sabato 29 marzo 2008

ARISTOTELE

a cura DI D. PICCHIOTTI

Aristotele inizia la sua carriera di filosofo criticando la teoria delle idee di Platone. Naturalmente tale dottrina era discussa a fondo dal maestro e tra i discepoli, però Aristotele si distingue subito per averne affermata radicalmente l'inutilità. La teoria delle Idee, secondo Aristotele, complica inutilmente la spiegazione della realtà: le idee sono più numerose degli individui (se diciamo ad esempio che l'uomo è un animale razionale, troviamo in ogni individuo già almeno tre Idee, quella di uomo, di animale, e di razionale). Se poi si dice che gli individui sono simili all'Idea, si deve riconoscere che questo singolo uomo e l'Idea (di Uomo in sé) non sono simili di per sé (infatti l'individuo non possiede certo l'universalità dell'Idea, è un uomo in particolare e non l'Uomo in sé); devono allora essere simili in virtù di un terzo uomo che, sia simile da un lato all'Idea e dall'altro all'individuo; ma per poter far ciò, il terzo uomo ne esige un quarto, e questo un quinto e così via all'infinito. Insomma, il solco tra le Idee e gli individui si rivela incolmabile. Per sanare il radicale dualismo platonico bisogna dichiarare che reali sono proprio gli individui (ecco la trovata di Aristotele!): è nelle cose visibili che va cercata la causa stessa della realtà, degli individui, del loro divenire. Con l'abbandono del platonismo, Aristotele si dedica ad una sistematizzazione del sapere talmente profonda che egli sarà il culmine del pensiero greco antico. Non solo: le sue idee influenzeranno il mondo occidentale per molti secoli per cui non c'è branca del sapere che non abbia risentito dell'impronta, diretta o indiretta di Aristotele.

Aristotele divide le scienze in tre gruppi: le scienze teoretiche (la filosofia prima o metafisica, la fisica e la matematica), le quali ricercano la conoscenza disinteressata della realtà e si occupano dell'essere necessario (Dio, mondo, numero), mentre le altre si occuperanno dell'essere possibile (ogni altra cosa che esiste); le scienze pratiche, che comprendono l'etica e la politica, le quali ricercano il sapere per raggiungere la perfezione morale e sono di guida alla condotta umana; e infine le scienze poietiche o produttive (le arti e le tecniche), che ricercano il sapere in vista del fare, per produrre i vari oggetti.
Metafisica
La scienza più alta è per Aristotele la metafisica (che in realtà lui chiamava filosofia prima e, più tardi, verrà anche detta ontologia, cioè studio dell'essere), la quale viene da lui definita in quattro modi: essa è la scienza che studia le cause e i principi primi, studia l'essere in quanto essere; studia la sostanza; studia Dio e la sostanza immobile. Dire che la metafisica studia l'essere in quanto essere significa che essa non ha per oggetto una realtà in particolare, bensì la realtà in generale, cioè gli aspetti fondamentali e comuni di tutta al realtà. In altri termini, la matematica studia l'essere come quantità, la fisica studia l'essere come movimento, solo la metafisica studia l'essere in quanto tale, considerando le caratteristiche universali di ogni essere (ecco perché è chiamata "filosofia prima" mentre la altre scienze sono "filosofie seconde"), ed è dunque il presupposto indispensabile di ogni ricerca.
Se la metafisica è lo studio dell'essere, che cosa è l'essere? Aristotele dice che l'essere ha molteplici aspetti e significati (noi diciamo ad esempio che l'uomo è, la neve è sui monti, Dio è...). Esso viene perciò diviso da Aristotele in quattro gruppi principali: l'essere come categoria; l'essere come potenza e atto; l'essere come accidente; l'essere come vero (e il non essere come falso). Noi vedremo brevemente i primi tre aspetti.
