giovedì 30 ottobre 2008

EPICURO "IL PIACERE"

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Partendo dalla constatazione che ogni piacere è di per sé un bene , ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per noi , Epicuro distingue tra piacere cinetico o in movimento , il quale accompagna un processo ed é sempre mescolato al turbamento o al dolore , e piacere catastematico o stabile ( in greco edonh katasthmatikoV ) , proprio invece da uno stato privo di dolori . Contrariamente ai cirenaici , che indicavano nel piacere del momento l'obiettivo da perseguire , Epicuro ripone il fine nel piacere catastematico . Esso coincide con la completa soddisfazione del desiderio , che di per sè é una condizione dolorosa legata a uno stato di mancanza . I desideri , a loro volta , si distinguono in desideri naturali e necessari , per esempio il cibo , e desideri non necessari . Soltanto i primi possono e devono essere integralmente soddisfatti , secondo Epicuro , mentre gli altri non possono mai essere soddisfatti completamente e quindi si accompagnano sempre al dolore . Il piacere stabile per Epicuro é l'assenza di dolore , mentre i piaceri in movimento sono quelli accompagnati dal dolore ( come già diceva Platone nel " Gorgia " ). Epicuro ha distinto: 1) piaceri naturali e necessari, 2) piaceri naturali ma non necessari, 3) piaceri non naturali e non necessari.

1. Fra i piceri del primo gruppo egli pone i piaceri che sono strettamente legati alla conservazione della vita dell'individuo, essi sono gli unici che veramente giovano sottraendo il dolore del corpo (mangiare quando si famen, bere quando si ha sete….) Questi piaceri vanno sempre e comunque soddisfatti perchè hanno un preciso limite dalla natura che permette l'eliminazione del dolore

2. Nel secondo gruppo abbiamo tutti quei desideri e piaceri che sono variazioni superflue dei piaceri del primo gruppo: mangiare troppo, bere bevande raffinate. Questi piaceri non hanno più quel limite perché non sottraggono il dolore corporeo, ma variano solo il piacere e possono provocare un notevole danno.

3. Abbiamo i piaceri vani nati cioè dalle vani opinioni degli uomini, sono tutti desideri legati al desiderio di ricchezza, potenza e onore.
Questi piaceri non tolgono dolore al corpo ma provocano sempre turbamento all'anima. Va fatto notare inoltre il carattere sensiobile del piacere, sono tutti piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Tutto ciò poiché secondo Epicuro la sensazione è il canone fondamentale della vita dell'uomo. Occorre precisare che se per edonismo si intende una dottrina che indica nel piacere il fine della vita umana , Epicuro é un edonista , ma se per edonismo s'intende una dottrina che indica questo fine nel perseguimento di qualsiasi piacere , Epicuro non é un edonista . Egli , anzi , ben lungi dal farsi sostenitore di una vita dissoluta , contrappone la frugalità , legata al soddisfacimento dei bisogni naturali e necessari , al lusso e alla crescita illimitata e artificiale dei desideri ; il piacere , infatti , non si può accrescere a suo avviso oltre un certo limite . Inoltre , proprio perchè il piacere coincide con l'assenza di dolori , per perseguirlo occorre effettuare una sorta di calcolo dei piaceri , ponendo sulla bilancia anche i piaceri o i dolori futuri che possono conseguire dalla scelta presente di un piacere o di un dolore ; la scelta migliore sarà quella che darà luogo al piacere maggiore : dice infatti Epicuro: " Per ognuno dei desideri va posta questa domanda: che cosa mi accadrà se si realizza il mio desiderio, e che cosa, se non si realizza ? " . Il filosofo non avrà dunque timore dei dolori , perchè se sono forti , durano poco , mentre se durano a lungo , col tempo non sono più sentiti . Lo stesso Epicuro conservò un atteggiamento di tranquilla serenità di fronte alle malattie che lo tormentarono fino alla morte ( un tumore alla prostata ) . La felicità consisterà in una vita colma di piaceri , nel significato che si é chiarito . In tal modo , il filosofo raggiungerà quella ataraxia , assenza di turbamenti , che lo farà vivere come un dio tra gli uomini . Anche per Epicuro , come già per Aristotele , il modello ultimo della vita filosofica é la vita divina , ma questa non consiste più , come per Aristotele , nell'attività teoretica di studio disinteressato dell'universo e della natura , bensì nell'esercizio privo di turbamenti della saggezza nella condotta della propria vita . L'uomo é libero nel perseguimento del piacere e della felicità . Il clinamen , eliminando la necessità assoluta e introducendo un elemento di casualità nell'universo e quindi anche nel moto degli atomi che costituiscono l'anima umana , é la condizione di possibilità dell'azione libera dell'uomo ( il libero arbitrio ) . Epicuro non voleva cadere in contraddizione e cadere in contraddizione significava cadere nel determinismo : la sua é una filosofia con scopi morali e un insegnamento morale sarebbe privo di senso se si fosse convinti che tutto avviene in maniera necessaria , compreso il comportamento : che senso avrebbe , infatti , dire ad uno di comportarsi in un modo , se non vi é libertà di scelta ? E' per questo che Epicuro e la sua filosofia ruotano attorno ad un indeterminismo naturale , che già abbiamo incontrato nel klinamen : vi é un margine di indeterminazione che garantisce la libertà : l'uomo può scegliere come agire e dunque l'insegnamento morale ha un suo senso : é sensato dare consigli all'uomo su come comportarsi , visto che egli può scegliere . E del resto, nella 'Lettera a Meneceo', Epicuro dichiara che ' piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità ' . Abbiamo già detto che Epicuro é vicino alla fisica moderna per l'indeterminismo ; ora aggiungiamo che egli lo é anche a riguardo delle spiegazioni multiple che egli fornisce : infatti oltre che all'etica , Epicuro si occupa anche di fisica : infatti può essere utile conoscere come é fatta la realtà per saper vivere in modo più sereno ( vedi la religione ) . Spiegare in termini fisici certi eventi dà serenità : i fulmini , i tuoni , i terremoti ... Questo non toglie la gravità dell'evento , ma tuttavia dissipa le paure irrazionali . Non sono eventi divini , ma fisici : spiegazioni ad essi ce ne sono svariate ed é impossibile sapere quella esatta : più di una può essere valida . L'accettazione di più spiegazioni ha valenza etica : l'importante é sapere che é spiegabile in termini fisici : la fisica moderna é un pò dello stesso parere di Epicuro : il fenomeno della luce , per esempio , ha dato vita a parecchie dispute nel corso della storia : vi fu chi disse che essa era di origine corpuscolare , chi invece sostenne che fosse ondulatoria ; poi si é scoperto che alcuni fenomeni luminari sono corpuscolari , altri ondulatori : la luce può quindi essere sia l'una sia l'altra cosa . Così é anche per Epicuro .

Pittura del dopoguerra “non formale”,

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Lo sconvolgimento culturale determinato dalla tragedia della seconda guerra mondiale investì anche l’ambito artistico, minandone le fondamenta teoriche ed estetiche. Si affermò la pittura informale – ovvero “non formale”, con un superamento delle categorie di “pittura astratta” e “figurativa” – che negli Stati Uniti sfociò nell’espressionismo astratto dell’Action Painting.
Varie interpretazioni della pittura informale compaiono negli anni Quaranta e Cinquanta nelle opere di Jean Fautrier, caratterizzate da un impasto denso di pigmenti che evoca larvate figurazioni, e in quelle di Jean Dubuffet : quest’ultimo è noto come teorizzatore e fondatore della cosiddetta Art Brut, che prendeva a modello i linguaggi primitivi, dei bambini e dei folli, abolendo ogni idea di progettualità nel fare artistico. Altri artisti importanti per la definizione della pittura informale furono Wols (Wolfgang Schultze) e Hans Hartung, entrambi di origine tedesca e a lungo attivi in Francia, i quali ricorsero soprattutto a un segno gestuale fortemente espressivo, e Pierre Soulages.
Anche Henri Michaux, dopo un’esperienza surrealista, giunse a una figurazione segnica informale, in parte ispirata alla calligrafia orientale; un’influenza simile si riscontra inoltre in Georges Mathieu, uno dei primi europei a sperimentare la tecnica del dripping.
Nel 1960 il critico francese Pierre Restany fondò a Parigi il gruppo del Nouveau Réalisme cui aderirono, tra gli altri, Arman, Yves Klein, César, Daniel Spoerri, Jean Tinguely, l’italiano Mimmo Rotella e in seguito Niki de Saint-Phalle e Christo. Prendendo le mosse da una reinterpretazione del ready-made di Duchamp, gli artisti del movimento focalizzarono l’attenzione sugli oggetti d’uso quotidiano, strappati al loro contesto e valorizzati nelle loro insite potenzialità espressive. Il Festival del Nouveau Réalisme a Milano nel 1970, fu organizzato quando già la vitalità del gruppo si andava rapidamente esaurendo.
Durante gli anni Sessanta, e per buona parte degli anni Settanta, si affermarono nuove modalità espositive nelle gallerie europee, sulla scorta di quanto avveniva già da tempo negli Stati Uniti, negli happening di Allan Kaprow e John Cage e negli environment di Claes Oldenburg e Jim Dine. Nello stesso periodo nasceva il movimento internazionale della Body Art, che prendeva come materiale e mezzo espressivo il corpo umano: tra gli esponenti di punta figurano Orlan e Gina Pane, famosa quest’ultima per le performance individuali durante le quali si procurava lesioni e ferite, intendendo esprimere in questo modo la forza della libertà e dell’amore contro ogni legame e repressione.
Tra gli esponenti francesi dell’arte concettuale si distinsero Daniel Buren e Bernard Venet (anche se quest’ultimo si trasferì alla metà degli anni Sessanta negli Stati Uniti). Buren nel 1967 aveva esposto insieme a Olivier Mosset, Parmantier e Niele Toroni (gruppo BMPT), nell’ambito della corrente detta Nuova pittura (chiamata anche pittura-pittura, pittura analitica, astrazione analitica), che proponeva una riduzione della pittura agli elementi primari (superficie, segno, colore). Posizioni simili caratterizzavano il gruppo Supports/Surfaces (Dezeuse, Dolla, Pagès, Pincemin, Saytour, Viallat, Cane, Devade), che applicò alla teoria estetica i concetti dello strutturalismo francese e della psicoanalisi di Jacques Lacan.
Rientra nell’ampio alveo dell’arte concettuale anche la Narrative Art, nata negli Stati Uniti, nella quale si segnalò l’artista francese Christian Boltanski: le sue installazioni sono spesso ricostruzioni della sua memoria personale o di quella collettiva, che inducono a una riflessione profonda sulla violenza e sulla morte.
Al principio degli anni Ottanta, similmente a quanto stava accadendo negli Stati Uniti con i graffitisti, in Germania con i Nuovi Selvaggi (Neuen Wilden) e in Italia con la Transavanguardia, in Francia si affermarono movimenti artistici che indicavano come fonte di ispirazione e modello linguistico il mondo dei media popolari e del fumetto: il gruppo della Figuration Libre (termine coniato da Ben Vautrier), composto da Robert Combas, François Boisrond e Hervé Di Rosa, e il gruppo En avant comme en avant, di cui facevano parte Pascal Chardin, Eric Deroo, Blaise Sourdelle e Titus A.B.S. Citazioni più colte, da Tiziano ad esempio, sono invece riconoscibili nei dipinti degli artisti definiti “neoclassici”, tra cui Gérard Garouste e Vincent Bioulès, che si dedicavano sovente a soggetti mitologici.

