtù, cioè ha ritenuto che fosse meglio vivere virtuosamente invece che malvagiamente. Il che ci porta ad affrontare il tema della libertà, che è tutt'altro che semplice nel pensiero aristotelico. In primo luogo si noti che il termine greco che viene generalmente tradotto con 'libertà' è eleutheria, che designa non tanto la libertà 'psicologica' quanto la condizione giuridica dell'uomo libero, in contrapposizione allo schiavo. Né lui né nella lingua del suo tempo vi è qualcosa di simile al nostro libero arbitrio. Egli dice che un'azione è libera quando "dipende dall'uomo stesso". Ma il senso esatto di questo autòs si riferisce all'individuo umano preso nel suo complesso, concepito come l'insieme delle disposizioni che formano il suo carattere particolare, il suo ethos. Il carattere di ogni uomo si fonda su una somma di disposizioni (héxeis) che si sviluppano attraverso la pratica e si fissano in abitudini. Una volta formato il carattere, dice Aristotele, il soggetto agisce in conformità a queste disposizioni, e non potrebbe essere altrimenti. Ora, è vero - ammette Aristotele- che chi ha acquisito una abitudine, ad esempio l'ingiustizia, non può tornare indietro (si pensi oggi ai drogati, ai delinquenti ecc.), ma "all'inizio gli era possibile non diventare ingiusto", e quindi lo è diventato volontariamente, trasgredendo il 'condizionamento virtuoso' operato dal padre, dalla polis, dalla legge. Inoltre Aristotele è convinto che né la spinta della passione (al contrario di quanto sostenevano i tragici del pensiero arcaico) né l'attrazione del piacevole esercitano su di noi una vera e propria costrizione: resta sempre in noi la possibilità di resistere, di esercitare quel potere interiore (enkrateia) che distingue il virtuoso dall'intemperante. In altri termini, per Aristotele le passioni non costituiscono in loro stesse il male morale: occorre solo incanalare le passioni quando e come si deve, verso chi e per il fine che si deve, seguendo la regola della medietà. La virtù consiste infatti nella medietà, cioè nella scelta della vita intermedia fra i due opposti errori dell'eccesso e del difetto passionale. Non vi è però una sola virtù ma diverse. Come suo solito, molto concretamente, Aristotele ritiene che vi siano due tipi fondamentali di virtù, quelle etiche e quelle dianoetiche, a seconda che si riferiscano rispettivamente alle nostre attività pratiche o a quelle intellettuali. Le prime sono il coraggio, la temperanza, la generosità o liberalità, la magnanimità e la mansuetudine; le seconde comprendono la scienza, l'arte, la saggezza, l'intelligenza, la sapienza. Vediamole più in dettaglio.
Il coraggio (riguarda ciò che si deve o no temere) è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà. La temperanza (riguarda l'uso moderato dei piaceri) è il giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità. La generosità o liberalità (uso accorto di ciò che si possiede) è il giusto mezzo tra l'avarizia e la prodigalità. La magnanimità (concerne la retta opinione di se stesso) è il giusto mezzo fra la vanità e la piccineria d'animo. Infine la mansuetudine (concerne l'ira) è il giusto mezzo tra irascibilità e indolenza.

A parte vi è la giustizia che è, per Aristotele, la virtù per eccellenza. La 'giustizia' implica il concetto di ordine e di equilibrio: ordine e misura sia in sé che nel rapporto con gli altri, così che ciascuno possa liberamente attuare se stesso in una armonia superiore. In questo senso giustizia-libertà-morale coincidono.
A parte ancora vi è pure l'amicizia (philia) a cui Aristotele dedica due libri dell'Etica nicomachea (l'8° e il 9°). La felicità è perfetta se, oltre alla contemplazione, l'uomo possiede un certo numero di beni ed in più ha degli amici. L'amicizia è strettamente collegata alla virtù, ed è la cosa "più necessaria" alla vita. L'amicizia, quando è fondata appunto sul bene e sulla virtù, è perfetta, ed è quindi stabile e ferma. "L'uomo virtuoso si comporta verso l'amico come si comporta verso se stesso, perché l'amico è un altro se stesso" (Et. nic.,9,9,1170 b 5).
Le virtù dianoetiche sono la scienza, che è la capacità dimostrativa, ed ha per oggetto ciò che è necessario; l'arte, che è la capacità, accompagnata a ragione, di produrre un oggetto, ed ha sempre un fine fuori di sé; la saggezza (phronesis) è la capacità, congiunta a ragione, di agire in maniera conveniente sui beni umani; ad essa spetta di determinare il giusto mezzo in cui consistono le virtù morali; l'intelligenza è la capacità di cogliere i principi di tutte le scienze; la sapienza (sophia) è la più alta fra le virtù dianoetiche. Chi ha la sapienza ha scienza ed intelligenza; sa dedurre non solo i primi principi ma sa anche giudicare della verità degli stessi principi. La sapienza riguarda poi le cose più alte, il necessario e il divino, nei cui confronti un solo atteggiamento è possibile, quello della contemplazione (theoria), che è l'attività più alta perché, contemplando, l'uomo supera la stessa felicità umana (propria dell'esercizio delle virtù etiche) e partecipa della vita divina. Perciò, se la felicità maggiore consiste nella virtù più alta, e se la virtù più alta è la sapienza, l'uomo più felice sarà il sapiente e cioè il filosofo. E' lui l'unico vero makarios (beato, felice) su questa Terra, poiché la sua vita è fatta di serenità e di pace, dedito com'è alla contemplazione! Una tale virtù però non è pensabile al di fuori della vita associata. L'uomo non può fare a meno degli altri, per cui la felicità perfetta si attua nella vita comune, insieme agli altri, nella polis.
Logica
Si potrebbe dire ancora tantissimo su Aristotele. Non si può tralasciare la sua concezione della logica, che tanta influenza ebbe nei secoli a venire, fino ai nostri giorni (le logiche attuali sono nate in relazione all'assoluto predominio della logica aristotelica). Aristotele è dunque il creatore della cosiddetta logica formale, che è quella scienza che studia il ragionamento e ne elenca le forme corrette, indipendentemente dal loro contenuto, cioè dal riferimento al concreto.
In primo luogo Aristotele distingue tra ragionamenti veri e quelli probabili: i primi li chiama apodittici, analitici o scientifici; ai secondi dà il nome di dialettici. La 'dialettica' studierà quindi le regole generali della discussione e, in particolare, il campo delle opinioni dei più competenti. L'analitica (cioè la nostra logica) in senso stretto studierà invece il ragionamento scientifico o apodittico (= ciò che è evidente e non ha bisogno di dimostrazione), quel ragionamento, cioè, che muovendo da premesse rigorosamente vere, e cioè inconfutabili, ne deriva una conclusione necessaria.
Il sillogismo è appunto un tipo di ragionamento del genere. Esso si compone di tre giudizi, di cui i primi due sono detti premesse ed il terzo è la conclusione. Ad esempio "Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è uomo; quindi Socrate è mortale". Si noti inoltre che nelle due premesse è inserito il cosiddetto termine medio, che consente l'affermazione della conclusione (in questo caso è 'uomo'), usandolo prima come soggetto e poi come predicato.
La teoria del sillogismo di Aristotele presenta anche le regole per dedurre in modo corretto una conclusione vera, date naturalmente certe premesse. Pensate che Aristotele classificò 19 modi validi (su 64 modi teoricamente possibili) di esprimere una proposizione qualunque, ai quali i logici medievali diedero delle sigle particolari per ricordarli più facilmente. Ad esempio ad una frase o proposizione 'universale affermativa' (="tutti gli uomini sono mortali") essi diedero la lettera A; ad una universale negativa, diedero la E; ad una particolare affermativa diedero la I e ad una particolare negativa attribuirono la lettera O. In più, per ricordare in sintesi che un sillogismo, ad esempio, era composto da tre frasi o proposizioni tutte universali affermative, i logici medievali inventarono delle parole come ad esempio BARBARA, che indica appunto un tale tipo di sillogismo (Se volete esercitarvi, provate a scoprire altri tipi di sillogismo scomponendo le seguenti parole: CELARENT, DARII, CESARE, CAMESTRES...).
Se è vero che, partendo da certe premesse si può arrivare a determinate conclusioni, è anche vero però che, alla base di ogni ragionamento vi sono alcuni principi intuitivamente veri o assiomi, che non possono a loro volta essere dimostrati, ma fondano la possibilità stessa di ogni dimostrazione. Tali sono i tre principi di identità, non contraddizione e del terzo escluso. Essi non sono appunto dimostrabili perché sono alla base di ogni dimostrazione; al massimo si possono illustrare e la loro dimostrazione è solo per assurdo o elenctica. Il principio di identità sostiene che A è uguale ad Aristotele Ciò è immediatamente evidente: ma se volessimo chiarirlo meglio, potremmo dire che è impossibile che A non sia A in quanto... si darebbero due significati diversi del termine, ovvero sarebbero vere sia l'affermazione che la negazione.
Il principio di non contraddizione viene espresso in diversi modi da Aristotele Una delle formulazioni è la seguente: "E' impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga ad una stessa cosa e per il medesimo rispetto" (Metaf., IV, 3, 1005 b). Ovvero: "E' impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia" (Ibid., IV, 4). Con un esempio: "E' impossibile che un uomo sia insieme animale bipede e non animale bipede". Tale principio è importantissimo per Aristotele perché, se lo si nega, ne segue che ogni affermazione può essere insieme vera e falsa, il che escluderebbe la possibilità di distinguere il vero dal falso, conducendo verso il relativismo e lo scetticismo. Contro un rischio così grave, Aristotele si impegna a fondo nell'affermare la validità del principio di non contraddizione. All'avversario del principio di non contraddizione, per confutarlo, Aristotele chiede di pronunciare una parola qualsiasi, basta che abbia un significato. Se rinuncia a parlare, rivela l'assurdità della sua posizione; ma se parla e dice qualcosa, ad esempio "sì", oppure "uomo" ecc., la negazione del principio di non contraddizione ne risulta confutata. Infatti, ammettendo che una parola significhi qualcosa, si esclude nello stesso tempo che una tale parola possa significare qualcos'altro: ad esempio dire "sì" equivale ad escludere il "no", come pure dire "uomo" vuol dire intendere "animale razionale" e non "animale irrazionale". In sintesi, se ogni parola ha un significato, è impossibile che A sia insieme B e non-B, cioè che 'uomo' sia insieme 'animale bipede' e 'non animale bipede'.
Infine, col principio del terzo escluso, Aristotele sostiene che "non è possibile che ci sia qualcosa di intermedio tra due enunciati contrari, bensì di un'unica cosa è necessario affermare o negare un unico predicato". Detto in altri termini, A è B oppure non è B, non c'è una terza possibilità. Insomma, ogni frase, ogni proposizione dotata di senso o è vera o è falsa. Date quindi due proposizioni contrarie, una di esse è necessariamente falsa. Tra due tesi che si escludono a vicenda, non è possibile enunciarne una terza. Con un esempio: o l'uomo è un animale razionale o non è un animale razionale, non è possibile vi sia una terza possibilità.