Col termine "categorie" Aristotele intende le caratteristiche fondamentali che ogni essere possiede. Esse sono dieci: sostanza, qualità, quantità, relazione, agire, subire, dove (luogo), quando (tempo), avere e giacere. La prima di esse, la sostanza, è la più importante perché è il riferimento comune alle altre categorie che, in qualche modo, la presuppongono (la qualità ecc. è sempre riferita a qualcosa che esiste di già: l'uomo, ovvero la sostanza, è alto, uno, padre, cammina ecc.). Il che ci porta a concludere che, se l'essere si identifica con le sue categorie e le categorie si riferiscono alla sostanza, la domanda su "che cos'è l'essere ?" si trasforma in "che cos'è la sostanza?".
La sostanza è in primo luogo ogni individuo concreto (uomo, cavallo, albero, tavolo ecc.) a cui si riferiscono delle proprietà che lo caratterizzano. E' quindi un sinolo, unione di due elementi che Aristotele chiama materia (hyle) e forma (eidos, morphé). La forma è la "natura" propria di una cosa, è ciò che la rende quella che è e la distingue dalle altre; è dunque la sua "essenza", il suo significato fondamentale, il suo "essere dell'essere". La materia è invece ciò di cui una cosa è fatta, ciò di cui è composta (ad esempio un uomo è fatto di carne ed ossa; una sfera è fatta di bronzo ecc.), ed è dunque un elemento passivo, che viene 'strutturato', dalla forma, nel senso che è la forma che rende ad esempio l’uomo 'animale razionale', mentre la materia sarà il corpo dell'uomo. Entrambe però, la materia e la forma, sono necessarie per fare una sostanza: non può esistere un uomo senza il corpo (materia), né l'anima (forma) senza il corpo.
Se la forma è l'essenza necessaria, da essa si distinguono gli accidenti, i quali sono le varie qualità che si possono avere o non avere senza per questo influire sulla sostanza stessa. Ad esempio Socrate non cessa di essere uomo mentre può essere allegro, triste, sano, malato, ecc. Per cui mentre l'accidente cambia nel tempo, la sostanza rimane la stessa, identica, pur nel mutare delle varie qualità.
Se la forma è l'essenza necessaria, è ciò per cui ogni essere è necessariamente quello che è, allora essa è anche la risposta che possiamo dare circa il che cos'è? di una cosa, in quanto definire un essere vuol dire chiarirne l'essenza (che cos'è questo? è un uomo; cos'è un uomo? un animale razionale). Questo ci porta a fare un breve excursus in ambito logico per accennare al principio di non contraddizione (lo vedremo meglio più avanti): esso sostiene che ogni essere ha una natura determinata che è impossibile negare di esso e quindi, in questo senso, gli è necessaria, non potendo essere diversa da quello che è. E' espresso da Aristotele nel modo seguente : "è impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia". Il che viene dimostrato da Aristotele per assurdo dicendo che, se una parola ha un significato, non è possibile che A sia insieme B e non-B, cioè ad esempio che 'uomo' sia insieme 'animale razionale' e 'non animale razionale'. Ne riparleremo tra qualche pagina.
Tornando alla sostanza, possiamo notare che praticamente ogni cosa è una sostanza, in quanto di ogni cosa - da Dio al più piccolo sasso - si può sempre e comunque chiedere che cos'è?. Ciò significa che tutti gli esseri, prima di qualunque altro valore, hanno questo che li accomuna: il fatto di essere delle sostanze. Il che implica che, per Aristotele, tutte le scienze, in quanto sono tutte rivolte alla ricerca e alla definizione delle sostanze, abbiano la stessa dignità. Con questa idea Aristotele ha ulteriormente abbandonato il Platonismo, giacché per Platone valeva la pena di indagare solo ciò che era ottimo e perfetto e le scienze della natura non erano in fondo delle 'scienze' ma solo delle opinioni probabili. Per Aristotele invece ogni scienza ha valore di per sé. Egli ha quindi giustificato il valore della ricerca scientifica nel suo senso più ampio (ed ecco perché si è occupato di ogni ramo dello scibile) ed ha eliminato il pregiudizio platonico contro l'indagine della natura.