''Max Ernst nella Collezione Würth'' (Palermo 2008) - Biografia di Max Ernst

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Maximilien (Max) Ernst è nato a Brûl (Germania) il 2 Aprile 1891. Dopo aver studiato filosofia, storia dell'arte e psichiatria a Bonn, inizia a disegnare scoprendo la sua vocazione all'arte.
Nel 1913 con Sturm espone i primi quadri a Berlino e conosce Guillaume Apollinaire.
Nel 1914 Max Ernst, che si presenta con il nome di battaglia Dadamax, comincia a lavorare con Hans Jean Arp e Johannes Baargeld ed insieme aderiscono al movimento del "Blaue Reiter" di Monaco e al gruppo "Der Sturm" di Berlino.
La scoperta di Giorgio De Chirico, la conoscenza di Sigmund Freud, della psicoanalisi e l'esperienza diretta fatta da studente negli ospedali psichiatrici, contribuiscono in varia misura alla definizione del suo particolare dadaismo che si esprime soprattutto nel collage.
Nel 1920, Ernst con altri pittori, realizza uno dei più scandalosi happenings mai realizzati dai dadaisti. Ancora con i Dadaisti Ernst organizza una esposizione personale, ma la voluta negazione del piacere estetico dei Dadaisti mal si addice alla sua ricca immaginazione che già nel 1926 lascia il movimento e si appassiona al Surrealismo dando al termine un'interpretazione estremamente personale. Sperimentando continuamente nuove tecniche del disegno e della pittura, dando libero sfogo al suo profondo senso dell'irrazionale e del mistero, Max Ernst prosegue nel cammino dell'arte.
Nel 1929 viene pubblicato il primo dei suoi romanzi-collage "La Femme 100 têtes", seguito nel 1930 da "Reve d'une petite fille qui voulut entrer au Carmel", mentre nel 1934 è la volta di "Une semaine de bonté", ultimo dei suoi originalissimi romanzi-collages.
Il montaggio dei collages era volutamente dissimulato, per regalare all'opera un'apparenza di unità, evidenziata dalla veste tipografica.

Trasferitosi a Parigi Max Ernst è uno dei cofirmatari del “Manifesto del Surrealismo” e partecipa a tutte le esposizioni del movimento.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il pittore viene internato in un campo di detenzione francese per la sua nazionalità.
Nel 1941 riesce a rifugiarsi negli Stati Uniti dove rimarrà fino al 1953. Erede degli antichi incisori germanici, nel dopoguerra Max Ernst continuata la sua produzione con un ritmo molto intenso, sia nei dipinti e nella grafica, che nella scultura. Grazie a lui, il genio fantastico e crudele dei maestri incisori riemerge nella pittura moderna.

La giovinezza renana di Max Ernst, nutrita ampliamente delle fantasmagorie boschive di Altdorfer e dalle letture dei romantici e dei metafisici tedeschi, guidano il pittore nell'invenzione e nell'utilizzo di nuove tecniche, come le colature di colore del "dripping" e l'utilizzo della fotografia come tecnica artistica.
Molti quadri di Max Ernst trasudano furore contro il "kitsch" borghese e l'opprimente ordine teutonico, testimoniano le fonti germaniche della cultura e della ribellione del pittore.

La tecnica più importante inventata da Max Ernst è il frottage che ha come base un comune gioco grafico, che diventa nelle mani dell'artista uno dei più seri esperimenti in arte di tutto il Novecento.
Si tratta di appoggiare il foglio su una superficie ruvida qualunque (legno, foglia, pietra) e strofinare con una matita per far apparire il disegno delle asperità sottostanti: le nervature della foglia, le venature de legno. 
Mentre il gioco procede, quelle figure casuali, proprio come le macchie d'inchiostro usate nei test psicanalitici, la mente dell' artista, vede immagini insolite: animali, oggetti, paesaggi e figure misteriose. Le immagini vengono completate da contorni e qualche dettaglio, in modo che la visione diventi riconoscibile per tutti.
Ernst, inoltre, famoso per i suoi collages lavorò con forbici e colla su un "inferno visivo": immagini di torture e di amori, di passioni e morti, di pene e ghigliottine: tutto il repertorio della narrativa popolare di fine ottocento.

Nel 1953 Max Ernst torna a lavorare a Parigi. Nel 1954 l'artista, ormai conosciutissimo, vince il primo premio alla Biennale di Venezia.
Negli ultimi anni Ernst lavorò quasi unicamente con la scultura, ma uno dei suoi ultimi affascinanti capolavori, del 1964, è un omaggio alle scoperte ed ai misteri intravisti nella stagione del surrealismo: "Maximiliana ou l'exercise illegal de l'astronomie", un libro interamente composto di segni astratti che simulano linee di scrittura e sequenze di immagini.
Max Ernst muore a Parigi il primo aprile del 1976.

«Leggere e Scrivere»

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Molti ricorderanno lo splendido racconto di Edgar Allan Poe La lettera rubata. Il suo nu-cleo narrativo era centrato su un semplicissimo fatto: una preziosa lettera era stata rubata dalla scrivania di un influente personaggio e non c’era verso di ritrovarla. Dopo una serie di ricerche e di perquisizioni, ecco il colpo di scena: la lettera si trovava nella stanza, dalla quale, perciò, non era mai sparita. Eccola lì, esposta alla vista di chiunque, pendente dal caminetto per mezzo di un nastro turchino appeso ad un chiodo.
La lettera rubata è stata sottratta per essere mostrata nella sua più elementare posizione di visibilità: è scomparsa nel momento in cui il ladro-burlone ha deciso di renderla evidente.
Cosa c’entra tutto ciò con il secondo numero di Riga: «Leggere e Scrivere»? C’entra con il fatto che qui si è inteso indagare intorno a due forme intrecciate di una sparizione che met-tiamo continuamente in atto proprio nel momento in cui le esercitiamo: appunto, l’esercizio, la pratica del leggere e dello scrivere. Quando pratichiamo la lettura e la scrittu-ra, lo facciamo, innanzi tutto e per lo più, senza pensare a cosa esse propriamente «fanno» e a come esse appaiono; non ci soffermiamo sull’inchiostro che verga la pagina bianca o sui caratteri che scorriamo diligentemente sul foglio di un libro. Semplicemente essi ci ap-paiono come mezzi di comunicazione, intendendo con ciò che il mezzo e ciò che con esso si comunica sono due dimensioni ben distinte; insomma, la storia è ancora quella bimillena-ria della forma (scrittura/lettura) e del contenuto (il pensiero).
Eppure, come nel racconto di Poe, scrittura e lettura sono lì a dirci che, forse, il rapporto tra mezzo e pensiero è molto meno contorto di quanto si possa supporre. Scrivere e legge-re, infatti, sono pratiche, saperi con proprie leggi e caratteristiche: scrivere, ad esempio, non significa immediatamente scrivere in senso alfabetico, bensì significa segnare il mon-do e aprirlo così al significato; la scrittura che, noi Occidentali, pratichiamo ogni giorno è solo un frutto relativamente tardivo, che ha dietro di sé scritture, grafie assai differenti; stavamo per dire (scrivere!) che la scrittura, così come oggi la pratichiamo noi, è un frutto tardivo della civiltà occidentale, ma non è la civiltà occidentale con il suo pensiero logico e la sua tecnica, a creare la scrittura, ma viceversa la scrittura e la lettura alfabetiche sono un fondamento essenziale della nostra civiltà. La scrittura e la lettura sono la lettera rubata dell’Occidente, che i vari Dupin di questo numero hanno cercato di ritrovare guardandole farsi lettera, grafia e lettura, e mostrandole nella loro elementare inevitabilità.
Mantenendo la struttura del primo numero, anche il presente si apre con alcuni interventi di impianto narrativo: Péter Esterhàzy, in un’intervista immaginaria, tanto vorrebbe de-scrivere la propria reale figura di scrittore, quanto non può che inciampare nell’impossibilità di darne una; Gianni Celati insinua nella scrittura un sospetto di malattia per l’inesaudibilità del desiderio di essere compresi; Marco Belpoliti mette in scena una chiarissima metafora della scrittura che si conclude con la ribellione alla dettatura.
Tre sezioni scandiscono gli studi saggistici dei rapporti tra scrittura e lettura. La prima, più decisamente incentrata sulla lettura, parte da due saggi dedicati alla cultura greca e latina: Jesper Svenbro rilegge il monito platonico contro la ripetitività della lettura come possibi-lità anzi positiva; Maria Tasinato indaga il pericolo di curiositas fuorviante per il lettore, e di compiacimento per lo scrittore, in alcuni capitoli della letteratura edificante cristiana.
Giuseppe Zuccarino è il più esplicito nel concentrarsi su una gamma di impossibilità della lettura, dall’emozione che sopraffà all’ermeneutica infinita.
Seguono due testi dedicati alla lettura delle arti visive. Si può parlare di vera e propria let-tura per la pittura? E la domanda che pone Louis Marin, concludendo il suo percorso se-miotico con un invisibile a fondamento stesso della leggibilità. Elio Grazioli ricostruisce da parte sua la presenza della parola scritta dentro l’immagine, a partire dagli sbocchi recenti dell’arte contemporanea che all’immagine ha sostituito, nella cosiddetta Arte Concettuale, la parola stessa.
La seconda sezione, intermedia in senso forte, affronta scrittura e lettura senza separarle neppure euristicamente, Carlo Sini con una parabola moderna di confronto filosofico tra Occidente e Oriente, Alfred Kallir con un lungo e storico saggio che della scrittura svela le implicazioni simboliche tanto quanto storiche e intrinsecamente esistenziali, Mario Porro affrontando la scrittura delle cose attraverso cui il mondo finisce col «leggere» nient’altro che se stesso.
È l’attaccamento al vitale ricordato alla filosofia nei primi due e l’attenzione della scienza contemporanea per lo scarto dall’equilibrio più che per l’equilibrio stesso, nel terzo, che marcano l’omogeneità di interessi e di impostazione anche in questi testi. Il presente nu-mero di Riga si caratterizza infatti per larghezza e ricchezza di temi e modi, ma crede in un’omogeneità di approcci e di conclusioni: l’impossibile, l’invisibile, il vitale, la differenza, lo scarto... segnano l’attitudine stessa della rivista.
Nella terza sezione allora, più direttamente incentrata sulla scrittura, Claudio Fontana, ri-percorrendo le interpretazioni storiche della concezione platonica della scrittura, ne evi-denzia la forma occidentale, alfabetica; Giampiero Moretti ricorda il carattere metafisico della grafologia di Klages, che non concepisce scrittura senza rapporto con il mondo. L’inaudito indicato da Michel Serres ritrova al fondo stesso della musica la fisica come a-scolto della physis, coincidenza di matematica e mondo delle cose. La scrittura quasi «ora-le» di Giorgio Messori si descrive presa tra il foglio bianco del prima e gli spazi bianchi in cui interviene la creazione, dalla percezione acuita alla maggiore presenza al mondo. Peter Bichsel chiude simmetricamente con un’altra risposta al «Perché Lei scrive?», risposta che viene alla fine «rigirata» in un invito piuttosto a chiedere a chi non scrive più: «Quando e perché hai smesso di scrivere?».
Gli interventi di due artisti visivi costituiscono l’ultima parte del volume: la scrittura-lettura-architettura di luce e ombra di Maurizio Barberis e l’intreccio immagine-parola, pa-radigma, anzi « orizzonte » di ben altri numerosi intrecci, di Carlo Guaita.
Nel primo numero di questa nostra rivista, in chiusura di editoriale, leggevamo questa considerazione: «Riga è il nome di un luogo dell’infanzia, un luogo possibile e impossibile verso cui abbiamo, con fatica, nuotato tutti, per imparare a leggere e a scrivere»; forse, quel luogo dell’infanzia è popolato anche dai segni, dalle lettere e dai disegni della nostra grafia occidentale, verso i quali nuotiamo per poter pensare.