Che significa la domanda: Qual'è il tuo colore preferito

a cura DI D. PICCHIOTTI

Rosso: è il colore dell'attività, della funzione affettiva, dell'emozione e dell'eccitazione. E' il colore della conquista , della sofferenza, del coraggio, della volontà di dominare. Personalità passionali ed impetuose. Giallo: è il colore dell'energia, della mobilità interiore , dell'intuizione estroversa, ma anche della viltà, del raggiro, dell'invidia. Più del rosso, il giallo è il colore dell'aggressività.
Arancione: è il prodotto della fusione del rosso con il giallo. Sono dunque associati gli aspetti forti del giallo (soprattutto la motilità ed il desiderio di novità) con gli aspetti passionali, il "calore" del rosso. E' il colore preferito da chi possiede uno spirito naturalmente, costituzionalmente, vivace , sereno, orientato al positivo dell'esperienza esistenziale.
Verde: è il colore della vitalità, della quiete, della speranza e del riposo, dell'apertura sentimentale ed interiore e della realtà. Indica personalità che ricercano "il silenzio", la distensione interiore.
 Blu: è il colore della impenetrabilità misteriosa dell'infinito nel quale s'immerge il pensiero nella ricerca delle spiegazioni ai "perchè" della vita. E' dunque il colore dell'energia mentale, del pensiero e dell'intelligenza, del ragionamento acuto, sicuro, calmo, perciò anche della "freddezza" affettiva, del senso morale e del controllo razionale.
Violetto: assomma a sé la mobilità ardente del rosso e la "spiritualità" razionale del blu. ln questo colore c'è il masochismo di chi brucia dentro e agisce all'esterno nella freddezza invidiosa che vuole il "successo" e lo cerca nella solitudine del "martire" triste e lontano. Bianco: è la luce, la somma dei sei colori dello spettro che sono: porpora, rosso,giallo, verde,azzurro cyan(azzurro verde o verde blu) e azzurro scuro.
Nel bianco i colori scompaiono: rimane la pura luce. In oriente è considerato il colore della morte, della fuga dal mondo verso la purezza, l'innocenza...la luce. Riflette personalità in fuga o opposizione, in un momento di svuotamento di vitalità, di solitudine, di sospensione, in attesa dell'aprirsi della mente alla conoscenza definitiva di sè.
Nero: come il bianco rappresenta il colore della morte, della rassegnazione, della depressione. Negazione della luce. Manifesta paura, angoscia, blocco.
Grigio: Colore della immobilità della mancanza di autodefinizione e della tendenza depressiva. Il colore preferito dovrebbe racchiudere in se le principali caratteristiche di personalità dell'individuo. Ho estrapolato questo testo da un libro sull'interpretazione dei disegni, l'ho proposto anche a voi x un confronto. Io mi riconosco abbastanza, anche se non esattamente al 100% in queste definizioni...voi?
 

giovedì 27 marzo 2008

" Paul Klee "Intervista swissinfo, Isabelle Eichenberger
Traduzione, Françoise Gehring

a cura DI D. PICCHIOTTI
Paul e Lily Klee a Dessau poco prima del ritorno in Svizzera, 1933 (ZPK/Donazione fam. Klee/Franz Aichinger) 
Attraverso un diario e un’abbondante corrispondenza, Paul Klee ha lasciato visibili testimonianze sul suo lavoro, sulle persone che frequentava e sul suo tempo.
swissinfo a tentato di chiarire le sussistenti zone d’ombra con Christine Hopfengart, esperta e conservatrice del Centro Klee a Berna. Intervista.

Christine Hopfengart, curatrice al Centro Paul Klee   (swissinfo)
swissinfo: Nato da genitori musicisti, Paul Klee è stato educato per seguire la medesima via. Ha iniziato lo studio del violino a 7 anni. A 11 anni suonava nell’orchestra di Berna. Eppure ha scelto la pittura.
Christine Hopfengart: Sin dai tempi della scuola, Klee seguiva entrambe le direzioni artistiche. Ha cominciato a disegnare in tenera età senza abbandonare lo studio del violino.
Scegliendo la musica, avrebbe risposto alle attese dei genitori. Optando per la pittura, si è invece emancipato dalla tradizione familiare. Sembra che suo padre, un uomo dai saldi principi, non sia mai stato totalmente convinto dal lavoro del figlio, specialmente alla fine della sua vita.
Nel campo della musica, del resto, Klee non ha mai composto, è sempre restato un interprete. Attraverso la pittura, ha optato per la creazione, rispondendo così alle proprie aspirazioni di libertà.
swissinfo: Nome di spicco dell’avanguardia pittorica, Klee è stato piuttosto conservatore nel campo della musica. Non è curioso?
C.H.: E’ vero, i suoi idoli erano Bach e Mozart e ha sempre espresso scetticismo verso la musica moderna del suo tempo, come quella proposta dal musicista Arnold Schönberg. Klee riteneva che l’ordine musicale di Bach e Mozart fosse più compiuto.
Scrisse del resto che non vi era nulla da aggiungere al corpo delle loro opere e che aveva scelto le arti visive proprio per le maggiori possibilità di innovazione.
swissinfo: L’arte molto spontanea di Paul Klee attira i bambini e il mondo dell’infanzia l’ha interessato. Ha pure scritto di essere rimasto un bambino. Cosa c’è di vero?
C.H.: Klee non aveva proprio nulla di un bambino, era un grande intellettuale. Direi piuttosto che l’universo dell’infanzia l’ha attratto proprio per le sue caratteristiche primordiali: la creatività, la fantasia, l’anticonformismo.
Nell’opera di Klee l’infanzia ha rappresentato una sorta di ideale, un mondo incontaminato, non ancora plasmato dall’educazione. Insomma, un modello a cui ispirarsi. Nei disegni dei bambini Paul Klee ritrovava infatti il proprio desiderio di fare tabula rasa di ogni tradizione accademica, di ogni convenzione.
swissinfo: Klee esprimeva un certo distacco scettico e ironico nei confronti della società e del suo tempo. Aveva un lato inafferrabile, misterioso, cupo....
C.H.: Molte persone lo consideravano misterioso perché era un uomo molto riservato. Ma è lui medesimo ad essere all’origine di questa mistificazione, ponendosi come un artista impossibile da cogliere veramente.
Direi piuttosto che Klee è prima di tutto un osservatore. Il suo diario indica chiaramente che egli analizzava se stesso e l’ambiente circostante con un’impietosa precisione e senza alcuna implicazione emotiva.
Quando era giovane poteva mostrarsi molto severo, poi con l’età il senso dell’umorismo ha preso il sopravvento.
swissinfo: Qualificato dai nazisti «artista degenerato» e allontanato dalla Germania, Paul Klee si è rifugiato in Svizzera nel 1933. Ha sofferto per questo esilio?
C.H.: Certamente sì, anche se a questo proposito non si è espresso molto. Ricordo soltanto che l’ascesa del nazismo coincide
a cura DI D. PICCHIOTTI
con l’apice della carriera internazionale di Klee. Era celebre, i suoi quadri si vendevano bene, i giornali parlavano di lui, anche se esprimevano delle critiche sulle caratteristiche avanguardiste del suo lavoro.
Ed ecco che bruscamente, come un colpo di spugna, ha dovuto lasciare tutto. Emigrando in Svizzera, dove mancava una vera e propria scena artistica, fu privato del lato culturale della sua vita.
Del resto, agli inizi, il suo lavoro esprimeva la gravità della crisi che stava attraversando. Non riusciva a rinnovarsi, era come paralizzato.
swissinfo: Nel 1935 fu colpito da sclerodermia, una malattia incurabile che lo condusse alla morte, nel 1940, a soli 60 anni. Che effetti ha avuto questa malattia?
C.H.: Un grande effetto. Nel 1936 Klee ha realizzato solo 25 opere, il numero più basso della sua carriera.
A partire dal 1937 la malattia imprime in Klee un nuovo slancio creativo e una straordinaria vitalità che si traducono in una creazione prodigiosa. Nel 1939 produce un migliaio di lavori, come se questa nuova crisi l’avesse aiutato a ripartire da zero.
swissinfo: Paul Klee ha trascorso i due terzi della sua vita in Svizzera, ma è morto come cittadino tedesco, poiché è stato naturalizzato post mortem. Che relazione aveva con la Svizzera?
C.H.: Una relazione piuttosto ambivalente. In Svizzera è nato, ma è cresciuto artisticamente a Monaco, una delle più celebri accademie d’Europa.
Occorre tuttavia precisare che ha sempre trascorso le vacanze a Berna, malgrado le tensioni familiari. Si identificava intensamente con i paesaggi svizzeri, ed era un appassionato camminatore.
La Svizzera gli stava tuttavia un po’ stretta e, malgrado i legami affettivi, considerava Berna troppo tranquilla, troppo borghese.
Intervista swissinfo, Isabelle Eichenberger
Traduzione, Françoise Gehring