Aristotele afferma, come già Platone, che la conoscenza nasce dalla meraviglia nei confronti della realtà e consiste nel chiedersi il perché delle cose. Ma chiedersi perché una cosa esista o perché sia così e non altrimenti, equivale a chiedersi qual è la causa (= condizione, fondamento, ragione) della cosa stessa, e quindi vi potranno essere diversi tipi di cause. Aristotele elenca quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale.
La causa materiale è appunto la materia, ciò di cui una cosa è fatta (il bronzo è la cosa materiale della statua). La causa formale è la forma o essenza della cosa (la 'ragione' è la forma o essenza dell'uomo). la causa efficiente è ciò che dà origine, inizio a qualcosa (il padre è la causa efficiente del figlio). La causa finale è il fine, lo scopo a cui una cosa tende (il diventare adulto è la causa finale del bambino). La teoria delle cause è legata al problema del mutamento o, meglio, del divenire. Che vi siano delle cose che mutano è una esperienza quotidiana. Ma come poter definire il divenire il generale? Per Aristotele il divenire è il passaggio da un tipo di essere ad un altro. In breve, l'unica realtà è l'essere, ed il divenire è soltanto uno dei modi dell'essere. Approfondendo la questione Aristotele elabora i concetti di essere in potenza e di essere in atto. La potenza (dynamis) è in generale la possibilità, da parte di qualcosa, di cambiare, assumere dunque una certa 'forma'. L'atto (energheia) è la realizzazione di quel cambiamento, è la cosa esistente che si ottiene in seguito al cambiamento. Ad esempio un pulcino è in potenza un gallo, come il gallo è il pulcino in atto (l'atto viene anche chiamato entelecheia, cioè realizzazione o perfezione attuata). L'atto è per Aristotele superiore alla potenza poiché è la causa, il senso, il fine di ciò che è in potenza. Alla domanda se è nato prima l'uovo o la gallina, Aristotele risponderebbe 'la gallina', proprio perché la gallina è la realizzazione compiuta di ciò che è solo in potenza, che potrebbe avvenire ma non è ancora, mentre solo ciò che è in atto ci permette di conoscere quello che è in potenza.
Non ci rimane che illustrare la metafisica come 'studio di Dio'.
Sviluppando un argomento già presente negli ultimi dialoghi platonici, Aristotele sostiene che la materia non può avere in se stessa la causa del proprio movimento. Dunque tutto ciò che si muove, è necessariamente messo in moto da qualcos'altro. Questo qualcos'altro, poi, se è anch'esso in movimento, è mosso da altro ancora (come la pietra è mossa dal bastone, che è mosso dalla mano, che è mossa dall'uomo). Orbene, in questo processo di rimandi non si può procedere all'infinito perché altrimenti rimarrebbe inspiegato il movimento iniziale, dalla cui constatazione siamo partiti. Non potendo così andare all'infinito, vi devono essere dei principi, ovvero dei motori immobili a cui fanno capo i vari movimenti e, a maggior ragione, vi deve essere un principio primo e immobile, un Primo Motore Immobile, a cui fa capo tutto il movimento. Per Aristotele questo Motore Immobile è Dio stesso, a cui il filosofo attribuisce anche altre caratteristiche. Prima di tutto Dio deve essere un atto puro, cioè un atto senza potenza, giacché la potenza è la possibilità di cambiamento mentre Dio, se è Motore Immobile, non può essere sottoposto al mutamento. Inoltre Dio deve anche essere forma pura o sostanza incorporea perché è appunto privo di materia.