Una donna, una scienziata: Marie Curie

A CURA DI D. PICCHIOTTI

  Madame Curie può essere considerata una leggenda del suo tempo.
  Una delle prime donne a raggiungere notorietà mondiale in campo scientifico, si impose come uno dei più grandi scienziati del 1900. Fu la prima persona a ricevere due Premi Nobel e fu anche la prima donna a varcare come docente le porte dell’Università della Sorbona a Parigi.
  Nata nel 1867 a Varsavia, Marie Sklodowska si trasferì a Parigi dove frequentò la facoltà di fisica e chimica della Sorbona. Qui conobbe Pierre Curie, scienziato già noto ed insegnante alla Sorbona e lo sposò nel 1895. Un anno dopo iniziarono le loro ricerche sulla radioattività, quando Becquerel, fisico francese, scoprì le proprietà radioattive dell’uranio.
  I coniugi Curie osservarono che la radioattività della pechblenda, minerale di uranio, è quattro o cinque volte superiore a quella dell’uranio stesso.
  Unica spiegazione del fenomeno poteva perciò essere la presenza nel minerale di un elemento più radioattivo dell’uranio stesso: occorreva allora isolare questo elemento ancora sconosciuto. A tale scopo sottoposero a svariati trattamenti il minerale riuscendo in quattro anni di lavoro molto intenso, nel 1898, a isolare due elementi radioattivi, il radio e il polonio.
  Per queste importantissime ricerche, nel 1903 ai coniugi Curie e al Becquerel venne assegnato il premio Nobel per la fisica.
  I Curie non brevettarono il processo di isolamento del radio affinché la comunità scientifica potesse effettuare ricerche in questo campo senza ostacoli.
  Alla morte del marito, Marie Curie prese il suo posto di insegnante alla Sorbona, continuando l’attività di ricerca scientifica. 
  Anche le nuove ricerche proseguite da sola, dopo la morte del marito, vennero coronate dal successo e nel 1910 riuscì ad isolare “il radio metallico”.
  Per questi nuovi meriti, l’anno dopo, le venne conferito il secondo Premio Nobel, questa volta per la chimica.
  Durante la prima guerra mondiale, Marie Curie curò l’utilizzo delle unità mobili di radiografia come mezzo di diagnosi per i soldati feriti. Si prodigò per lenire le sofferenze causate dalla guerra.
  La morte di Marie Curie, nel 1935, molto probabilmente fu dovuta all’esposizione massiccia alle radiazioni durante i suoi lunghi anni di lavoro.

INTERVISTA A SUSAN VREELAND Parla l'autrice di La passione di Artemisia

A CURA DI D. PICCHIOTTI

SUSAN VREELAND È A ROMA - SULLE TRACCE DI ARTEMISIA, LA PROTAGONISTA DEL SUO LIBRO CHE È APPENA STATO PUBBLICATO IN ITALIANO.
   Parliamo con lei al telefono, della sua carriera come scrittrice, di questo romanzo e di quello che verrà pubblicato a primavera.
   Può dirci qualcosa sulla sua vita e sulla sua carriera come scrittrice - quando ha iniziato a scrivere?
   Sono venuta per la prima volta in Europa nel 1971, in un viaggio di studio organizzato dalla mia università e guidato dai nostri insegnanti di materie umanistiche. Il testo che usavamo era "Civiltà" di Kenneth Clark e nel primo capitolo veniva citata una frase di John Ruskin: "Le grandi nazioni scrivono le loro autobiografie in tre manoscritti - il libro delle loro imprese, il libro delle loro parole e il libro della loro arte."
   Questa affermazione di Ruskin mi colpì come molto profonda, ma ha poi avuto per me un significato di una portata di gran lunga maggiore di quello che avrei potuto immaginare, quando promisi a me stessa che l'arte di questo nuovo mondo nel Vecchio Mondo sarebbe stata la compagna della mia vita. Mai come allora, durante quel viaggio, la storia era stata vibrante di vita, con una voce sua propria.
   Pittura, scultura, architettura, musica, storia religiosa e storia sociale - ero rapita da tutte queste cose, volevo leggere di più, imparare le lingue, riempirmi i polmoni di una cultura ricca, gloriosa e antica, elaborata dall' energia umana. Questa esperienza è dietro ai miei scritti degli anni '80, articoli su viaggi, arte e cultura per riviste e giornali.
   Un incontro e la successiva amicizia con due persone coraggiose, una coppia la cui cecità non impediva loro di condurre una vita indipendente e piena, mi insegnò dei modi alternativi di vedere. Solo quando sentiii fortissima la necessità di raccontare la loro storia, mi avventurai nella narrativa. Così scrissi il romanzo "What Love Sees" nel 1988. Il romanzo seguente, "Girl in Hyacinth Blue", nel 1999, su un quadro di Vermeer, fu scritto mentre mi sottoponevo alla terapia per la cura di un linfoma e fu, in gran parte, un' opera di gratitudine verso gli artisti che avevano sollevato il mio spirito in quel periodo difficile. Lo sforzo creativo e il piacere della bellezza possono aiutare a guarire perché ci tirano fuori dal pensiero rivolto soltanto a noi stessi.

Che cosa l' ha portata a scegliere Artemisia come soggetto del suo libro?
Sono stata attratta da Artemisia Gentileschi perché è una figura grandiosa, come artista, come donna e come essere umano. E' stata la prima donna a guadagnarsi da vivere con il pennello, la prima donna che ha dipinto quadri politici e religiosi di grandi dimensioni, soggetti una volta riservati agli uomini. Una pittrice di straordinaria creatività, la prima donna ad essere ammessa all'Accademia dell' Arte di Firenze.
   Ad ogni punto decisivo della sua vita, ha scelto il corso d'azione che richiedeva maggior coraggio. Nonostante lo stupro, nonostante l'esposizione pubblica nel processo del suo violentatore da parte di una corte papale che sottopose lei alla tortura, nonostante le macchie sulla sua reputazione, è diventata uno dei pittori più famosi del Barocco Italiano. Ha usato la sua notorietà a suo vantaggio. Ha sviluppato un ideale di donna eroica e coraggiosa. Ho ammirato il modo in cui ha ricostruito se stessa lavorando sull' offesa che le era stata fatta e sciogliendo nella pittura il suo risentimento.

Artemisia dice al padre che loro due si assomigliano: entrambi hanno rinunciato ad una figlia per la carriera. Pensa che sia inevitabile scegliere tra essere madre e avere una carriera?
La scelta tra maternità tradizionale e carriera è ancora molto difficile. Oggi è difficile, ma possibile, scegliere entrambe. La facilità o difficoltà nel riuscire a combinare le due cose dipende da due fattori: la situazione finanziaria in famiglia, per poter prendere un aiuto se è necessario; e la disponibilità del marito ad assumersi alcune delle responsabilità che una volta erano solo della donna.
   Purtroppo, spesso non ci sono questi presupposti ed è impossibile per le donne svolgere del lavoro creativo. Se questo è vero oggigiorno, i risultati di Artemisia nel diciassettesimo secolo sono ancora più stupefacenti.

Qual è il ruolo dell'arte nella vita?
   La ricchezza dell' arte nella vita umana riflette i suoi molteplici intenti: dare piacere, certo, ma anche innalzare lo spirito, servire come modello di comportamento, celebrare persone degne della nostra ammirazione, incitarci all' azione, farci prestare attenzione alle bellezze della terra, trasportarci in altri tempi e farci conoscere le loro problematiche, stimolare la nostra immaginazione, passione, spiritualità e compassione.