"Scipione" pseudonimo di Gino Bonichi (1904-1933)

a cura DI D. PICCHIOTTI

Gino BONICHI, nato a Macerata il 25 febbraio 1904, a quindici anni si trasferisce con la famiglia a Roma. Qui, a seguito di una polmonite, contrae la tubercolosi che condizionerà poi tutta la sua vita.
Disegna dapprima per divertimento, ma, conosciuto il pittore Mario Mafai, che diviene ben presto suo caro amico, si iscrive all'Accademia di Belle Arti, iniziando una ricerca sperimentale intensa ed innovativa.
Con un altro amico pittore, Renato Mazzacurati, e lo stesso Mafai frequenta la casa della pittrice Antonietta Raphäel in Via Cavour, costituendo un gruppo che verrà poi definito "Scuola di Via Cavour" e che fu il primo nucleo della più famosa Scuola romana. Inizia così un'intensa (ma purtroppo breve) vita artistica, in cui si esprime, oltre che come pittore, anche come illustratore satirico, collaboratore di riviste, grafico e perfino poeta. La sua malattia, però, lo costringe spesso a lunghi periodi di riposo.
Nel 1927 sceglie lo pseudonimo SCIPIONE, ispirandosi al famoso condottiero romano.
Nei primi mesi del 1929 presenta proprie opere in diverse mostre collettive nella Capitale ed a Padova.

Nell'estate dello stesso anno (dalla fine di luglio alla fine di settembre 1929) trascorre un periodo di soggiorno a Collepardo (FR), dove ritempra la salute ma lavora anche accanitamente.
In agosto risponde ad una lettera dell'amico Mazzacurati: "Caro Renato, la tua lettera mi ha raggiunto a Collepardo, che è il paese delle balie e che ha le case piccole come quelle delle bambole e dipinte a strisce a fascioni a quadratini bianchi e rossi, rosa e azzurri - proprio come i vestiti delle balie che si vedono al Pincio. (...) Qui a Collepardo si sta bene e sto in caccia di qualche bel tipo [di modella] per lavorare. La razza ciociara è meravigliosa e non ha niente a che fare con tutto quello che i pittori hanno combinato immiserendola. Io sto alla "Trattoria della Stella d'Italia" a Collepardo (Frosinone)."

Anche Mario Mafai aveva passato quell'estate in Ciociaria (a Trevi nel Lazio) e Scipione, in un'altra lettera a Mazzacurati, racconta di una visita che Mafai gli aveva fatto proprio a Collepardo: "Carissimo Renato, ho passato quasi due mesi in Ciociaria vivendo in modo meraviglioso - e riportando con me molta salute e molta forza. (...) Anche Mario è stato fuori - e ora lavora come un matto. Ci siamo ritrovati a Collepardo ove abbiamo passato 3 giorni insieme in maniera molto simpatica. Peccato che mancavi - ti abbiamo ricordato giocando a boccie e sgocciolando delle buone bottiglie o giocando a briscola."

Lo stesso Mafai, nella sua autobiografia, ricorda che, mentre si trovava a Trevi, "Un giorno ricevetti una lettera di Scipione. Mi diceva:
"Ti ho scovato; io sono in un paesello meraviglioso non molto distante dal tuo, Collepardo. E' un paese di ciociare e di balie, le case sono dipinte a striscioni rosa e bianchi, mi sono innamorato di una ciociara bellissima; ho trovato anche un capannone dove mi diverto a modellare."
Io decisi di andare a conoscere il paese delle balie, oramai era passato quasi un mese ed ero stanco di Trevi. Trovai Scipione bello florido, sorridente a gambe divaricate e non c'era uomo che sapesse essere felice e trasmetter la sua felicità come lui. Mi raccontò della bella contadina che gli aveva fatto il ritratto ma questa, pare, lusingata della corte del signorino sembrava cedere ma poi ripiegò con molto tatto ed astuzia e non volle fare cornuto il marito. (...)
L'indomani decidemmo di andare alla Certosa di Trisulti. Affittammo un asino, scendemmo giù in una vallata che si stringeva fino a diventare una gola per risalire poi su in alto a mille metri. A una svolta quasi a picco su questa vallata [il Monastero] dominava come un castello bianco con grandi archi.
Salimmo piano piano e ci cucinammo da noi delle bistecche di montone che ci eravamo portati in una capanna in mezzo a un bosco di quercie rade. Poi bussammo la campanella, entrammo chiedendo di frate ... Era pratico dei luoghi e ci diresse alla farmacia.(...) Scipione mi aveva parlato di un tipo straordinario di frate con entusiasmo ed io ero ansioso di conoscerlo."
Dopo tre giorni passati insieme, Mafai ripartì, mentre "Scipione rimase ancora qualche tempo ospite dei Certosini. Mi raccontò poi dei bei giorni passati lassù (...) Dipinse, Scipione, e fece anche il paesaggio con l'Abbazia di Trisulti e la ciociara. Ritornò a Roma che stava una meraviglia. Fresco, gli occhi vivacissimi e limpidi senza alcun affanno, salì di corsa le scale del mio sesto piano [e mi disse:] "Mi sembra di essere un altro, ho un desiderio di lavorare, dipingere." E' come se si fosse sciolto ..."

Dopo la morte di Scipione, Mario Mafai scrive un articolo commemorativo sull'amico scomparso, ricordando ancora una volta quell'estate collepardese: "Nell'estate del '29 andò a Collepardo, un paese della Ciociaria. La sua salute aveva ripreso miracolosamente. (...) Questo è stato il momento più bello per Scipione. Accadde però che a Collepardo conobbe un frate spagnolo, che gli predisse la sua fine e gli assicurò che non avrebbe superato il trentesimo anno; e di tanto in tanto gli inviava lettere rammentandogli insistentemente la sua profezia."

Per un breve periodo, quindi, Scipione fu ospite dei frati certosini di Trisulti, che gli offrirono un'abitazione che essi possedevano in paese (ora ex sede della Pro-Loco, in Via per Alatri). Un articolo della rivista "L'Italia Letteraria" descrive così un dipinto ad olio del 1929, raffigurante la Certosa di Trisulti: "Il quadro, che il pittore donò ai Fratelli del Convento, quando, sullo scorcio della sua breve esistenza, fu loro ospite per un breve periodo, rappresenta l'amena vallata nella quale è sito il convento stesso. Il paesaggio arioso, con le piccole costruzioni sospese tra le falde montane e la rudimentale vegetazione locale, ne fa un tipico esemplare della più autentica e sincera produzione scipionesca." L'articolo aggiunge anche che quel quadro successivamente "è stato venduto dai Frati di Trisulti ad un avvocato romano, per poche migliaia di lire."

E' unanimemente riconosciuto dalla critica che il periodo collepardese dona a Scipione vigore e maturità artistica: ed infatti nell'autunno del 1929 la sua ispirazione raggiunge finalmente una forma definita di straordinaria personalità.

Alla Biennale di Venezia del 1930 Scipione espone la sua opera forse più famosa, "Il cardinal decano", che suscita diverse polemiche ma che gli fa anche riscuotere molti successi.
Subito dopo egli sente il bisogno di tornare a Collepardo.
E proprio da Collepardo, il giorno 22 agosto 1930, scrive all'amico poeta Libero de Libero: "Caro Libero, ho fatto delle grandi gite sulla montagna e mi sono spinto fino ad Arce, Buille, S. Giovanni, facendo molti buoni incontri.
Dio! come è bella questa vita libera. Il mio sangue torna chiaro e mi sveglio al mattino col senso di felicità che non conoscevo."

Nel 1931 fonda, insieme a Mazzacurati, la rivista "Fronte", ma in quello stesso anno la sua malattia comincia ad aggravarsi: inizia il lungo calvario delle cure, finché viene ricoverato nel sanatorio di Arco di Trento, dove il 9 novembre 1933 muore, ad appena 29 anni.
Solo successivamente gli vengono pienamente riconosciute le sue qualità di pittore autonomo e individualista, indifferente ai dettami del regime fascista.