Alla domanda: come può il Primo Motore muovere restando immobile? Aristotele dice che esso non muove come una causa efficiente, dando un impulso, ma muove come causa finale, cioè come 'un oggetto d'amore'. In altre parole, il Primo Motore muove come l'oggetto d'amore attrae l'amante, pur restando immobile. Dio è la Perfezione che, come una calamita, attira e quindi muove il mondo. Di conseguenza, l'universo è una sorta di sforzo della materia verso Dio e quindi, in pratica, un desiderio incessante di prendere 'forma', Non è tanto Dio che dà forma al mondo, ma è piuttosto il mondo che, aspirando a Dio, si auto-ordina (non si dimentichi che per i Greci l'universo non è creato, non ha avuto origine, sussiste da sempre).
Un'altra caratteristica del Dio aristotelico è che è vivente. Ma di quale tipo di vita? Quella che per Aristotele è la più perfetta, quella che all'uomo è possibile solo per breve tempo, e cioè la vita del puro pensiero, della contemplazione (theoria). E che cosa contempla Dio? Non può che contemplare la cosa più perfetta e quindi... contempla se stesso: egli pensa se stesso, è 'pensiero di pensiero'. Si noti che Dio non è però unico. Per i Greci era 'divino' tutto ciò a cui si può attribuire l'eternità e l'incorruttibilità, per cui sono divine molte cose, come le sostanze soprasensibili, l'anima razionale dell'uomo e anche i motori dei cieli. Aristotele pensava infatti che il cielo fosse in realtà costituito da moltissime (da 47 a 55) sfere celesti, ognuna delle quali veniva mossa da una intelligenza motrice, che era dunque divina, analoga al Primo Motore ma inferiore a lui, anzi inferiori le une alle altre, come sono gerarchicamente inferiori le sfere che, una dopo l'altra, sono tra le stelle fisse e la terra. E si ricordi, in ultimo, che il Dio di Aristotele non è né creatore e né provvidenza. Esso non crea il mondo dal nulla (questa è una concezione ebraico-cristiana) visto che il mondo è eterno; non conosce e non ama il mondo giacché l'amore è visto come una imperfezione, in quanto è la tendenza a ricercare ciò di cui abbiamo bisogno (ricordate Platone?) mentre, se Dio è perfetto, non può avere bisogno di nulla e quindi non può amare. Il Dio di Aristotele è insomma una statica perfezione che si bea eternamente di se stessa.
Fisica
Com'era visto il mondo da Aristotele? Pensate che quanto egli sostenne rimarrà tale fino al 1600, quando Galilei e altri daranno origine alla scienza moderna. Vi è, secondo Aristotele, il mondo celeste ed il mondo sublunare, in cui è situata la Terra. Le sostanze del mondo sublunare sono costituite da quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. Ogni elemento si muove in una direzione determinata dal suo peso; ciascuno di essi ha quindi un luogo naturale a cui tende (per Aristotele non c'è il vuoto perché in uno spazio vuoto nulla offrirebbe resistenza e quindi non ci sarebbe differenza di velocità tra corpi pesanti e corpi leggeri). La terra, in quanto corpo più pesante, occupa il centro dell'universo, Al di sopra della Terra vi sono la Luna, il Sole, i pianeti e le stelle. I corpi celesti sono legati ad una serie di sfere concentriche, che si muovono in cerchio (perché è il moto perfetto) intorno alla Terra. Il movimento circolare è eterno, così come è eterno il mondo nel suo complesso ed eterne le specie animali e vegetali che lo popolano (bisognerà aspettare Darwin per contestare questo aspetto). Il moto circolare è proprio delle sostanze incorruttibili ossia dei corpi celesti. Essi sono composti da una quinta essenza o etere. I processi di generazione e corruzione sono propri solo delle singole sostanze del mondo sublunare.