Artemisia vive a Roma, Firenze, Genova, Venezia e Napoli e lei riesce splendidamente nel renderci le strade, gli odori, i colori e i rumori di queste città: ma lei ci ha vissuto?
La descrizione delle città italiane deriva soprattutto dalla ricerca fatta negli Stati Uniti che ha stimolato la mia immaginazione. Ho consultato 70 libri, non solo di storia dell'arte, ma storie della cultura e della società, libri di resoconti di viaggi di scrittori inglesi del '700 e '800, libri di viaggio contemporanei, romanzi ambientati in Italia, libri di architettura, di costume, di musica e danza, libri di fotografie e, naturalmente, di quadri di tutti questi luoghi.
   Purtroppo non ho mai avuto l'opportunità di vivere in Italia, vi sono stata soltanto per un paio di settimane trent' anni fa. Dopo che il mio romanzo è stato accettato dal mio editore sono stata in Italia una settimana per tenere un corso di scrittura e un'altra settimana per visitare Firenze e Roma, camminando sulle orme di Artemisia, guardando i palazzi, i quadri e le sculture che lei aveva visto, immaginando i rumori e gli odori che lei aveva sentito.

Galileo è la voce ribelle per la scienza, proprio come Artemisia lo è per la pittura. E' questo il motivo per cui gli ha dato un ruolo così importante - oppure è semplicemente storicamente vero che era amico di Artemisia?
Sia Galileo sia Artemisia si tovavano alla corte di Cosimo Secondo dei Medici a Firenze nello stesso periodo. La prova che si conoscessero è in una lettera in cui Artemisia chiede l'aiuto di Galileo per farsi pagare da Cosimo quello che le è dovuto. Ho scelto di attribuire a Galileo un ruolo più importante nella vita di Artemisia per la posizione parallela che i due avevano nell' ambito dei rispettivi campi.
   Certamente devono aver compreso i rischi che l' altro stava correndo, e rispettato il coraggio e l'impegno che ognuno di loro mostrava.

Speriamo di leggere presto anche il suo primo libro - un altro libro su un pittore?
"Girl in Hyacinth Blue" (che sarà pubblicato da Neri Pozza nella primavera del 2003) segue , invertendo la cronologia, un dipinto fittizio del pittore olandese Vermeer. Il quadro opera in maniera diversa per ogni personaggio che si trova ad avere a che fare con esso; ognuno vede nel quadro qualcosa di rilievo per la propria esperienza personale.
   Così può parlare dell' innocenza perduta, spingere ad un' azione generosa e coraggiosa di amore, suscitare il ricordo del passato, anche di un amore passato, suggerire un' offerta di rappacificazione coniugale, esprimere un conflitto di valori tra marito e moglie. E, sopra tutto, parlare di desiderio, in tutte le sue varianti. E' solo un quadro, ma invia molti messaggi a chi è capace di riceverli, mentre ognuno vive dei momenti decisivi sotto la sua influenza. La ricchezza dell' arte è in questa diversità di effetti.

Susan Vreeland, La passione di Artemisia,Ed. Neri Pozza, pp.317, Euro 15.50

martedì 28 ottobre 2008

Storia delle donne fra Umanesimo e Rinascimento""Donne e conoscenza storica"

  A CURA DI D. PICCHIOTTI
 
L'istruzione delle donne
Esisteva una cultura femminile per le donne dei ceti medi e superiori. A questa educazione che indirizzava ai matrimoni patriarcali e all'economia domestica, rispose l'umanista spagnolo Juan Luis Vives nel De Istitutiones foeminae christianae del 1523. Un'opera popolare e come il Cortegiano a tiratura internazionale con 40 edizioni e molte traduzioni.
In questo compendio Vives elencava i compiti e il libri che aprivano alle donne le porte dell'istruzione seria. (pag.191-192)
Il motivo caratteristico per questi educatori delle donne è l'utilità, tale e quale lo ritrovano Adam Smith e Rousseau. Le donne non devono sapere niente di più di quello che occorre. Inoltre le finalità sono la castità, il silenzio e l'obbedienza. Inoltre occorreva l'apprendimento delle pratiche tessili e quelle relative alla gestione domestica.
Nel XVII secolo si vedono anche le educatrici. Per esempio l'istituzione di Saint Cyr, collegio per nobili fanciulle decadute dalle guerre della Fronda, era stata di Madame de Maintenon, favorita e poi ultima moglie del Re Sole. In Francia fra gli scopi dell'educazione si profila già dal '500 l'abilità salottiera.
A Firenze le scuole municipali istruivano attivamente i loro giovani e anche qualche bambina (pag.196).
Nel 1304 a Firenze esisteva una maestra di scuola: insegnava latino, il libro dei Salmi, e il Donatus, il libro di Grammatica.
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In alcune città tedesche c'erano le Lehrfrauen (donne insegnanti) che insegnavano nelle "piccole scuole" per le bambine. A Francoforte nel 1600 ne esistevano venti. Le donne insegnavano in quasi metà di esse.
Nel 1456 una Lehrfrau suscitò la rimostranza di un collega che l'accusava di portargli via gli scolari e che quindi avrebbe dovuto pagargli 3 scellini per ogni maschio a cui insegnava. La sua richiesta fu accolta.
Lutero e altri riformatori auspicavano l'istituzione di scuole per ragazze dove si leggessero le Scritture in tedesco e in latino
Invece Isotta Nogarola ricevette da Lauro Quirini un programma di studi che non escludeva la retorica e la filosofia, prima considerate inutili per le donne.
Una carriera simile ma già differente la seguì Cassandra Fedele. Interruppe gli studi intrapresi in giovane età, si sposò e li riprese in età avanzata.
La sua precoce carriera doveva molto al desiderio del padre di avere una figlia eccezionale.
Cassandra compare in apparizioni pubbliche in veste di recitatrice di orazioni presso l'Università di Padova. Quando Isabella d'Aragona invitò Cassandra a unirsi alla sua corte Venezia protestò perché non voleva perdere il suo 'bene'. La fama internazionale ed eccezionale di Cassandra creò un modello seguito dalla poetessa francese Catherine de Rochas e dalla tedesca Caritas Pirckheimer.
Questo successo appare sconcertante perché le opere di Cassandra <> (pag. 232)
Più aggressiva e originale è Laura Cereta bresciana; a fine del XV secolo guardava alle altre donne come a esempi di debolezza piegata al piacere.
<> (pag.235)
Olimpia Morata scrisse centinaia di lettere in latino e italiano dopo che divenuta moglie di un medico luterano è costretta a lasciare Ferrara. Scrisse poche opere ma ritenute interessanti, nelle edizioni successive alla prima dedicate alla regina Elisabetta.
<> (pag. 237) Altro esempio di erudizione femminile anche la Pirckeimer si guadagnò l'ammirazione di molti, donna reclusa, santa, prerequisito per essere dotta. Celtis che scoprì nel 1494 le opere di Hrotswitha dedicò a lei la prima edizione del 1501; la considerava una reincarnazione della monaca del IX secolo.
Margherità d'Angouleme autrice dell'Heptameron compose anche un libro di lettere in difesa del genere femminile dove affermava la superiorità della natura delle donne. E' la sua prima opera a essere tradotta in inglese dalla giovane Elisabetta Tudor.
In Inghilterra Tommaso Moro aveva educato personalmente le sue tre figlie, insieme ai fratelli, a un livello molto alto di conoscenza delle materie classiche.
Delle tre ragazze Margaret era il capolavoro. A sua volta dopo avere sposato William Roper, Margaret educò le proprie figlie e quella della sua balia all'educazione classica.
In Inghilterra le umaniste dell'epoca Tudor possono essere state una sessantina. La maggior parte dei loro lavori erano di natura devozionale. Fa eccezione Jane Fitzalan che tradusse dal greco Ifigenia in Aulide di Euripide e i cui libri sono una delle più preziose raccolte di manoscritti della British Library. Anche la prima moglie di Enrico VIII fu una studiosa di grande spessore.E così Ctherine Parr la sesta moglie fu una delle otto scrittrici le cui opere sono state pubblicate fra il 1486 e il 1548. Jane Grey che era stata regina per pochi giorni e quindi mandata al patibolo da Maria Tudor latinista, aveva seguito un serio corso di studi umanistici che comprendeva la conoscenza dell'ebraico, il latino e le lingue moderne. Le sue opere ancora esistenti sono poesie e lettere scritte negli ultimi sei mesi della sua vita. Era Jane Grey a dire che preferiva la compagnia di Platone in lingua originale alla caccia, come racconta un episodio, e affermava che lo studio era l'unica attività in cui era libera dal controllo della severa coppia genitoriale.
La tradizione femminile umanista nel 17 secolo era ormai superata. Le donne dal severo curriculum di scienze, filosofia e teologia erano: Anna von Schurmann in Olanda, Suor Juana Ines de La Cruz in Messico e una delle ultime rapprsentanti italiane è Elena Lucrezia Cornaro Piscopia nel 1678 è la prima donna a ricevere il titolo di "dottore in filosofia" dopo essersi consacrata a Dio.
Elena Cornaro Piscopia

Oratrice come un'altra prima di lei Costanza Varano anche lei, a un certo punto, si era ritirata sentendosi non all'altezza, e così non aveva ottenuto il dottorato in teologia.
In questa nascita dell'intellettuale femmina non mancano le storiche: Christine de Pizan scrisse la biografia di Carlo V, la storia della Quarta Crociata Lucrezia Marinelli e Charlotte Guillard curò la pubblicazione di molti testi di teologia, filosofia e storia.
Grande fama ebbero le poetesse del sedicesimo secolo, quelle già citate in Francia come Luise Labè e in Italia Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Isabella di Morra, Veronica Franco e Gaspara Stampa. In Inghilterra le due Mary Sidney, Lady Wroth e la contessa di Pembroke , in Messico Juana de La Cruz.

lunedì 27 ottobre 2008

Ogni giorno muoiono ben 26 mila bambini, uno ogni 3 secondi

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Non dobbiamo lasciarci confondere dalle tante, troppe cose che non vanno intorno a noi per dimenticare una grande cosa che non va: i 4 cavalieri dell’Apocalisse continuano a mietere gran messe di vittime in giro per il mondo, FAME, PESTILENZA, GUERRA, MORTE.
Nell’ultimo rapporto annuale dell’UNICEF sulla condizione dell’infanzia nel mondo si rileva che ogni giorno ben 26 mila bambini nel mondo con meno di cinque anni muoiono per cause del tutto evitabili come malattie infettive e fame. Per la prima volta nel 2006, le morti dei bambini sono scese sotto i 10 milioni (erano 20 milioni nel 1960), ma rimangono pur sempre cifre da Olocausto: 9,7 milioni di morti, 1 bambino muore ogni 3 secondi, 20 bambini morti nel minuto di vita impiegato a leggere questo post!
Quasi la metà dei decessi sotto i cinque anni di vita avvengono nell’Africa sub-sahariana. Le cause? Guerre, disastri naturali, Aids, miseria e scarse strutture medico sanitarie.  Un bambino su quattro nel mondo è sottopeso. La malnutrizione è uno dei fattori all’origine del 50% dei decessi dei bambini con meno di cinque anni. Si tratta di circa cinque milioni di bambini, mentre nel mondo occidentale abbiamo il problema dell’obesità infantile.
I costi di questi programmi sono accessibili: vanno dai 12 dollari ai 132 dollari l’anno per una vita salvata, ma a dire il vero l’UNICEF non è la migliore scelta per aiutare i bambini, il 40% dei fondi raccolti sono impiegati a sostenere l’organizzazione burocratica amministrativa.
Io, nel mio piccolo, ho adottato una bambina a distanza, Eliana, 5 anni. Soli 25 euro al mese (peraltro deducibili dalle tasse), 5 dei quali sono impiegati per la gestione dell’organizzazione umanitaria e 20 direttamente alla bambina che con meno di un euro al giorno è nutrita, curata, accudita e istruita.