Oggi diverse opere di Scipione sono esposte nel Museo Palazzo Ricci di Macerata, sua città natale.

martedì 25 marzo 2008

Alberto Giacometti

a cura DI D. PICCHIOTTI
Nato (il 10 ottobre 1901) a Borgonovo in Val Bregaglia, Alberto Giacometti trascorse l'infanzia nel vicino villaggio di Stampa.
Un anno dopo nacque il fratello Diego, che di Alberto divenne paziente e premuroso compagno, devoto amico, modello prediletto, confidente, consulente, aiutante, alter ego. Grazie a Diego, che intuì ben presto la prorompente genialità del fratello, molte pregevoli opere furono sottratte alla distruzione, all'annientamento che l'incontentabile e umorale artista aveva loro destinato. Alberto e Diego trascorsero gran parte della loro vita a Parigi, senza però mai dimenticare la terra d'origine: i luoghi familiari, gli affetti, i paesaggi.
Pittore e scultore tra i sommi del Novecento, Alberto ebbe rapporti di amicizia con molti intellettuali e artisti, tra cui Aragon, Breton, Strawinsky, il filosofo giapponese Isaku Yanaihara, Simone de Beauvoir, Sartre, Jean Genet, James Lord...
Yanaihara, Genet e Lord furono straordinari modelli per ritratti a olio (pp. 208 ss.), tra i più allucinati e pregnanti della sua produzione. Per conoscere a fondo Giacometti uomo e artista sono imprescindibili i libri di due dei modelli d'eccezione menzionati: di Genet, L'atelier de Giacometti e di Lord, Un portait par Giacometti.
Alberto morì l'11 dicembre 1966. Diego visse fino al 1985.
Kunst- e Weltanschauung di Giacometti
Quando nel 1957 fu chiesto ad alcuni grandi artisti di parlare della loro realtà, Giacometti rispose:
Io faccio pittura e scultura per mordere nella realtà, per difendermi, per nutrire me stesso, per diventare più grosso; diventare più grosso per difendermi meglio, per meglio attaccare, per fare più presa, per avanzare il più possibile su ogni piano in tutte le direzioni, per difendermi contro la fame, contro il freddo, contro la morte, per essere il più libero possibile; il più libero possibile per tentare - con i mezzi che oggi mi sono propri - di vederci meglio, di capire meglio ciò che ho intorno, capire meglio per essere più libero, più forte possibile, per spendere, per spendermi il più possibile in ciò che faccio, per correre la mia avventura, per scoprire nuovi mondi, per combattere la mia guerra, per il piacere? per la gioia? della guerra, per il piacere di vincere e per quello di perdere.
E altrove, in risposta a interviste:
L'arte mi interessa molto, ma la verità mi interessa infinitamente di più... Più lavoro e più vedo diversamente... in fondo diventa sempre più sconosciuto, sempre più bello. Varrebbe per me la pena di lavorare, anche se non c'è risultato per gli altri, per la mia visione personale... la visione che ho del mondo esterno e delle persone... Penso di progredire ogni giorno. Per questo lavoro più che mai. Sono sicuro di fare ciò che non ho ancora mai fatto e che renderà superato ciò che ho fatto fino a ieri sera o stamattina. Non si torna mai indietro... È lungo il cammino. Allora tutto diventa una specie di delirio esaltante, come l'avventura più straordinaria: se partissi su una nave per paesi mai visti e incontrassi isole e abitanti sempre più imprevisti, mi farebbe esattamente lo stesso effetto. Questa avventura la vivo veramente. Allora, che ci sia un risultato o no, che importanza vuole che faccia? Che in mostra ci siano cose riuscite o mancate mi è indifferente. Visto che per me è in ogni modo un fallimento, troverei normale che gli altri non guardino neppure. Non ho niente da chiedere se non di poter continuare perdutamente.

Perché troviamo bella una cosa? Un albero? o il cielo? o i volti? e non banale? Un tempo andavo al Louvre e i quadri o le sculture mi davano un'impressione sublime... Oggi [1962], se vado al Louvre, non posso resistere a guardare la gente che guarda le opere. Il sublime oggi per me è nei volti più che nelle opere... Al punto tale che le ultime volte che sono andato al Louvre sono scappato, sono letteralmente scappato. Tutte quelle opere avevano l'aria così misera - un approccio abbastanza miserevole, così precario, un percorso balbuziente attraverso i secoli, in tutte le direzioni possibili, ma estremamente sommarie, primarie, ingenue, per circoscrivere un'immensità formidabile - guardavo con disperazione le persone vive. Capivo che mai nessuno potrebbe cogliere completamente questa vita... Era un tentativo tragico e risibile.

Il teschio come archetipo
Nell'autunno del 1921, Giacometti conobbe un vecchio signore, bibliotecario all'Aja, di nome Van Meurs. Fu un incontro fuggevole su un treno. Ma alcuni mesi dopo, colpito dalla cultura e dalla sensibilità dell'artista ventenne, con un annuncio su un giornale, van Meurs riuscì a rintracciarlo e gli propose un breve soggiorno a Venezia: «Mi trovava simpatico. Era vecchio e solo. Avevo voglia di andare a Venezia. Ero povero. Pagava lui.» Durante il viaggio van Meurs si ammalò gravemente. Giacometti passò una notte al suo capezzale e la giornata successiva lo vide morire.
Questa drammatica esperienza fu sempre per lui un motivo di angoscia: «La morte l'avevo sempre immaginata come un'avventura solenne. Non era dunque che quello: nulla, derisoria, assurda. In poche ore Van M. era diventato un oggetto, niente. C'era stata tanta casualità in tutto questo: l'incontro, il treno, l'annuncio. Come se tutto fosse stato preparato affinché io assistessi a quella misera fine. La mia vita d'un tratto quel giorno si è proprio ribaltata. Quel dramma, più ci penso... è per causa sua che ho sempre vissuto nel provvisorio, che non ho smesso di avere orrore per ogni avere. Sistemarsi, comprare una casa, condurre una bella esistenza, quando c'è sempre questa minaccia - no! Preferisco vivere negli alberghi, nei caffè, nei luoghi di transito...»
E così fece per tutta la vita, anche quando la fama, il prestigio internazionale e la conseguente ricchezza gli avrebbero permesso un tenore di vita ben più elevato. Il modesto atelier della rue Hippolyte-Maidron n. 46 divenne, come scrisse M. Leiris, «un'appendice, un prolungamento della sua persona e - si può dire, tanto aveva l'aria di far parte di lui - la sua conchiglia»; era un antro che forse gli ricordava una piccola grotta vicino a Stampa in cui, da bambino, amava rifugiarsi in solitudine.
La prima elaborazione esistenziale e artistica del trauma provocato dalla morte di van Meurs fu, due anni dopo, mentre studiava all'Accademia di Antoine Bourdelle a Parigi, il disegno Il teschio (p. 51) che tenne occupato Giacometti per un intero inverno (tra il 1922 e il 1923), facendogli trascurare la scuola (che del resto non lo entusiasmava...). Con febbrile accanimento egli studiò un teschio umano, come se volesse ancora trovare in esso i segni dell'energia e della tensione che, grazie al respiro e allo sguardo, animavano l'anonimo volto: «Da allora, tra il vedere un cranio davanti a me o un personaggio vivo la differenza è diventata minima..., il che mi ha sempre piuttosto scosso. All'opposto, lavorando sul personaggio vivo - e quasi con orrore - arrivavo, se insistevo un po', a vedere quasi il cranio attraverso.»
Da questo punto di vista, Il teschio è un'opera-chiave, un vero e proprio archetipo, la prima, drammatica interrogazione della testa umana, che assillerà Giacometti nell'arco di tutta la sua vita.
Seguirono altri tentativi, in ambito naturalistico (cfr. pp. 58 ss.), ma anche nel successivo e lungo periodo in cui Giacometti subì l'influsso delle avanguardie artistiche coeve (1925-1935), la testa e il corpo furono al centro della sua indagine artistica (si pensi alla celebre, astratta Tête qui regarde, 1928, p. 77) o a Tête-crâne (1934, p. 116), di ispirazione cubista.

Il simbolo della piazza
Una sera del 1938 un'auto urtò Giacometti e lo travolse in Place des Pyramide. Non fu un incidente grave, ma ebbe per l'artista il significato di un avvertimento, come la morte di van Meurs: all'improvviso Giacometti colse di nuovo, ma in maniera più intensa, la precarietà dell'esistenza, la propria finitudine. E la piazza (cfr. per esempio il bronzo Place del 1948, p. 161 o foto), acquistò una densa valenza simbolica: essa divenne, come scrisse Bonnefoy, «il segno stesso, soprattutto di notte, della solitudine di ogni essere, esposto lì più che altrove a quella suggestione di nulla, di nonsenso di tutto, che nasce dagli spazi vuoti.»
In Place quattro uomini in movimento sembrano dirigersi verso una donna, immobile. Ogni figura, spiega Giacometti, «ha l'aria di andare per conto suo, tutta sola, in una direzione che le altre ignorano. Si incrociano, si sorpassano, senza vedersi, senza guardarsi. Non raggiungeranno forse mai la loro mèta («l'atto del convergere finisce per trasformarsi in dispersione», annotò Jean Soldini), irraggiungibile come la mèta dell'artista stesso, apparentemente semplice e banale, in realtà, come vedremo, vertiginosamente complessa: «cercare di copiare quel che vedo», la «rassomiglianza assoluta»: «Cerco di fare ciò che trent'anni fa mi sembrava impossibile fare. Trovo che sia altrettanto impossibile che allora e perfino completamente impossibile, non può esserci che scacco. L'unica cosa che mi appassiona è cercare comunque di avvicinarmi a questa visione che mi pare impossibile rendere.»