Nel mondo sublunare vi sono molte specie viventi. Non ogni corpo ha naturalmente la vita: basti pensare alle pietre o ai metalli. Solo un corpo organico, ossia un corpo dotato di strumenti in grado di svolgere certe funzioni, può avere la vita in potenza. L'anima, secondo Aristotele, non può esistere indipendentemente dal corpo: essa è l'atto perfetto o entelecheia di un corpo che ha la vita in potenza; mentre il corpo è la 'materia' di quel sinolo (composto) che è l'essere vivente. L'anima ha diverse funzioni: quella nutritiva e riproduttiva (che è anche comune a piante ed animali), quella sensitiva (propria solo degli animali e degli uomini : si ricordi che per Aristotele è il cuore e non il cervello il centro delle funzioni percettive e fisiologiche), e infine quella intellettiva, propria solo dell'uomo, che è un intelletto che non ha bisogno di un supporto corporeo per svolgere il suo compito (ad esempio giudicare il vero dal falso, ciò che è da desiderare o da fuggire ecc.). L'intelletto è in potenza e diventa in atto quando conosce. Mentre l'anima individuale umana non è immortale (l'abbiamo visto prima dicendo che è legata al corpo), l'intelletto produttivo (poietikos) è sempre in atto ed è impassibile, separabile e quindi immortale. Aristotele dice che è divino e proviene all'uomo dall'esterno. Il che procurerà diversi fastidi ai commentatori posteriori di Aristotele che cercheranno di risolvere in qualche modo la posizione non ben chiara del maestro.
Etica
Passiamo ora all'etica aristotelica. Se fino a Platone l'etica non aveva alcuna autonomia rispetto alla filosofia, con Aristotele questa autonomia è riconosciuta alla cosiddetta 'filosofia pratica', che comprende però, insieme, sia etica che politica o, meglio, l'etica è vista come politica nella misura in cui essa può ispirare una legislazione adeguata per promuovere la felicità collettiva e dunque anche individuale. Aristotele riconosce però subito che il campo del bene e del giusto su cui indaga il sapere etico-politico presenta un tale grado di variabilità e instabilità da non consentire altro approccio alla verità se non per approssimazione. D'altra parte, dice Aristotele, quel che vogliamo acquisire in un trattato di etica come l'Etica nicomachea (ovvero Etica a Nicomaco, dedicata al figlio di Aristotele che aveva preso il nome dal nonno) non è tanto la conoscenza 'teorica' della virtù, quanto uno strumento per diventare 'uomini buoni e felici'.
E appunto nella felicità consiste il bene più alto per Aristotele Il bene non è più, come in Platone, l'Idea o la realtà più alta, ma, molto più concretamente, "ciò a cui ogni cosa tende". Da questo punto di vista, vi è una molteplicità di fini e quindi di beni, anche se vi è una gerarchia di desiderabilità tra tutti i beni. La felicità comprende molte cose: una buona vita, una attività coronata da successo, un gruppo di amici con cui condividere le esperienze, il possesso di un minimo di beni, insomma oggi diremmo una 'esistenza realizzata'. Non per nulla il termine greco per 'felicità' è eudaimonia, che vuol dire letteralmente essere accompagnati 'da un buon demone', quindi da una sorte propizia.
Aristotele si riferisce comunque ad una felicità esclusivamente umana e, del resto, per lui non è neppure concepibile una felicità ad esempio degli animali; non solo, ma per Aristotele l'uomo potenzialmente felice è il membro giusto, agiato, della polis, per cui ne sono esclusi schiavi, artigiani ecc. Comunque Aristotele riconosce la fragilità della felicità concessa agli uomini: il virtuoso sarà però capace di fronteggiare con serenità le varie vicissitudini della sorte (tyché).
Ma come si diventa 'giusti'? Non certo attraverso un insegnamento teorico. La via maestra per la virtù è l'abitudine alla condotta virtuosa (si noti in greco il nesso linguistico tra ethos, carattere, ed ethos, abitudine). In altri termini, si diventa giusti abituandosi a compiere azioni giuste. La formazione morale si attua cioè attraverso l'abitudine e finisce per consolidarsi in una sorta di 'seconda natura' del soggetto.