sabato 25 ottobre 2008

L’origine della scrittura

A CURA DI D. PICCHIOTTI

La memoria umana, nobile fondamento della tradizione orale, non possiede una precisione assoluta, ragion per cui l’uomo, nei millennî, si è dato molto da fare per inventare un sistema di segni capaci di restituire in forma grafica i suoni articolati in parole.
La prima forma di scrittura inventata dall’uomo fu probabilmente pittografica, partendo dalla rappresentazione figurata di simboli e di oggetti (più che di idee e di concetti astratti). Vale a dire che — per fare un esempio concreto — il disegno di un cerchio con dei raggi rappresentava il sole (su queste basi si strutturarono i geroglifici egiziani).
Poi, lentamente, si passò a una scrittura di tipo ideogrammatica (come lo è ancora oggi il cinese, e come fu la scrittura saraswatî nell’India preistorica per il primissimo sanscrito), ove i varî simboli non rappresentavano più solamente l’oggetto rappresentato, ma anche una serie di proprietà ad esso collegato; riprendendo l’esempio di cui sopra, il simbolo del sole, riprodotto in modo assai più stilizzato (un cerchio con un puntino nel centro, poniamo), prese a rappresentare, oltre al sole, anche l’idea del calore, della luce, del giorno, in un affinamento crescente di associazioni prima vitali e in seguito mentali e intellettuali.
Nel corso dei secoli tale scrittura venne ulteriormente stilizzata, fino ad apparire come una fitta trama geometrica di trattini e triangoli — perciò detta ‘scrittura cuneiforme’, utilizzata per scrivere numerose lingue, quali il sumerico, l’eblaitico, la lingua degli elamiti, degli ittiti, degli hurriti, l’accadico, l’ugaritico, l’antico persiano —, in righe verticali od orizzontali.
Successivamente, da ideogrammatica diventò sillabica (tra queste figura il devanâgarî, ovvero la più nota forma di scrittura del sanscrito, vedico o classico): ogni simbolo grafico passò a rappresentare, invece che una persona o un oggetto, una sillaba.
Infine, venne semplificata in un alfabeto di segni, arrivando così alla scrittura detta per l’appunto alfabetica, utilizzata per la maggior parte delle lingue attualmente parlate sulla terra.
Per nostra fortuna, ai primordi della scrittura si utilizzavano tavolette d’argilla che, a differenza di materiali quali il papiro (utilizzato dagli egiziani), la pergamena (romani), le foglie di palma (indiani), il rotolo di seta (cinesi), di cuoio (ebrei) o di lino (etruschi), non subiscono le ingiurie del tempo in modo così impietoso. Certo, la tavoletta d’argilla può scheggiarsi o spaccarsi, ma non si brucia. Un incendio — fatale per una biblioteca di carta —, di fatto cuoce le tavolette d’argilla e le rende ancora più resistenti. Interrate e sepolte, possono sopravvivere per moltissimo tempo invece di corrompersi e marcire. Questo spiega perché gli scavi in zone quali la valle dell’Indo-Saraswatî, o l’area mesopotamica, abbiano riportato alla luce migliaia e migliaia di tavolette, permettendo di effettuare affascinanti ricerche in ambito linguistico.
Tra questi studi, merita un posto d’onore il lavoro pionieristico del dottor N. Jha (nato in India nel 1939), il quale è giunto a decifrare più di 3.500 tavolette contenenti i primi shabdakosha vedici, attirando così l’attenzione del World Archaeological Congress Forum, in particolare con i suoi lavori di deciframento delle iscrizioni rinvenute negli scavi effettuati nell’area in cui sorse la civiltà dell’Indo-Saraswatî. Prima di lui, infatti, non era ancora chiaro il collegamento tra la letteratura vedica e tali tavolette (e, di conseguenza, non si era ancora certi di poter identificare come vedica la ricca e progredita civiltà Saraswatî, risalente a più di novemila anni fa!).
È sconcertante notare come la popolazione dell’Indo-Saraswatî, nonostante la remota antichità, non sia poi così lontana da noi nella sua forma di pensiero. Lo studio del dottor Jha ci permette per l’appunto di ammirare il vigore e l’elevatezza intellettuale di un popolo i cui effetti si fecero sentire, nel tempo, perfino in ambiti culturali geograficamente molto distanti, in particolare nell’area semitica, in quella celtica e in quella greca (ma recenti studi riscontrano sorprendenti corrispondenze perfino con i cosiddetti ‘nativi d’America’). E non soltanto nel dominio proprio della poesia e della filosofia, ma anche delle scienze esatte quali la matematica, la geometria, la trigonometria.
Dal linguaggio saraswatî rinvenuto nelle tavolette, si sviluppò in seguito il devanâgarî (che, dicevamo, è la scrittura sillabica mediante la quale viene scritto ancora oggi il sanscrito) e, posteriormente, verso il XV secolo a.C., il linguaggio detto brâhmî (ripreso poi all’epoca del grande imperatore indiano Ashoka, sovrano della gloriosa dinastia Maurya) e, contemporaneamente, il primo linguaggio semitico, come dimostrano alcune tavolette rinvenute a Takshila (nell’attuale Pakistan, ove sorse la prima università del mondo). Come il linguaggio saraswatî sia giunto in Medio Oriente, non è ancora stato svelato con certezza; pare comunque che verso la fine del XV secolo a.C. alcuni emissarî del re Ashoka, da questi inviati per propagare il buddhismo, si recarono nello Sri Lanka e, successivamente, nell’Asia occidentale, ove i popoli semitici ebbero modo di conoscere il linguaggio saraswatî accettandone 22 segni, la cui evoluzione avrebbe portato alla formazione dell’aleph-beit (alfabeto) ebraico. Al tempo stesso, un flusso migratorio dall’India in Europa fece conoscere ai greci il saraswatî, il quale formò la base del greco antico e dei primi caratteri alfabetici del latino.
Molti studiosi hanno ormai esaminato con attenzione le corrispondenze che legano il sanscrito al greco e al latino, al punto che è ormai accettata da tutti la loro appartenenza a un comune ceppo denominato ‘indoeuropeo’. Limitiamoci qui a fornire qualche esempio — indichiamo, nell’ordine, il termine sanscrito, greco, latino, e infine la traduzione italiana: matar, meter, mater, madre; paradesha, paradeisos, paradisus, paradiso; âtman, anemos, animus, anima. Assieme a sanscrito, greco e latino, ovviamente, tutte le lingue da esse derivate sono legate dalla stessa parentela; cioè a dire, tutte le lingue europee e tutti i varî ‘prâcrita’ indiani (compreso il tamîl, parlato nel Tamil Nadu, e il kafiri, parlato nel nord dell’Afganistan).
Più recenti sono invece gli studi che cercano di ravvisare simili corrispondenze tra il sanscrito e talune lingue appartenenti a civiltà non indoeuropee, per esempio quelle precolombiane. Un caso piuttosto sorprendente e affascinante è rappresentato dalla lingua quichua, parlata dall’antico popolo degli Inca. Al sanscrito sura (illuminare) possiamo infatti affiancare agevolmente il quichua chirau (risplendente). Così come al sanscrito mita (passo), poniamo il quichua mita (tempo). E così via: mut (controllare) e muti (controllo); nanda (sorella) e nana (sorella); pike (frantumare) e pakkni (frantumare); paksa (luna piena) e paksa (luna).
Molti sono i misteri che la linguistica e l’archeologia ci dovranno svelare nei prossimi decennî, dall’origine della scrittura fino all’origine della civiltà umana stessa. Scoperte che potrebbero rivoluzionare radicalmente le nostre attuali conoscenze sull’antichità della specie umana e sulla complessa rete di interscambi avvenuta in epoche preistoriche tra i primi abitanti umani di questo pianeta.
Su questa linea, alcuni ricercatori hanno da poco intrapreso affascinanti esplorazioni sottomarine lungo le coste dell’Oceano Indiano, iniziando a scoprire i resti di una remotissima civiltà sommersa dalle acque, che conferirebbe — secondo alcuni studiosi — un fondamento storico al mito di Lemuria (conosciuto in India con il nome di Kumarikhandam, o la terra di Sund, di cui si ìarla abbondantemente nella letteratura tamîl, la cui tradizione ci dice che venne sommersa dalle acque qualcosa come trentamila anni fa!).
Ma questo ci porta ben oltre l’argomento del presente articolo. A meno che non si voglia congetturare sulla lingua e la scrittura dei lemuri!… compito che lasciamo volentieri ad altri.
( l sito arianuova.org)
Novembre 2003

INCISIONI RUPESTRI

A CURA DI D. PICCHIOTTI
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Incisioni rupestri Locuzione che indica le incisioni eseguite in tempi preistorici sulle pareti e le volte di grotte e caverne. Ritenute le più antiche manifestazioni d'arte dell'umanità, comparvero nel Paleolitico, cioè durante una fase in cui l'uomo viveva esclusivamente di caccia e usava come materie prime la pietra e l'osso per fabbricare armi e strumenti. Il problema della cronologia delle incisioni rupestri è molto complesso, in quanto spesso grotte e ripari furono frequentati per un lungo periodo di tempo, mentre quasi sempre risulta assente materiale archeologico utile per una datazione della frequentazione stessa.