Il «ritorno all'ordine»
Tre anni prima dell'incidente, nel 1935, Giacometti era tornato al modello e quindi alla figurazione: un tormentato ritorno all'ordine, dopo la fase avanguardistica ormai implicitamente ripudiata. «Sapevo che un giorno sarei stato obbligato a tornare al modello» scrisse in quegli anni. «Lo temevo, ma nel contempo lo speravo, poiché le opere astratte che facevo in quel periodo erano esaurite.»
Deciso a indagare la realtà per scoprirne l'essenza, si allontanò dalle correnti antinaturalistiche. Il suo desiderio, che era nel contempo il suo dramma, è racchiuso in questa frase: «Tutto il percorso degli artisti moderni è in questa volontà di afferrare, di possedere qualcosa che sfugge continuamente... È come se la realtà fosse continuamente dietro i velari che si strappano. Ce n'è ancora un'altra, sempre un'altra.»
Le opere che segnano il cambiamento di rotta sono: Autoritratto (un disegno del 1935, p. 122); La madre del pittore, La mela e La mela sulla credenza, tutti dipinti a olio del '37 (pp. 123 e ss.). Conseguenze di questa svolta, oltre a una profonda, frenetica, dolorosa riflessione sul senso della sua pittura e a furibondi ripudii di ciò che scolpiva o dipingeva, furono l'esclusione dal gruppo surrealista, a cui aveva aderito nel 1930, e l'interruzione di ogni esposizione fino al 1947. Sul piano artistico, a partire dal 1939 le figure scolpite divennero sempre più piccole, fino a diventare talmente minuscole da poterle tenere sul palmo di una mano (pp. 132-133). «Provo a dare alla testa la sua giusta dimensione, la reale dimensione,» scrisse quell'anno Giacometti «così come si presenta a noi quando vogliamo cogliere con un'occhiata l'apparenza globale di una testa. Quello che ci colpisce nel suo aspetto esige una certa distanza.» Questa serenità di giudizio diventa terrore un anno dopo: la riduzione delle figure fu paragonata infatti a una «catastrofe veramente spaventosa».

Le forme trasfigurate
Nel 1946, un'altra drammatica esperienza ebbe di nuovo un potente e decisivo influsso sulla sua arte: la morte del signor T, un suo vicino di casa a Parigi. Giacometti lo vide nella fase ultima della sua agonia: «immobile, la pelle giallo avorio, tutto raggomitolato su se stesso e già stranamente lontano», e poche ore dopo «morto, le membra d'una magrezza scheletrica, proiettate in avanti, divaricate in abbandono lontano dal corpo, un enorme ventre gonfio, la testa all'indietro, la bocca spalancata».
Nessun cadavere gli era parso «così nullo, avanzo miserando da buttar via come il cadavere di un gatto per la strada». La sua testa era divenuta un «oggetto, minuscola scatola, misurabile, insignificante. Anzi no,» precisa Giacometti «non proprio come un oggetto, ma come qualcosa che era nello stesso tempo vivo e morto. Urlai di terrore quasi avessi varcato una soglia e fossi entrato in quell'attimo in un mondo mai visto prima. Tutti i vivi erano morti, e questa visione si ripetè spesso, nel metrò, per strada, al ristorante, con gli amici.»
Anche gli oggetti subirono una trasformazione, i tavolini, le sedie, gli abiti, la strada, persino gli alberi e i paesaggi.
Pochi mesi dopo Giacometti scolpì Il naso e la Testa su stelo, definite da Bonnefoy «le raffigurazioni più terrificanti della morte e dell'aggressività del nulla che mai artista moderno abbia concepito». La testa dal lunghissimo naso è ingabbiata in una struttura metallica e appesa a un filo: se la si allontana spingendola con un dito, essa ritorna inesorabilmente e più vicina, sfiorandoti o urtandoti, proprio come l'idea della morte, come la morte stessa.
Questi due capolavori sono il segno inequivocabile della elaborazione intellettuale di un terrore esistenziale e del suo superamento grazie all'arte. Essi si collocano all'inizio di un nuovo, sorprendente corso della produzione di Giacometti, in cui i soggetti delle sculture (ritratti a mezzo busto e a busto intero, figure sole, composizioni con più figure, immobili o in movimento, racchiuse in una gabbia) si riappropriano dei loro volumi, ma si restringono e si allungano, fino a diventare filiformi.
L'immobilità, l'aspetto emaciato, macilento, le superfici smangiate, corrose, tormentate, la fragilità e la solitudine evocano l'usura, la consunzione cagionate dal tempo e dalla vita, ma soprattutto la tragedia dell'uomo contemporaneo, che ha perso ogni illusione, che è destinato a vivere, come scrisse Sartre, «con la morte nell'anima», in un «vuoto attraversato dal reale». Sono opere che interrogano il fruitore, gli parlano, lo pungolano, lo inquietano per il dramma che lasciano intravedere o sprigionano.
Anche nei quadri, soprattutto nei ritratti di suoi familiari, di artisti e di conoscenti, ritornano questi temi che sono tipici dell'esistenzialismo di Sartre (non per caso autore di una prefazione - fondamentale - a un catalogo di Giacometti). Dipinti dai colori marci e spenti, in cui i personaggi sembrano emergere come relitti dagli abissi del tempo.
Folgorante testimone della sua epoca, della nostra epoca, Giacometti non lasciò soltanto una sublime eredità estetica. La sua testimonianza è anche etica. Scavando nel profondo della realtà, si allontanava dalla rappresentazione del vero, intesa in senso fotografico, trasfigurando le forme per svelare la tragedia della condizione umana. Quando scriveva: «Cerco di copiare quel che vedo», per raggiungere la «rassomiglianza assoluta», non intendeva certo sostituirsi banalmente al fotografo. Egli cercava invece di «copiare» quel che vedeva dietro ogni volto, dentro ogni corpo, «un certo sentimento delle forme che è interiore e che si vorrebbe proiettare all'esterno».
Nel 1961, quasi alla fine del suo tormentato percorso artistico, Giacometti diceva ancora a stesso: «Perché sento il bisogno, sì il bisogno, di dipingere volti? Perché sono... come si può dire?... quasi allucinato dai volti delle persone, e questo da sempre?... Come un segno ignoto, come se ci fosse qualcosa da vedere che non si vede al primo colpo d'occhio, eh? Perché?»

MAX BILL -

a cura DI D. PICCHIOTTI

Winterthur, 1908 - Berlino, 1994) fu pittore, scultore, architetto, designer, una sorta di “creatore universale”. Ha progettato modi di vita, spazi, utensili e oggetti d'uso quotidiano, da un intero villaggio come la scuola di Ulm, a esposizioni, a edifici corporativi, da unità residenziali prefabbricate a viadotti autostradali; ha realizzato innumerevoli pitture e le sue sculture sono in luoghi pubblici di molte città del mondo; ha scritto testi teorici e monografie e ha fatto parte del consiglio comunale di Zurigo.
Il nucleo di questa poliedricità si forma, tra il 1927 e il 1929, al Bauhaus di Dessau, dove Bill ha avuto modo di conoscere le opere costruttiviste e di frequentare grandi maestri quali Paul Klee, Wassily Kandinsky e Josef Albers.

All’attività artistica egli affiancò il pensiero teorico, l’impegno politico e divulgativo e l’insegnamento: fu tra l’altro co-fondatore della Hochschule für Gestaltung a Ulm e membro di diversi gruppi e associazioni di artisti, architetti e designer a livello europeo.
Divenne in tal modo il leader carismatico del concretismo internazionale, influenzando il pensiero dei movimenti artistici della metà del Novecento, tra cui l’italiano MAC, Movimento di Arte Concreta, e conseguendo numerosi riconoscimenti internazionali.

La mostra milanese, curata da Otto Letze e Thomas Buchsteiner dell’Institut für Kulturaustausch, rappresenta quindi, in un contesto internazionale, l’occasione di conoscere a fondo un artista che con la sua produzione ha segnato non solo i movimenti artistici contemporanei ma, attraverso il design, le opere pubbliche, l’architettura, ha influenzato anche il gusto della vita quotidiana.

Le ampie e luminose sale di Palazzo Reale offrono un ottimo contesto espositivo per la mostra, che si sviluppa in un percorso articolato e attraverso un allestimento studiato sulle diverse tipologie di opere che l’artista ha progettato.
La sua produzione è coerente in tutte le sue forme con i principi dell’Arte Concreta, definita dalle sue stesse parole come "l’espressione pura della misura e della legge armonica".
Una ricerca dove domina la personale immaginazione dell’artista e che, nel perseguimento dei principi essenziali della creazione, lo avvicina al metodo matematico; le sue opere, tanto in pittura quanto in scultura – celebre è la serie del “nastro infinito” - e design, sono caratterizzate dalle forme geometriche pure ed essenziali e dalla ricerca sul colore. 