Il criterio effettivo a cui paragonare il nostro comportamento non è, per Aristotele il riferimento ad un bene più o meno astratto, ma è costituito dal comportamento effettivo di una figura socialmente riconoscibile e approvata per la sua conformità ai modelli morali condivisi: è insomma l'uomo che è serio e virtuoso, lo spoudaios, che costituisce 'il canone e la misura' del comportamento morale. Aristotele nomina esplicitamente, a questo riguardo, Pericle e i suoi simili, come rappresentanti del 'perfetto gentiluomo ateniese'. Detto in breve: vuoi essere virtuoso? Comportati come fa Pericle.
Però se lo spoudaios funge da criterio di virtù, è perché egli ha scelto di vivere secondo virtù, cioè ha ritenuto che fosse meglio vivere virtuosamente invece che malvagiamente. Il che ci porta ad affrontare il tema della libertà, che è tutt'altro che semplice nel pensiero aristotelico. In primo luogo si noti che il termine greco che viene generalmente tradotto con 'libertà' è eleutheria, che designa non tanto la libertà 'psicologica' quanto la condizione giuridica dell'uomo libero, in contrapposizione allo schiavo. Né lui né nella lingua del suo tempo vi è qualcosa di simile al nostro libero arbitrio. Egli dice che un'azione è libera quando "dipende dall'uomo stesso". Ma il senso esatto di questo autòs si riferisce all'individuo umano preso nel suo complesso, concepito come l'insieme delle disposizioni che formano il suo carattere particolare, il suo ethos. Il carattere di ogni uomo si fonda su una somma di disposizioni (héxeis) che si sviluppano attraverso la pratica e si fissano in abitudini. Una volta formato il carattere, dice Aristotele, il soggetto agisce in conformità a queste disposizioni, e non potrebbe essere altrimenti. Ora, è vero - ammette Aristotele- che chi ha acquisito una abitudine, ad esempio l'ingiustizia, non può tornare indietro (si pensi oggi ai drogati, ai delinquenti ecc.), ma "all'inizio gli era possibile non diventare ingiusto", e quindi lo è diventato volontariamente, trasgredendo il 'condizionamento virtuoso' operato dal padre, dalla polis, dalla legge. Inoltre Aristotele è convinto che né la spinta della passione (al contrario di quanto sostenevano i tragici del pensiero arcaico) né l'attrazione del piacevole esercitano su di noi una vera e propria costrizione: resta sempre in noi la possibilità di resistere, di esercitare quel potere interiore (enkrateia) che distingue il virtuoso dall'intemperante. In altri termini, per Aristotele le passioni non costituiscono in loro stesse il male morale: occorre solo incanalare le passioni quando e come si deve, verso chi e per il fine che si deve, seguendo la regola della medietà. La virtù consiste infatti nella medietà, cioè nella scelta della vita intermedia fra i due opposti errori dell'eccesso e del difetto passionale. Non vi è però una sola virtù ma diverse. Come suo solito, molto concretamente, Aristotele ritiene che vi siano due tipi fondamentali di virtù, quelle etiche e quelle dianoetiche, a seconda che si riferiscano rispettivamente alle nostre attività pratiche o a quelle intellettuali. Le prime sono il coraggio, la temperanza, la generosità o liberalità, la magnanimità e la mansuetudine; le seconde comprendono la scienza, l'arte, la saggezza, l'intelligenza, la sapienza. Vediamole più in dettaglio.
Il coraggio (riguarda ciò che si deve o no temere) è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà. La temperanza (riguarda l'uso moderato dei piaceri) è il giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità. La generosità o liberalità (uso accorto di ciò che si possiede) è il giusto mezzo tra l'avarizia e la prodigalità. La magnanimità (concerne la retta opinione di se stesso) è il giusto mezzo fra la vanità e la piccineria d'animo. Infine la mansuetudine (concerne l'ira) è il giusto mezzo tra irascibilità e indolenza.

A parte vi è la giustizia che è, per Aristotele, la virtù per eccellenza. La 'giustizia' implica il concetto di ordine e di equilibrio: ordine e misura sia in sé che nel rapporto con gli altri, così che ciascuno possa liberamente attuare se stesso in una armonia superiore. In questo senso giustizia-libertà-morale coincidono.