In Europa le incisioni si trovano soprattutto in Francia e in Spagna (area franco-cantabrica), accanto alle altre tecniche impiegate nelle prime manifestazioni artistiche (scultura a tutto tondo e a rilievo, pittura). Sulle pareti delle grotte sono rappresentati soprattutto animali, come bisonti, mammut, cervi, cavalli, renne e orsi, con caratteri aderenti alla realtà, mentre scarseggiano le raffigurazioni umane. Le grotte erano sacrari in cui si svolgevano pratiche magiche per favorire la caccia, attività principale degli uomini dell'età della Pietra; lo scopo di queste raffigurazioni era, quindi, propiziatorio per la caccia stessa.

Tra i principali rinvenimenti vi sono, in Francia, le grotte di Les Combarelles e di La Mairie (Teyjat) in Dordogna e di Isturitz nei Pyrenées-Atlantiques Atlantici; in Italia, i graffiti della grotta Romanelli (Terra d'Otranto) in Puglia, della grotta dei Genovesi nell'isola di Levanzo (Egadi) e delle grotte del Monte Pellegrino (Palermo) in Sicilia, in particolare quella dell'Addaura, nella quale, in via eccezionale, prevalgono le figure umane.

In età più recente, importanti incisioni rupestri compaiono in Africa settentrionale (Sahara algerino e Fezzan, in Libia). Esse, attraverso il cambiamento delle raffigurazioni dalle immagini di grandi animali selvaggi a quelle di mandrie di bovini, documentano il passaggio dalla vita di caccia a un'economia pastorale.

Nell'età del Bronzo (II millennio a.C.) si sviluppò l'arte rupestre delle Alpi, in particolare sul Monte Bego (Alpi Marittime, Francia) e in Valcamonica (Lombardia). Sulle rocce sono state scoperte decine di migliaia di incisioni: mentre nelle Alpi Marittime è raffigurato principalmente il bove e compaiono inoltre armi e figure umane, in Valcamonica si sono trovate composizioni più complesse, riferibili alla caccia, a combattimenti, ad attività come l'agricoltura, l'allevamento e la tessitura, a scene funerarie.

venerdì 24 ottobre 2008

L’omosessualità nel Medioevo italiano

A CURA DI D. PICCHIOTTI
La tradizionale tolleranza, ed in alcuni casi compiacenza, del mondo antico verso le pratiche omosessuali non sopravvisse alla caduta dell’Impero di Roma.
Già nel 533 dc l’imperatore bizantino Giustiniano, in una legge del suo Codex, equiparava tutte le relazioni tra uomini all’adulterio, punibile con la pena capitale.
Non andava meglio agli omosessuali spagnoli. Nelle Leges Visigothorum del VII secolo una legge condannava chi commetteva atti omosessuali alla castrazione. Anche l’episcopato spagnolo, che in un primo tempo non aveva voluto recepire questa normativa, sotto diretto ordine della monarchia visigota emise un decreto conciliare che puniva sia gli ecclesiastici che i laici colpevoli di atti sodomitici: i primi con la scomunica e l’esilio, i secondi con cento frustate e l’esilio. Sempre meglio, comunque, della castrazione.
Dopo un periodo di silenzio si ritrovano norme contro i sodomiti nelle leggi approvate da Carlo Magno. Con un editto esortava gli ecclesiastici «a cercare con ogni mezzo di impedire e sradicare questo male»; l’editto, tuttavia, aveva un carattere esortativo, non punitivo, era una specie di ammonizione ecclesiastica.
Questo atteggiamento altomedievale abbastanza tollerante, a parte alcuni casi particolari (i visigoti in Spagna), mutuò col trascorrere del tempo, fino ad arrivare ad una aperta ostilità e alla creazione di una normativa repressiva ad hoc.
Il cambio di questa mentalità ci è ben testimoniato dall’opera del monaco Pier Damiani, ardente promotore dell’attività riformatrice dei pontefici nell’XI secolo. Nel Liber Gomorrhianus, composto nel 1049 dc, affronta in modo sistematico il problema dell’omosessualità in ambito ecclesiastico, col proposito di risanarne i costumi. Il monaco attacca il vizio contro natura dilagante «in nostris partibus», analizzandone le tipologie comportamentali e le situazioni in cui vengono compiute. L’unica soluzione per risolvere l’annoso problema era l’immediata degradazione del reo, a qualunque grado gerarchico appartenesse, poiché riteneva «completamente assurdo che quelli che si macchiano con questa malattia purulenta osino entrare nell’ordine o rimangano nel loro grado (…) perché è contrario alla ragione e alle sanzioni canoniche dei Padri».
Col progressivo cambio della mentalità cambiarono anche le attitudini dei legislatori nei confronti del «nefandum vitium sodomiae», soprattutto nel periodo delle autonomie comunali (in Italia, ma non solo)
I primi ad occuparsi di questo problema furono gli estensori degli Statuti di Bologna del 1257. Una rubrica statutaria, riguardante la «Societas sancte Marie», esortava gli aderenti a tale società a denunciare, oltre agli eretici, anche i sodomiti, puniti con l’esilio; bando che non poteva essere revocato da successivi decreti. In un’altra rubrica, inoltre, si ordinava di bruciare chiunque ospitasse «in domo sua (…) aliquos sodomittos». In questa normativa già si prevedeva la pena di morte per combustione, anche se non era rivolta verso chi compiva atti “nefandi” (come accadrà nel secolo seguente), ma verso chi li ospitava nella propria dimora (e, verosimilmente, verso i ruffiani che approfittavano della situazione per guadagnarci su).
La Constitutio senese (1262-1270 dc) condannava chiunque «detestabile crimen sogdomiticum fecerit» ad una pena pecuniaria di 300 lire; in caso di inadempienza il reo sarebbe stato impiccato per i genitali. La stessa punizione era prevista «contra lenones», contro i ruffiani e quanti avessero facilitato questo crimine.
La prima testimonianza che parla esplicitamente di un rogo per «vicium sogdomiticum» si trova in una raccolta annalistica svizzera, gli Annales basileense. Nel 1277 a Basilea l’imperatore Rodolfo fece bruciare sul rogo tal «dominum Haspiperch», accusato di sodomia.
Che, nel XIII secolo, il rogo fosse una punizione più diffusa oltralpe ci è testimoniato da una consuetudine giuridica di Clermont, nella regione francese di Beauvais. In questa «consuetudo» si equiparava la sodomia all’eresia, e chiunque si fosse reso colpevoli di questi peccati «doit estre ars», doveva essere bruciato vivo.
In Italia la prima attestazione dell’uso del fuoco per punire i peccatori “contro natura” risale al 1293. In quell’anno, a Perugina, Carlo II d’Angiò, in viaggio col figlio Carlo Martello verso la corte papale di Roma, fece arrestare il conte di Acerra, verso cui provava aperta ostilità. Accusatolo di essere un sodomita (un’accusa, verosimilmente, infondata), lo fece impalare e «come un pollo il fece arrostire». In questo caso il rogo è abbinato al supplizio del palo, non è ancora considerato il metodo migliore per punire chi si macchiava del crimine “contro natura”.
Proprio negli ultimi decenni del XIII secolo vi fu, in particolare nelle «scholae» bolognesi, una riscoperta del Diritto Romano, col recupero della pena tardoromana del rogo, caduta in disuso dopo il crollo dell’Impero.
Dal XIV secolo, infatti, tutte le rubriche statutarie sull’argomento comminavano ai rei al pena di morte sul rogo. Già nel 1312 gli Statuti di Collalto (TV) condannavano chi «commiserit nefandum vitium sodomie cum masculo» ad essere bruciato, mentre il passivo era punito ad arbitrio del Conte.
Un caso a sé la normativa statutaria di Firenze. La rubrica «De pungendo sodomitis», elaborata dal notaio ser Giovanni di Lapo Bonamici nel 1325, utilizzava l’idea del “contrappasso”, ossia la castrazione per i rei. Nel caso il crimine fosse stato commesso con un minore di quattordici anni era prevista un’ulteriore pena di natura pecuniaria, a discrezione del giudice. Nel caso il crimine diventasse abituale, il colpevole era condannato ad una pena pecuniaria di 500 fiorini e al taglio della mano destra. Solo nel caso dei “trapassi”, i forestieri che si fermavano a Firenze e vi commettevano atti sodomitici, era prevista la massima pena, essere bruciati vivi. Per favorire la delazione era promessa, come ricompensa, la metà dell’ammenda inflitta al colpevole. Era, inoltre, attuata una forte censura, con la pena di 10 fiorini per chiunque alludesse “all’amor greco” in canzoni, poesie e sonetti popolari.
Solo con i nuovi statuti del 1365 il Podestà emise nuove disposizioni, con la pena di morte sul rogo per i colpevoli di sodomia, sia attivi che passivi, colpevoli di aver commesso violenza contro Dio e contro la Natura. Una ulteriore novità apportata alla legislatura precedente fu l’introduzione, per la prima volta in Toscana, della prativa della tortura per garantirsi una confessione.