Note biografiche
Max Bill nasce a Winterthur, Svizzera, nel 1908. Dopo aver studiato alla Kunstgewerbeschule di Zurigo è allievo al Bauhaus di Walther Gropius, dal 1929 al 1932. Rientrato in Svizzera lavora come architetto, decoratore, grafico, scultore, pubblicista e designer. In tutti questi campi è attivo anche come teorico, insegnante e conferenziere. Nel 1938 è membro del CIAM (Congrès International d’Architecture Moderne) e dell’UAM (Union des Artistes Modernes). 
Nel 1951 è co-fondatore della Hochschule für Gestaltung di Ulm e vi dirige le sezioni di architettura e design. È membro dell’Institut d’Esthétique Industrielle di Parigi, del DWB (Deutscher Werkbund), del BSA (Bund Schweizer Arkitekten), dell’AIA (American Institute of Architects) e dell’ associazione svizzera "Oeuvre". 
Nel 1967 insegna design ambientale alla Staatliche Hochschule für Bildende Kunste di Amburgo. È quindi membro dell’Accademia delle Arti di Berlino e dell’Accademia Reale Fiamminga di Scienze, Letteratura ed Arti, e consulente onorario dell’Unesco. 
L’impegno didattico trova riscontro nella sua attività progettuale; a tal proposito si ricorda la sezione svizzera alla Triennale di Milano (1936 e 1951), gli edifici della Hochschule di Ulm (1953-1954), il padiglione della città di Ulm all’esposizione di Stoccarda (1955), il padiglione dell’esposizione nazionale svizzera di Losanna (1964).
Tra i suoi scritti, si ricordano ‘Mies Van der Rohe’ (1945), ‘Architettura svizzera moderna’ (1949), ‘Robert Maillart’ (1955) e ha curato l’edizione delle opere complete di Le Corbusier.
Muore a Berlino nel 1994.

Jean Paul Sartre: notizie biografiche

a cura DI D. PICCHIOTTI

Nato a Paris nel 1905 da Jean-Baptiste Sartre, ufficiale di marina, e da Anne-Marie Schweitzer [il celebre dottor Schweitzer era suo cugino]. Nel 1924-1928 frequentò l'Ecole Normale di Paris. A questi anni risale l'amicizia con Simone de Beauvoir, alla quale restò sentimentalmente legato per il resto della vita. Insegnò filosofia al liceo di Le Havre dal 1931 al 1933. Fu per un anno, con una borsa di studio, a Berlin e a Friburgo dove lesse per la prima volta le opere di Husserl, Heidegger, Scheler. Richiamato alle armi, il 21 giugno 1940 fu fatto prigioniero dai tedeschi in Lorena, e internato a Treviri. Ottenuta la libertà, facendosi passare per civile, partecipò attivamente alla resistenza antinazista francese. Nel 1945 fondò con M. Merleau-Ponty la rivista «Les Temps Modernes», in cui trovarono espressione le tre esperienze fondamentali della sua vita: quella filosofica, quella letteraria e quella politica. Divenuto famoso come caposcuola dell'esistenzialismo, si recò come giornalista negli USA, iniziando una serie lunghissima di viaggi in ogni parte del mondo. Nel 1947 diede vita con Rousset, Rosenthal e altri a un nuovo partito, il Rassemblement Démocratique Révolutionnaire, di ispirazione marxista ma privo di impostazione classista. Nel 1948 il risultato delle elezioni ne determinò il fallimento. Sartre si impegnò maggiormente nella politica. Nel 1952 partecipò a Vienna al Congresso mondiale della pace. Nel 1953 si pronunciò contro la guerra francese in Indocina. Nel 1956-57 insorse contro la repressione sovietica a Budapest. Del 1961 è il famoso "Manifesto dei 121" che proclamava il diritto all'insubordinazione per i francesi mobilitati nella guerra d'Algeria, e aderiva apertamente al Reseau-Jeanson, l'organizzazione clandestina sostenitrice del Fronte Nazionale di Liberazione Algerino. Nel 1964 gli fu dato il nobel per la letteratura (con questa motivazione: "for his work which, rich in ideas and filled with the spirit of freedom and the quest for truth, has exerted a far-reaching influence on our age"), ma Sartre lo rifiutò (facendo scandalo) per ragioni personali e con ragioni obiettive. Nel 1966-1967 fu tra i promotori del Tribunale Russell. Durante il 'maggio francese' (1968) si allineò con le posizioni politiche di alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare. Ribadì poi questo orientamento, aspramente critico verso il PCF e verso l'URSS, in varie occasioni: insorgendo contro l'invasione della Cecoslovacchia, assumendosi la responsabilità giuridica di periodici filo-maoisti ecc. Sartre è morto a Paris nel 1980.
Jean Paul Sartre: Opere
Relativamente alle sole opere letterarie, Sartre iniziò con il romanzo La nausea (La nausée, 1938). Protagonista è Antoine Roquentin, trasferito da poco a Bouville, un piccolo centro di provincia, per completare un libro di storia. Un giorno avverte improvvisamente una strana sensazione: niente gli appare più come prima, gli oggetti gli lasciano una specie di nausea, il lavoro lo annoia. Annota fedelmente nel diario le sue amare riflessioni, descrive il «formidabile avvenimento sociale» che è la domenica in provincia, racconta la visita al museo dove sono i ritratti delle celebrità locali, riferisce con commiserazione e irritazione le confidenze dell'Autodidatta, un tipo conosciuto in biblioteca, pieno di ingenua fede nell'umanitarismo. Il sentimento di esistere provoca in Antoine una violenta ripugnanza: rinuncia a completare la sua ricerca storica. Solo la musica mette fine alla vertigine della nausea, ed è la musica a suggerirgli la soluzione: creare, scrivere un libro che lasci traccia della sua esperienza e gli consenta di «accettarsi».
Una raccolta di racconti sono quelli de Il muro (Le mur, 1939). Sartre si impegnò poi in un ciclo romanzesco, intitolato "Le vie della libertà" (Les chemins de la liberté), una trilogia che comprende: L'età della ragione (L'âge de raison, 1945), Il rinvio (Le sursis, 1945), e La morte nell'anima (La mort dans l'âme, 1949).
Con Le mosche (Les mouches, 1943) iniziò l'attività drammaturgica. Essa proseguì con il dramma monoatto Porte chiuse (Huis clos, 1945), La puttana timorata (La p... respecteuse, 1946), Morti senza tomba (Morts sans sépulture, 1946). Le mani sporche (Les mains sales, 1948) è un dramma in sette scene. L'azione si svolge in un immaginario paese dei Balcani durante la seconda guerra mondiale, mentre inizia la disfatta tedesca e all'interno del partito comunista già si pongono i problemi del dopoguerra. Hoederer, capo dell'ufficialità comunista, è schierato su posizioni collaborazionistiche, ma gli altri dirigenti del partito non condividono la sua linea politica e decidono di eliminarlo. Incaricato di questa missione è Hugo, giovane intellettuale marxista di origini borghesi. Hugo si stabilisce con la moglie Jessica in casa di Hoederer come segretario. I due oppongono i rispettivi punti di vista: Hugo vuole solo preservare la purezza del suo ideale, mentre Hoederer crede in una politica efficace anche se per applicarla si è costretti a 'sporcarsi le mani'. Hoederer capisce che il vero problema di Hugo è quello di sentirsi respinto da ogni collettività umana, escluso dal mondo borghese per sua scelta, lo è anche dal mondo proletario in cui non è nato. Hoederer si propone di aiutarlo. Dopo qualche esitazione Hugo sta per accettare quando scopre Jessica tra le braccia di Hoederer. Credendosi preso in giro, lo uccide. All'uscita della prigione Hugo scopre che la linea politica di Hoederer è stata ufficialmente accettata da tutti i dirigenti che ora vorrebbero fargli ammettere che ha ucciso per ragioni esclusivamente personali. Hugo rifiuta questa interpretazione strumentale del suo atto, e si getta sotto i proiettili dei suoi ex-compagni.
Seguirono: Il diavolo e il buon Dio (Le diable et le bon Dieu, 1951), Nekrassov (1956), I sequestrati di Altona (Les séquestrés d'Altona, 1960).
Accanto all'attività letteraria fondamentale fu l'attività di critico e stimolatore culturale (es il saggio su Jean Genet intitolato San Genet, 1952), oltre che di filosofo. E di attivista politico: si ricorda ad es una delle sue opere più grosse, dal titolo I comunisti e la pace (Les communistes et la paix) scritto dopo l'arresto nel 1952 del segretario del PCF Jacques Duclos, accusato di complotto contro lo Stato.
Nel 1981 è iniziata la pubblicazione di tutte le opere di Sartre nella prestigiosa collana della «Pléiade». Tra gli inediti e i postumi è da ricordare il progetto per La regina Albemarla o L'ultimo turista (La regina Albemarla o Il ultimo turisto) scritto da Sartre in occasione di un viaggio nel 1951 in Italia: opera rimaneggiata a lungo e in parte perduta, mai portata a compimento, pubblicata da Gallimard nel 1991 a cura di Arlette Elkain-Sartre, la figlia adottiva di Sartre, che riordinò diverse 'sequenze' del manoscritto integrato con le carte conservate alla Biblioteca Nazionale di Paris. L'operina è il diario impressionistico di quel viaggio in varie città italiane.
Jean Paul Sartre: per un'esistenzialismo progressista
Filosofo, romanziere, drammaturgo, polemista, critico e teorico della letteratura, Sartre fu per anni una presenza culturale centrale. Sempre all'opposizione, sempre provocando scandalo presso tutte le chiese. In nessuno dei suoi romanzi o dei suoi drammi è stato mai un autentico inventore di forme espressive. Risulta quasi sempre sollecitato, in partenza, da modelli preformati: Céline ne "La nausea", Dos Passos ne "Il rinvio", Kafka in diversi racconti ecc. Il suo talento letterario si esercita più in estensione che in specificità, per accumulo di gesti creativi più che nella perfezione o nel perfezionamento di singoli gesti. Segnata dalla contraddizione di chi, parlando sempre di 'impegno', crea letterariamente e nega nello stesso tempo alla letteratura qualsiasi forma di autonomia, quella di Sartre è un'opera originale. In indissolubile relazione con la vastità e la coerenza della sua dialettica visione del mondo, la cui unità appare data soprattutto dal grandioso dibattito sulla libertà dell'uomo che percorre tutta la sua opera di pensatore.
L'importanza di Sartre scrittore è legata alla straordinaria, terribile densità del mondo che egli rappresenta nei suoi testi narrativi e teatrali: un mondo assurdo e ripugnante, un mondo «a porte chiuse», dominato dall'orrore per la condizione stessa dell'esistere. Questo inferno senza scampo ha una via d'uscita, data appunto da quella drammatica tensione verso la libertà o la liberazione dell'uomo, che nei libri di Sartre è sempre presente, anche se biologicamente sconosciuta ai suoi personaggi. Questi si dibattono nel disgusto per l'incomprensibile contingenza dell'esistere, o cedono alla malafede che consente di eludere il nodo della condizione esistenziale dell'uomo, la libertà assoluta della scelta. La possibilità di una autentica soluzione vibra nelle pagine letterarie sartreiane. Essa consiste nel lucido farsi carico del proprio agire, cioè della capacità di accogliere una responsabilità e un impegno etici e politici non più garantiti per l'uomo contemporaneo da alcuna certezza.