A parte ancora vi è pure l'amicizia (philia) a cui Aristotele dedica due libri dell'Etica nicomachea (l'8° e il 9°). La felicità è perfetta se, oltre alla contemplazione, l'uomo possiede un certo numero di beni ed in più ha degli amici. L'amicizia è strettamente collegata alla virtù, ed è la cosa "più necessaria" alla vita. L'amicizia, quando è fondata appunto sul bene e sulla virtù, è perfetta, ed è quindi stabile e ferma. "L'uomo virtuoso si comporta verso l'amico come si comporta verso se stesso, perché l'amico è un altro se stesso" (Et. nic.,9,9,1170 b 5).
Le virtù dianoetiche sono la scienza, che è la capacità dimostrativa, ed ha per oggetto ciò che è necessario; l'arte, che è la capacità, accompagnata a ragione, di produrre un oggetto, ed ha sempre un fine fuori di sé; la saggezza (phronesis) è la capacità, congiunta a ragione, di agire in maniera conveniente sui beni umani; ad essa spetta di determinare il giusto mezzo in cui consistono le virtù morali; l'intelligenza è la capacità di cogliere i principi di tutte le scienze; la sapienza (sophia) è la più alta fra le virtù dianoetiche. Chi ha la sapienza ha scienza ed intelligenza; sa dedurre non solo i primi principi ma sa anche giudicare della verità degli stessi principi. La sapienza riguarda poi le cose più alte, il necessario e il divino, nei cui confronti un solo atteggiamento è possibile, quello della contemplazione (theoria), che è l'attività più alta perché, contemplando, l'uomo supera la stessa felicità umana (propria dell'esercizio delle virtù etiche) e partecipa della vita divina. Perciò, se la felicità maggiore consiste nella virtù più alta, e se la virtù più alta è la sapienza, l'uomo più felice sarà il sapiente e cioè il filosofo. E' lui l'unico vero makarios (beato, felice) su questa Terra, poiché la sua vita è fatta di serenità e di pace, dedito com'è alla contemplazione! Una tale virtù però non è pensabile al di fuori della vita associata. L'uomo non può fare a meno degli altri, per cui la felicità perfetta si attua nella vita comune, insieme agli altri, nella polis.
Logica
Si potrebbe dire ancora tantissimo su Aristotele. Non si può tralasciare la sua concezione della logica, che tanta influenza ebbe nei secoli a venire, fino ai nostri giorni (le logiche attuali sono nate in relazione all'assoluto predominio della logica aristotelica). Aristotele è dunque il creatore della cosiddetta logica formale, che è quella scienza che studia il ragionamento e ne elenca le forme corrette, indipendentemente dal loro contenuto, cioè dal riferimento al concreto.
In primo luogo Aristotele distingue tra ragionamenti veri e quelli probabili: i primi li chiama apodittici, analitici o scientifici; ai secondi dà il nome di dialettici. La 'dialettica' studierà quindi le regole generali della discussione e, in particolare, il campo delle opinioni dei più competenti. L'analitica (cioè la nostra logica) in senso stretto studierà invece il ragionamento scientifico o apodittico (= ciò che è evidente e non ha bisogno di dimostrazione), quel ragionamento, cioè, che muovendo da premesse rigorosamente vere, e cioè inconfutabili, ne deriva una conclusione necessaria.
Il sillogismo è appunto un tipo di ragionamento del genere. Esso si compone di tre giudizi, di cui i primi due sono detti premesse ed il terzo è la conclusione. Ad esempio "Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è uomo; quindi Socrate è mortale". Si noti inoltre che nelle due premesse è inserito il cosiddetto termine medio, che consente l'affermazione della conclusione (in questo caso è 'uomo'), usandolo prima come soggetto e poi come predicato.