La normativa statutaria della città di Padova, del 1329, puniva chiunque avesse l’ardire di “contaminare” contro natura «mulierem vel masculum», ossia uomini e donne, tramite la morte sul rogo. In questo caso la norma era rivolta non solo contro l’omosessualità, ma conto tutti gli atti sessuali contrari alla morale cristiana. Inoltre chi era stato “contaminato” doveva essere giudicato dal Podestà e dalla sua «Curiae», tenendo ben presente le possibili attenuanti, considerando cioè la «qualitate delicti & Persona & aetate sua».
Anche gli Statuti di Carpi (1353), della comunità del Lago di Garda (1351-1386) e di Gemona (1387) prescrivevano al pena di morte tramite il rogo per chiunque avesse commesso «scelus contra naturam». Le ultime due raccolte statutarie, inoltre, prevedevano che la «famiglia domini Potestatis», ossia i funzionari podestarili, se ne andassero dal luogo dell’esecuzione solo dopo essersi assicurati che il reo fosse spirato sul rogo.
Più articolata la «rubrica de Sodomitis» dello Statuto di Tortona, composto nel 1351. La pena per chi «cum maculo aliquo nefandem libidinem execuerit» era la stessa, però i sodomiti con età inferiore ai 18 anni erano puniti ad arbitrio del Rettore con sanzioni pecuniarie e corporali. Chi aveva subito la “violenza”, sia maggiorenne che minorenne, non doveva subire alcuna pena..Nel caso fosse stato consenziente si doveva applicare la sopraccitata norma, ossia rogo per i maggiorenni e punizioni corporali e sanzioni pecuniarie per i minorenni.
Il cambio di mentalità dei legislatori comunali si avverte chiaramente confrontando lo statuto di Bologna del 1389 con quello del secolo precedente. La pena per chi favoriva questo «scelus» era la stessa, ma chi infrangeva la legge era adesso condannato al rogo e non più all’esilio perpetuo.
Anche nella vicina Rimini nel 1397, sotto la signoria di Carlo I Malatesta, i legislatori locali emanarono delle norme punitive per chiunque fosse sorpreso a «cometere el nefandissimo peccado de la luxuria contra Natura e alcun vicio sodomiticho». La persona riconosciuta colpevole di tali atti, poiché provocava un «grandissimo despiaxere al nostro signore Dio», era condannato ad essere «burxado publicamente in la piaza de quello luogo, dove igli commeterà quisti delicti».
Nel XV secolo sembra decadere la differenziazione tra atti sodomitici compiuti con uomini o con donne, come già si è sopra visto nel caso dello statuto padovano del 1329. Già nel 1402 gli estensori dello statuto di Adria punivano col rogo «qui mulierem vel masculo poluerit contra naturam». Anche gli statuti di Feltre (1404 ca.), Vicenza (1425), Caneda (1476) e Brescia (1486) prevedevano che chi avesse contaminato contro natura un uomo o una donna «comburatur igne». Lo statuto della «Communitas Vallis Camonicae» del 1498 puniva indistintamente la sodomia, se compiuta da una persona di almeno sedici anni, con il rogo, in contumacia se il reo riusciva a scappare.
A Pordenone, invece, il rogo era riservato a chi copulava in modo sodomitici con un maschio, e solo con quello, «propter quod insurgunt leges et armantur iura». La stessa pena era prevista, inoltre, per chi avesse avuto rapporti sessuali «cum brutis animalibus».
Agli inizi del Quattrocento Venezia fu scossa dall’indagine contro la sodomia condotta dai Signori della Notte, una magistratura della repubblica. Lo scandalo fu enorme, e coinvolse persino alcuni nobili veneziani, imparentati con alcune alte cariche della Serenissima repubblica. Il caso venne insabbiato e il reato di sodomia fu avocato al Consiglio dei Dieci che, nel 1455, emise una legge che puniva questo «pessimo morbo», che provocava «super nos iram domini nostri Dei». Soprattutto dovevano essere costantemente monitorate le taverne, luoghi in cui avvenivano gli incontri illeciti, in particolare con la partecipazione di giovanetti.
Ad Orvieto gli ufficiali papali era tenuti a indagare contro i sodomiti che al tempo del loro mandato, o nell’anno precedente, avessero commesso il reato di omosessualità, o fossero stati accusati di ciò. La pena prevista per i colpevoli, sia attivi che passivi, era la morte sul rogo, tranne per i «pueris» al di sotto dei quattordici anni, puniti con una multa di 25 lire in caso fossero stati capaci di intendere e di volere. La maggior severità nei confronti dell’omosessualità è provata dalla rubrica dello statuto orvietano che puniva i ruffiani. Se qualcuno si comportava da ruffiano in un adulterio, un incesto o una violenza di una «mulieribus honestis bonae vitae et famae» era condannato a pagare una multa di 100 lire, fustigato sulle nude carni attraverso la città ed esiliato in «perpetuo». Ma nel caso avesse favorito il «vitium sodomiae», oltre alla fustigazione e all’esilio, sarebbe stato condannato al pagamento di una multa di 200 lire, il doppio previsto per una donna d’onesta virtù.
Il problema dell’omosessualità fu affrontato anche dalla normativa signorile. Già abbiamo visto come reagirono le istituzioni veneziane di fronte al problema, con l’istituzione di una apposita magistratura.
Anche nella Firenze medicea, a seguito di un caso particolarmente scabroso che aveva colpito l’opinione pubblica, venne istituita una nuova magistratura per far rispettare le norme contro l’omosessualità. Nel 1426 il bolognese Piero Di Giacomo violentò un bambino del quartiere di San Lorenzo, che morì per le emorragie interne provocategli dalla violenza. Il processo a Piero Di Giacomo terminò con la sua morte sul rogo e con la promulgazione di una legge negli Statuta Communis Florentiae, circa tre anni dopo, che istituiva il corpo degli Ufficiali di Notte. Il nuovo organo comunale doveva «diligentem inquirere et investigare et se informare», ossia doveva agire tramite investigazioni poliziesche e delazioni segrete. Le pene previste dalla nuova legislazione, però, non erano dure come voleva una parte dell’opinione pubblica. Chi fosse stato dichiarato colpevole avrebbe dovuto pagare una penale di 50 fiorini, il doppio in caso di prima recidività, il quadruplo la seconda recidività e 500 fiorini la terza. Solo alla quarta recidività era previsto il rogo pubblico.
Nel 1447 il signore di Milano, Francesco Sforza, emise un bando contro gli omosessuali. I legislatori meneghini consideravano l’omosessualità alla stregua di un contagio, e questo bando cercava di porre freno a questo «execrabile» vizio, tramite la pubblica delazione dei peccatori, contro cui era prevista la pena di morte sul rogo.Il premio per i delatori, la cui identità doveva rimanere segreta, era di 10 ducati d’oro; però questi ultimi dovevano portare delle prove convincenti a sostegno delle loro accuse, una norma piuttosto garantisti per l’epoca. Il compito di raccogliere queste denuncie era affidato al capitano di giustizia di Milano, il signor Bartolomeo Caccia.
Le autorità veneziane, per cancellare il «nefandissimum et horendum vitium et crimen sodomie in hac civitate», promulgarono nel 1496 una legge che obbligava «barbitonsur sive medici aut alii» che curavano ragazzi o donne vittime di sodomia a denunciare questi fatti al Consiglio dei Dieci, pena il pagamento di una multa di 500 lire di denari piccoli e la reclusione per sei mesi, oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività medica in Venezia.
Dall’intolleranza malcelata nei confronti dell’omosessualità che caratterizzò il periodo altomedievale si passò, nel Basso Medioevo, all’aperta ostilità, supportata dalla legislazione e dalla morale cattolica. Le prediche contro l’omosessualità di parte del clero avevano avuto l’effetto di far emergere il problema del vizio contro natura, e quindi contro Dio stesso, facendo si che queste preoccupazioni coinvolgessero anche la sfera legislativa, prima dei Comuni e poi delle Signorie. L’esito, abbastanza scontato, fu la persecuzione degli omosessuali e di coloro che commettevano il vizio sodomitico, anche con donne; persecuzione che accomunava gli omosessuali agli infedeli e agli eretici, ossia a coloro che erano ritenuti al di fuori della morale ortodossa cristiana. Persecuzione che, in alcuni casi, continua tutt’oggi e che, fino a poco tempo fa, era prassi corrente nella maggior parte delle nazioni del mondo. Basti pensare al fatto che in alcuni stati degli USA la sodomia è ancora considerata reato.
Bibliografia consigliata
J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità. La Chiesa e gli omosessuali dalle origini al XIV secolo, trad. a c. di E. Lauzi, Milano 1989.
R. Canosa, Storia di una grande paura: la sodomia a Firenze e a Venezia ne