sabato 22 marzo 2008

Clement Greenberg aveva ragione

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Appena rientrata da dieci settimane passate a Roma e alla Biennale di Venezia, la redattrice della sezione artistica di Babel illustra perché il trattato del 1965 "Modernist Painting" (La pittura modernista) del critico d’arte, risultava estremamente accurato e spiega perché sulla pittura stanno crescendo margherite.
Alcuni artisti sembra abbiano preso il post-modernismo per garantito. Io appartengo a questi. Mi ritorna equo aver gettato via qualsiasi tipo di gerarchia e adottare la premessa che qualunque cosa può essere arte e che l’arte può essere qualsiasi cosa. Immaginatevi la sorpresa che ho avuto quando ho scoperto che esiste un ampio segmento di popolazione che, dopo per lo meno vent’anni di anarchia e della successiva sedimentazione in quell’era che definiamo Periodo Post-Modernista, è ancora in prima fila, o, fatto ancora più impressionante, si sporge in avanti a rifiutare il canone-infante che abbraccio con tanto calore. Un’incursione recente nella venerabile La Bienniele di Venezia lo scorso ottobre, insieme all’esperienza strana e nuova di vivere incredibilmente in stretta prossimità con i pittori che hanno lavorato per dieci settimane, mi ha portato a delle conclusioni nuove e sorprendenti, e a un ritorno - decisamente non prevedibile - al trattato di Clement Greenberg, dal titolo "Modernist Painting" (La pittura modernista).
Ho lottato contro Clement Greenberg, già dalla prima lettura – più di tredici anni fa - del suo libro, lo scritto classico assegnato ai laureandi in arte o in storia dell’arte che affrontano il Ventesimo Secolo. Lo lessi come studentessa di scrittura e mi sembrava (allora, e ancora oggi) che, benché Greenberg scrivesse di Modernismo, il suo stile critico personale fosse alquanto gotico. E’ denso, spesso, e lo affrontai come lessi La Lettera Scarlatta alle superiori: leggevo un paragrafo, cadevo in uno stato di stupore, mi risvegliavo; rileggevo il paragrafo, pensavo: "Quindi?", mi incoraggiavo con un discorso di incitamento sul fatto che possedevo un livello di intelligenza superiore alla media e un vocabolario ben fornito, rileggevo e infine continuavo sperando che qualsiasi cosa mi fosse sfuggita non sarebbe rientrata nella domanda dell’esame.
In tutto, per fini scolastici, ho dovuto affrontare "Modernist Painting" (La pittura modernista) ben quattro volte. E non ricordo con esattezza il numero di volte che ho letto il testo, ma di sicuro varie. Il trattato fu pubblicato per la prima volta nel 1965 e il punto focale verte nell’esaltazione della Pittura Modernista (in particolare la campitura colorata) che costituisce l’apice, il pinnacolo, l’omega possibile dell’arte. A meno che, naturalmente, non si parli di scultura, o forse di "artigianato" (ceramica, vetro, fibra, incisione del legno, fusione del metallo e simili) o altri "mezzi servili" (processi di stampa e fotografia) che sono più funzionali nell’esplicare un servizio alla pittura. Greenberg semplicemente non ha preso in considerazione questi mezzi se non per ravvisare coloro che lavorano nella tridimensionalità di esaminare meglio i successi conseguiti e l’uso delle proprietà specifiche alla propria forma artistica. (Ogni qualvolta rivaluto questo punto, non riesco a bloccare l’entrata nella mente dell’immagine di una famiglia che sceglie l’albero di Natale: E’ voluminoso ovunque? E’ simmetrico? Non ci sono parti spoglie o zone appiattite o chiazze marroni?)
Martin Puryear ha di recente installato un pezzo su commissione nel campus dell’Università di Washington a Seattle; l’artista si è ispirato a un modello aerodinamico che aveva visto. Ho avuto modo di esaminare il disegno e sulla superficie piatta assomigliava a un cucchiaio campione del "Baskin and Robbins 31 Flavors". Tanto poco tempo era passato dalla sua installazione, ancora doveva essere applicata la patina protettiva, che un vandalo vi ha posto la scritta: "naturale o arrostita al miele?" Sembra un arachide, ma, usando il modello di Greenberg come lo intendo io, è un esempio perfetto di una Scultura Modernista. In altre parole, se fosse un albero di Natale andrebbe bene per Martha Stewart. Sta a questo punto comprendere se è la migliore cosa che Puryear abbia mai realizzato: è il pinnacolo della sua carriera? E’ la migliore scultura mai fatta? Per l’amor di Martin, speriamo di no. E secondo me, no. Vi faccio visita a volte per riflettere [come ricerco la spaventosa statua barocca del Bernini, La Verità svelata (Truth), o la Tree-Hand (Mano-Albero) di Magdelena Abakanowicz collocata in prossimità degli alberi effettivamente cresciuti e invecchiati a Bellingham, Washington] di Alison Gates