La teoria del sillogismo di Aristotele presenta anche le regole per dedurre in modo corretto una conclusione vera, date naturalmente certe premesse. Pensate che Aristotele classificò 19 modi validi (su 64 modi teoricamente possibili) di esprimere una proposizione qualunque, ai quali i logici medievali diedero delle sigle particolari per ricordarli più facilmente. Ad esempio ad una frase o proposizione 'universale affermativa' (="tutti gli uomini sono mortali") essi diedero la lettera A; ad una universale negativa, diedero la E; ad una particolare affermativa diedero la I e ad una particolare negativa attribuirono la lettera O. In più, per ricordare in sintesi che un sillogismo, ad esempio, era composto da tre frasi o proposizioni tutte universali affermative, i logici medievali inventarono delle parole come ad esempio BARBARA, che indica appunto un tale tipo di sillogismo (Se volete esercitarvi, provate a scoprire altri tipi di sillogismo scomponendo le seguenti parole: CELARENT, DARII, CESARE, CAMESTRES...).
Se è vero che, partendo da certe premesse si può arrivare a determinate conclusioni, è anche vero però che, alla base di ogni ragionamento vi sono alcuni principi intuitivamente veri o assiomi, che non possono a loro volta essere dimostrati, ma fondano la possibilità stessa di ogni dimostrazione. Tali sono i tre principi di identità, non contraddizione e del terzo escluso. Essi non sono appunto dimostrabili perché sono alla base di ogni dimostrazione; al massimo si possono illustrare e la loro dimostrazione è solo per assurdo o elenctica. Il principio di identità sostiene che A è uguale ad Aristotele Ciò è immediatamente evidente: ma se volessimo chiarirlo meglio, potremmo dire che è impossibile che A non sia A in quanto... si darebbero due significati diversi del termine, ovvero sarebbero vere sia l'affermazione che la negazione.
Il principio di non contraddizione viene espresso in diversi modi da Aristotele Una delle formulazioni è la seguente: "E' impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga ad una stessa cosa e per il medesimo rispetto" (Metaf., IV, 3, 1005 b). Ovvero: "E' impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia" (Ibid., IV, 4). Con un esempio: "E' impossibile che un uomo sia insieme animale bipede e non animale bipede". Tale principio è importantissimo per Aristotele perché, se lo si nega, ne segue che ogni affermazione può essere insieme vera e falsa, il che escluderebbe la possibilità di distinguere il vero dal falso, conducendo verso il relativismo e lo scetticismo. Contro un rischio così grave, Aristotele si impegna a fondo nell'affermare la validità del principio di non contraddizione. All'avversario del principio di non contraddizione, per confutarlo, Aristotele chiede di pronunciare una parola qualsiasi, basta che abbia un significato. Se rinuncia a parlare, rivela l'assurdità della sua posizione; ma se parla e dice qualcosa, ad esempio "sì", oppure "uomo" ecc., la negazione del principio di non contraddizione ne risulta confutata. Infatti, ammettendo che una parola significhi qualcosa, si esclude nello stesso tempo che una tale parola possa significare qualcos'altro: ad esempio dire "sì" equivale ad escludere il "no", come pure dire "uomo" vuol dire intendere "animale razionale" e non "animale irrazionale". In sintesi, se ogni parola ha un significato, è impossibile che A sia insieme B e non-B, cioè che 'uomo' sia insieme 'animale bipede' e 'non animale bipede'.
Infine, col principio del terzo escluso, Aristotele sostiene che "non è possibile che ci sia qualcosa di intermedio tra due enunciati contrari, bensì di un'unica cosa è necessario affermare o negare un unico predicato". Detto in altri termini, A è B oppure non è B, non c'è una terza possibilità. Insomma, ogni frase, ogni proposizione dotata di senso o è vera o è falsa. Date quindi due proposizioni contrarie, una di esse è necessariamente falsa. Tra due tesi che si escludono a vicenda, non è possibile enunciarne una terza. Con un esempio: o l'uomo è un animale razionale o non è un animale razionale, non è possibile vi sia una terza possibilità.

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