venerdì 21 marzo 2008

DARE VOCE ALLA MEMORIA. GLI ULTIMI DIPINTI DI WILLEM DE KOONING

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Gli ultimi dipinti di Willem de Kooning sprizzano felicità. Sono le opere di un maestro che ha scelto consapevolmente, all'età di settantasette anni, di cambiare strada, di cercare nuove soluzioni, dimenticando il rigore delle strutture giovanili per dipingere in modo esuberante e gioioso. Agli inizi degli anni ottanta, de Kooning era soddisfatto di quel che aveva fatto e aveva raggiunto uno stadio di perfetta libertà e serenità nella vita e nel lavoro, che si manifestava in una visione di intensa chiarezza.
I dipinti successivi proseguono, attraverso diverse fasi, in questa direzione, fino a raggiungere la ricchezza di colori e il selvaggio abbandono dei quadri del 1987-1988. Questo modo di dipingere accompagnerà de Kooning nei suoi ultimi anni, fino a quando non cesserà di farlo nel 1990, sette anni prima di morire. Gli ultimi dipinti - non solo un nuovo stile, ma nuove invenzioni - sono liberi, consapevoli, musicali e animati da una vibrante vitalità.
In questi anni de Kooning parlava con ammirazione di Matisse e, a quanto sembra, lo faceva quasi tutti i giorni. Decise consapevolmente di lasciarsi influenzare da Matisse. Voleva raggiungere la leggerezza del maestro francese e si servì del suo esempio per rompere con il costruttivismo cubista.
I primi indizi di un cambiamento si manifestano nel 1981. In Untitled VII si possono scorgere ancora i riflessi di Door to the River, 1960, ma si avverte anche un certo rilassamento, la sensazione che tutto sia sul punto di disfarsi, di scardinarsi. Lo sfondo che manteneva unita la composizione è sostituito da un'atmosfera sempre più effervescente, e ben presto le immagini e i colori cominciano a liberarsi e a fluttuare, come la fila di barche dondolanti in mare aperto, simili a giovani ballerine di fila, in Untitled XXIX. La nitida chiarezza di questo dipinto, forse un ricordo di Rotterdam o di Hoboken, apre la via agli sviluppi successivi. Nel 1983 le linee galleggiano in aria, sospese dalla luce, eteree e inafferrabili. Sembra quasi che de Kooning sentisse di avere dinanzi a sé uno spazio aperto, una radura. Con una sconfinata fiducia nelle sue intuizioni, de Kooning punta dritto in quella direzione, cercando ogni possibile occasione di cogliere nuove opportunità.
Le opere rosa dipinte tra il 1982 e il 1984 sono pervase da un senso di grazia. Nelle opere di questo periodo il disegno si esprime con la massima libertà, come se l'artista tracciasse linee e forme nell'aria.
Fluttuano liberamente nel vuoto, piene di giubilo.
Il rosa è il colore predominante di Woman Sag Harbor, 1964, e dei primi dipinti realizzati da de Kooning dopo essersi trasferito nel suo nuovo studio di Springs.
È il colore della luce all'estremità orientale di Long Island, uno dei principali motivi che spinge gli artisti a frequentare da sempre questa zona. È quella che Omero chiamava "l'aurora dalle dita di rosa", e nei mesi invernali la luce di un rosa cristallino conferisce al paesaggio una nitidezza abbagliante.
È chiaro ormai che la pittura dell'ultimo Willem de Kooning non può essere ridotta alla storia delle strisce di colore rosso, giallo e blu, celebrate sin dai tempi della loro prima esposizione a New York nel 1985, presso la galleria di Xavier Fourcade. Queste opere familiari risalgono principalmente agli anni tra il 1984 e il 1985, la "quiete prima della svolta", come l'ha definita David Sylvester, e sono diventate emblematiche della pittura dell'ultimo de Kooning solo perché sono state esposte più delle altre.
È triste dover ammettere che, se Xavier Fourcade non fosse morto nella primavera del 1987, quattro giorni dopo l'ottantatreesimo compleanno di de Kooning, nell'autunno dello stesso anno sarebbero state esposte nella sua galleria opere del 1986 e forse del 1987. La mostra, già progettata, avrebbe cambiato la percezione che si aveva allora, e che si continua ad avere, della pittura dell'ultimo de Kooning.
Tra le opere di questo periodo, una delle più importanti è il Triptych (Untitled V, Untitled II, Untitled IV), destinato originariamente alla chiesa di Saint Peter a New York, e noto per alcuni anni con il titolo di Hallelujah. Chiunque abbia avuto occasione di visitare la cappella Matisse a St. Paul de Vence capirà quanto possa essere attraente per un artista l'idea di ricreare la quiete e la semplicità di quel luogo. De Kooning fu compiaciuto della richiesta e, saggiamente, decise insieme a Fourcade che i dipinti non dovessero essere considerati una
commissione, ma offerti alla chiesa a titolo di prova.
Dalla documentazione relativa al progetto emerge una corrispondenza caratterizzata da drammatici colpi di scena e ripensamenti, oltre che dall'uso di uno splendido linguaggio ecclesiastico, ma in sostanza il progetto fu abbandonato dopo la morte di Xavier, che senza dubbio sarebbe riuscito a condurlo in porto.
La prima versione dell'opera prevedeva due stretti pannelli laterali, ma non soddisfaceva l'impulso dell'artista. Gli sembrava troppo compressa. Alla fine optò per tre dipinti separati, ne voltò uno su un lato, e risolse la situazione creando uno spazio più vasto, un'ampia zona da esplorare con l'immaginazione, una presenza più importante. La collocazione di un
pannello orizzontale tra due verticali crea un ritmo di danza che dona vivacità e leggerezza al trittico, consentendogli di raggiungere il suo obiettivo: elevare lo spirito.
La possibilità di girare su un lato un dipinto faceva parte del procedimento. Il cavalletto di de Kooning era collocato su una specie di pozzo, per permettere all'artista di regolare come desiderava l'altezza del dipinto e di lavorarci da tutti i lati. Si può supporre che tutti i dipinti si trovassero inizialmente in posizione orizzontale ma nessuno poteva dire che orientamento avrebbero avuto alla fine. Lo studio, molto luminoso e con soffitti alti sei metri, era stato progettato dallo stesso de Kooning e realizzato da artigiani del posto, dato che de Kooning cambiava idea ogni giorno. È formato da una specie di prua che si estende di fronte alle camere da letto, nascoste al piano superiore, e nel complesso dà l'impressione di trovarsi su una nave. È una meraviglia architettonica, almeno dal punto di vista dell'artista che dipinge un quadro. Fu terminato quando l'artista aveva sessant'anni, e tutte le opere realizzate nei venticinque anni successivi furono dipinte in questo luogo. È un mondo chiuso e autosufficiente, ed è facile capire perché de Kooning se ne allontanasse di rado; un giro in bicicletta o una camminata sulla spiaggia potevano bastare.
Come emerge da tutte le testimonianze, mano a mano che de Kooning diveniva più vecchio e sempre meno incline alla conversazione, una forte etica del lavoro, il vigore fisico e gli agi del suo studio erano tutto ciò di cui aveva bisogno per continuare a dipingere.
La collocazione naturale dello studio e il suo design essenziale si adattavano perfettamente ai bisogni di un uomo anziano, felice di poter continuare a svolgere quotidianamente il suo lavoro. Era circondato dai suoi assistenti, pittori che lavoravano al suo fianco, confortato da una memoria ancora vivace e dalla compagnia della sua storia dipinta. Mentre lavorava, era capace di fischiettare nota per nota l'intera Petrushka di Stravinskij.
Dal 1986 in poi si assiste a un'esplosione del colore.
De Kooning annunciò di essere tornato a fare un uso completo della sua tavolozza. Aveva la capacità, l'energia e la volontà per andare oltre. I quadri di questo periodo uniscono emozioni sfrenate a una grande chiarezza. Sono liberi e ispirati, come lo sono in genere le opere dipinte con grande rapidità.
Sembrano pieni di luce ed emergono direttamente dall'interiorità di de Kooning, da qualche ricordo profondo e fondamentale, mentre la sua anima si proietta sulla tela con convinzione e a volte perfino con una certa enfasi. È un uccello azzurro, quello raffigurato nel dipinto senza titolo del 1988?
La stessa forma era comparsa in precedenza e, che si tratti o no di un uccello azzurro, non possono esserci dubbi sullo stato d'animo di de Kooning.
Uno scavo approfondito nella memoria deve essere all'origine della produzione di immagini come la figura blu e lavanda di un'opera senza titolo del 1988, che ha un'aria troppo personale per non essere una forma di autoritratto o la rappresentazione di un ricordo infantile. Il colore blu sembra essere sempre in rapporto con l'Olanda, e i dipinti blu appaiono spesso legati a qualche reminiscenza.
Il personaggio è simile a un fumetto e il dipinto sembra avere un carattere scherzoso, che l'artista desiderava condividere con gli altri. Giunto a questo punto della sua esistenza, de Kooning è completamente privo di preoccupazioni, libero da ogni pensiero riguardante la vita quotidiana. Qualcuno pensava a cucinare i suoi pasti, i suoi assistenti erano al lavoro e gli erano devoti, ma in modo disinvolto e non imbarazzante. Tra essi, una doveva essergli particolarmente cara, perché conosceva il fiammingo e gli leggeva brani da un romanzo fiammingo di Aster Berkhof, Amanda, la storia di una donna che non sopportava la vita domestica, accanto al marito e ai figli. A volte si divertiva perfino a sfidarla a braccio di ferro, per dimostrarle quanta forza fisica conservasse ancora all'età di ottantaquattro anni.
A quasi venti anni di distanza, ella è ancora in grado di descrivere con vivacità il modo di dipingere di de Kooning, l'arco disegnato dal suo braccio mentre tracciava un'ampia e potente pennellata dall'alto in basso per tutta la lunghezza della tela, dando prova della sua capacità di afferrare intuitivamente lo spazio. De Kooning era agile e consapevole della sua efficienza fisica.
Immaginare de Kooning ottantenne, mentre dipinge a East Hampton in un paesaggio così simile a quello della sua giovinezza, per il tipo di luce, l'orizzonte basso, l'odore del mare, vuol dire avere di fronte un uomo sereno, equilibrato e soddisfatto. Chi avesse la fortuna di osservare i suoi quadri nel suo studio, noterebbe che i colori sono semplicemente gli stessi del cielo, della spiaggia lungo la baia, e che la loro freschezza non è frutto di un'invenzione.
Il periodo di massima creatività di un artista dura in genere un tempo limitato. Il momento più alto della pittura di de Kooning rimane senza dubbio quello delle Women. La sua capacità di rappresentare il lato selvaggio delle donne, la loro natura libera e vivace, non ha rivali, ma trova un'eco nelle opere più tarde, che, seppure meno turbolente, appaiono altrettanto luminose. Ci si potrebbe chiedere se il ricordo delle donne è ancora presente nelle sue ultime opere.
La forza e la motivazione sono evidenti e può capitare che qualcuna faccia capolino in un modo un po' barocco.
Se si volessero rintracciare gli aspetti che accomunano le opere tarde di molti grandi artisti, si dovrebbero citare ai primi posti lo spirito giovanile, la forza della memoria, forse un atteggiamento innocentemente fiducioso. Agnes Martin, dopo decenni di dipinti senza titolo, il cui significato sfidava ogni interpretazione, cominciò improvvisamente nei suoi ultimi anni a dare alle sue opere titoli quali Loving Love, I Love the Whole World, Everyday Happiness. In questo momento, Georg Baselitz è intento a ridipingere su una scala più grande i soggetti e i temi dei dipinti degli anni sessanta, settanta e ottanta e anche i paesaggi boschivi che dipinse da ragazzo. I dipinti del ciclo Bacchus, realizzati da Cy Twombly nel 2005, hanno richiesto all'artista il maggiore impegno fisico e gestuale della sua carriera, e questo all'età di settantasette anni, la stessa età di de Kooning quando dipinse il primo quadro esposto in questa mostra.
È evidente in Bacchus la volontà di asserire con coraggio e fiducia la forza dell'artista, ancora pienamente padrone di sé e in grado di sorprendere o sbalordire chi lo circonda, e capace di stravaganze come quella di ritagliare silhouette di carta a letto.
La moralità dell'arte rimane nello spirito che essa lascia dietro di sé e lo spirito è quello che resta nella memoria. Gli ultimi dipinti di Willem de Kooning modificheranno il suo ricordo.