giovedì 23 ottobre 2008

L’UOMO E L’ANIMALE: COSA LI ACCOMUNA E COSA LI DIFFERENZIA Intervista al professor Leopoldo Prieto,

A CURA DI D. PICCHIOTTI

ROMA, lunedì, 29 settembre 2008 (ZENIT.org).- Qual è la differenza fra l’uomo e l’animale? Questa annosa domanda continua ad appassionare milioni di persone ancora oggi agli inizi del XXI secolo. Un libro recente fa il punto della situazione dal punto di vista scientifico e cristiano.
Superando la propria condizione biologica, l’uomo è chiamato ad aprirsi alla conoscenza di nuove dimensioni, ha ricordato Benedetto XVI in un’omelia del 9 marzo 2008. Anche gli animali conoscono - ha proseguito il Papa - “ma solo le cose che sono interessanti per la loro vita biologica”. A differenza degli animali, l’uomo invece “ha sete di una conoscenza dell’infinito”.
Queste parole del Papa rappresentano un orientamento per la cultura dei nostri giorni, rispetto alla scottante e non sempre chiara questione dell’uomo e dell’animale.
Un esempio di questa situazione di confusione, nel contesto spagnolo, è dato dalla mozione dell’11 aprile 2006 della Camera dei deputati spagnola, con la quale si invita il Governo ad aderire al progetto “gran simio” (“grande scimmia”), ideato dagli animalisti Peter Singer e Paola Cavalieri, per promuovere la parità di condizioni giuridiche tra tutti i componenti della “comunità dei simili”, composta dai grandi antropoidi e dagli esseri umani.
Per capire meglio questo fenomeno culturale dei nostri tempi, ZENIT ha intervistato il sacerdote Leopoldo Prieto López, LC, professore di filosofia presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (Roma), il quale ha recentemente pubblicato un libro in Spagna dal titolo “El hombre y el animal: nuevas fronteras de la antropología” (BAC, Madrid 2008).
Il volume presenta i risultati di diverse ricerche interdisciplinari di biologia e filosofia sul tema dell’uomo e dei suoi rapporti con il mondo animale.
Che obiettivo aveva in mente quando ha scritto questo libro?
Padre Leopoldo Prieto: Un obiettivo semplice, ma che considero promettente per il rinnovamento degli studi sull’uomo. Fino agli inizi del XX secolo, l’antropologia era elaborata quasi esclusivamente con riferimento alle facoltà dello spirito umano (intelligenza e volontà). Era chiamata per questo psicologia razionale. Ma poiché le facoltà razionali sono una peculiarità dell’uomo che lo differenzia dall’animale, veniva tralasciato lo studio della dimensione fisica della natura umana, comune a quella del mondo animale.
Questo approccio aveva alla base una certa impostazione cartesiana di fondo e, soprattutto, la perdita della feconda dottrina aristotelica dell’anima come “forma” del corpo. In varie delle sue opere sulla biologia, Aristotele afferma di considerare l’uomo come un “animale razionale”. La geniale intuizione di questo filosofo non sta nell’ammettere la specificità che l’intelligenza conferisce all’uomo, ponendolo al di sopra degli altri animali - cosa perfettamente nota dai filosofi precedenti - quanto nel far dipendere dall’intelligenza la conformazione corporale propria dell’uomo. Per questo, se l’anima è realmente la “forma” del corpo, è possibile affrontare lo studio antropologico secondo un nuovo approccio che concentra la sua attenzione inizialmente proprio sul corpo umano.
Ma non si tratta di una sorta di concessione al materialismo antropologico oggi in voga?
Padre Leopoldo Prieto: No, al contrario. È un cambiamento di prospettiva dell’antropologia che racchiude possibili sviluppi molto fecondi per lo studio dell’uomo, oltre a riconoscere le giuste esigenze di una rivalutazione della dimensione fisica della natura umana. In altri termini, essendo l’anima in tutto il corpo come la sua “forma”, è logico che lasci su di esso qualche impronta. E in effetti queste orme esistono e sono inequivocabili.
E quali sono queste orme?
Padre Leopoldo Prieto: Esistono due caratteristiche fisiche inspiegabili dal punto di vista biologico, grazie alle quali si può affermare (in senso filosofico) che il corpo umano è il corrispondente fisico dell’anima di un essere razionale. Queste caratteristiche sono: la non specializzazione morfologica del corpo umano e la carenza di istinti.
In ragione del primo, il corpo umano riproduce a suo modo la limitata soggezione della ragione umana alla realtà che lo circonda, apparendo come un corpo aperto, ovvero non specializzato (anche se per ciò stesso fisicamente più vulnerabile), svincolato dall’ambiente fisico e libero dai vincoli che il contesto ambientale impone alla morfologia di qualunque animale.
In questo senso, la limitata soggezione della volontà (che è il fondamento profondo della libertà) ha un analogo corrispondente nell’indeterminatezza fisica del comportamento umano, svincolato (o liberato, a seconda della prospettiva) dall’istinto animale, con i vantaggi e gli inconvenienti che ciò comporta. In questo modo l’uomo si rende capace di condurre per proprio conto e sotto la sola guida della sua ragione tutte le sue azioni.
Da questo punto di vista, la differenza tra l’animale e l’uomo non potrebbe essere più evidente: l’animale è condotto dall’istinto, che a sua volta è mosso dagli eccitanti organici che reagiscono di fronte agli stimoli ambientali; l’uomo, al contrario, si conduce con la ragione che propone motivi alla volontà, per mezzo della quale egli governa se stesso.
Perché è così importante la non specializzazione morfologica?
Padre Leopoldo Prieto: Effettivamente la non specializzazione morfologica è un fatto di grande importanza nella reinterpretazione dell’antropologia, proposta dal libro. L’adattamento all’ambiente è una legge fondamentale della biologia. Tutti gli animali, in maggiore o minore misura, si sono adattati morfologicamente e funzionalmente al proprio habitat.
L’uomo, invece, seguendo una esigenza extrabiologica, manifesta nel suo corpo un sistematico rifiuto a lasciarsi imprigionare da forme organiche specializzate. Questo era già noto sin dai tempi dei greci. Ma, allora, questo fatto non era spiegabile con i dati biologici oggi conosciuti.
Nel libro lei dice che la non specializzazione è una caratteristica primitiva degli organismi. Ci può spiegare questa idea?
Padre Leopoldo Prieto: È proprio così. Questa è un’altra delle novità più interessanti di questo lavoro. Gli stadi morfologicamente specializzati sono sempre le tappe finali del cammino evolutivo di una specie. In questo senso, la mancanza di specializzazione denota sempre un carattere primitivo.
Ogni specializzazione rappresenta la perdita di molte possibilità latenti nell’organo non specializzato (e primitivo), a beneficio dello sviluppo intensivo di una determinata capacità di adattamento. Portando avanti il ragionamento si arriva ad una conclusione molto interessante per le sue implicazioni sulla delicata questione dell’evoluzione dell’uomo.
La questione è la seguente: se la mancanza di specializzazione riveste sempre un carattere primitivo e se gli stadi di specializzazione sono sempre stadi finali nel cammino evolutivo, ne consegue che è impossibile che le configurazioni morfologiche primitive (quali sono quelle del cranio, della mandibola, delle mani e dei piedi umani, ecc.) procedano da altre posteriori pur maggiormente evolute, come lo sono tutte le caratteristiche morfologiche altamente specializzate delle scimmie.
Se non ho frainteso, vuole dire che l’uomo è una creatura meno evoluta delle scimmie?
Padre Leopoldo Prieto: Esattamente. O meno evoluta, o evoluta in modo contrario alle scimmie. Uno studioso ha suggerito, senza intenti ironici, ma sollevando qualcosa di sostanzialmente veritiero, che, volendo difendere l’evoluzionismo, bisognerebbe sostenere, in luogo della vecchia immagine dell’evoluzionismo del XIX secolo in cui l’uomo deriva dalla scimmia - la famosa serie di individui che passano da semiquadrupedi fino all’uomo eretto attuale -, esattamente il contrario, ovvero l’idea di una scimmia (come essere altamente specializzato e adattato alla forma di vita arborea) che procede dall’uomo, un essere molto più primitivo e meno specializzato.
Un’idea alquanto scioccante, non le pare?
Padre Leopoldo Prieto: Può essere, da un punto di vista culturale, ma dal punto di vista scientifico è piuttosto ben fondata. Autori rinomati del mondo scientifico hanno affermato che la filogenia delle scimmie antropoide è consistita in una “scimmiazione” crescente, a partire da forme arcaiche più simili a quelle umane, rispetto alla “ominizzazione” progressiva della specie umana. Vi è stato persino chi ha parlato di deumanizzazione progressiva della scimmia.
Qual è il primitivismo umano che lei considera più importante?
Padre Leopoldo Prieto: Senza dubbio il primitivismo del cranio umano: un caso molto ben chiarito e di particolare rilevanza. Retrocedendo nello sviluppo ontogenetico dei vertebrati (soprattutto dei mammiferi) fino alla loro fase embrionale, compaiono sempre maggiori somiglianze tra il cranio di questi e il cranio umano.
Per esempio, nel cranio delle grandi scimmie è possibile riconoscere, durante la loro fase embrionale e infantile, numerosi tratti umani (cranio sferico, collocato verticalmente sopra alla zona facciale, la quale appare senza la prominenza del muso) che tuttavia spariscono man mano che l’animale si avvicina alla maturità. Questo è il momento in cui il cranio della scimmia inizia ad assumere i tratti tipici dell’animale: una forte estroflessione della zona facciale, che assume la forma di un piano continuo con una fronte sfuggente.
A differenza di questi animali, negli esseri umani si conserva la disposizione embrionale del cranio durante tutta la vita. Se si confronta il cranio dell’uomo con quello di qualunque grande scimmia nel suo stadio infantile la somiglianza è sorprendente. Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, per esempio, osservava nel 1836: “Il cranio di un giovane orangotango è molto somigliante a quello di un bambino. Sulla testa di un piccolo orangotango troviamo i graziosi tratti infantili dell’uomo; ma se consideriamo il cranio dell’adulto troviamo forme animalesche di una chiara bestialità”. Come dicevo, il cranio dei cuccioli di scimmia conserva una sorta di abbozzo di umanità.
Gli attuali biologi parlano di origine neotenica delle proprietà specificamente umane. Ci può spiegare brevemente cosa si intende per neotenia?
Padre Leopoldo Prieto: Il Diccionario de la real Academia curiosamente definisce questo termine come il “fenomeno per il quale in determinati esseri vivi si conservano caratteri larvali o giovanili dopo aver raggiunto lo stadio adulto”. In realtà la neotenia è una teoria che spiega l’origine dei primitivismi umani, mettendoli in relazione ai tratti fetali ed embrionali presenti in tutti i mammiferi nel loro stadio embrionale e poi abbandonati nella forma di vita adulta, ma mantenuti permanentemente nell’uomo nella sua forma adulta.
Come è stato dimostrato, i tratti embrionali sono portatori delle forme primitive non specializzate, aperte pertanto ad una ampia gamma di possibilità evolutive. I caratteri embrionali o neotenici che si manifestano nell’uomo adulto, manifestano in lui l’assenza del necessario vincolo morfologico all’habitat, che è proprio di ogni specializzazione morfologica degli animali. Questa dottrina è stata battezzata con il nome di “neotenia” da J. Kollmann (1885), ma ha assunto maggiore autorevolezza scientifica nel XX secolo, soprattutto a partire da un’opera di S. J. Gould del 1977. In ogni caso, l’idea veniva da molto tempo addietro.
Passando ad un altro tema del libro, cosa pensa dell’intelligenza degli animali?
Padre Leopoldo Prieto: Anzitutto bisogna determinare con precisione il concetto di intelligenza. Normalmente quando si dice che un determinato animale è intelligente si vuole intendere che dispone di una qualche capacità psicologica che gli permette di adottare comportamenti complessi o di grande precisione. In realtà, se l’intelligenza fosse questa, praticamente tutti gli animali sarebbero più intelligenti dell’uomo, la cui dotazione di conoscimento sensoriale è alquanto inferiore in precisione e certezza rispetto a quella di molti animali.
Il termine proprio per indicare il comportamento complesso e specializzato degli animali è l’istinto. Il comportamento di un animale è tanto più certo e preciso quanto più dipende dalla determinazione univoca che è propria di un conoscimento sensoriale e istintuale. D’altra parte, lo studio dell’istinto è fonte inesauribile di conoscenza per gli studiosi del comportamento animale, sommamente preciso per il particolare, ma cieco per il generale.
Al contrario, la caratteristica propria dell’intelligenza è quella di un comportamento inizialmente incerto e vacillante (perché manca di quella determinazione univoca proveniente dai sensi), ma con capacità di apprendimento, di continuo aggiustamento e di progresso. In realtà, l’animale non è intelligente. Anche se l’espressione “intelligenza pratica” ha un senso, che può essere accettabile se applicato all’animale, è importante chiarire che l’intelligenza, propriamente detta, implica un nuovo modo di entrare in relazione con le cose, che è inaccessibile all’animale.
Tuttavia, alcuni etologi hanno parlato di “comportamento curioso” di alcuni animali
Padre Leopoldo Prieto: Effettivamente. Soprattutto K. Lorenz ha dato valide osservazioni su alcuni animali che adottavano un comportamento esplorativo o curioso, il quale appariva lontano dalla rigidità propria dell’istinto e più vicino al comportamento oggettivo, tipicamente umano. Ma la curiosità espressa da questi animali non è propriamente di natura intellettuale, perché essi non sono capaci di considerare la natura degli oggetti scoperti nella loro esplorazione.
Tuttavia, un merito innegabile di questi studi è stata l’interessante conferma del rapporto che esiste tra tipo di comportamento e conformazione morfologica dell’animale. In questo senso, un animale curioso, come per esempio il corvo, che ha un ampio repertorio di comportamenti, deve disporre di una motricità sufficientemente ampia per poter soddisfare la vasta gamma di azioni e oggetti che l’esplorazione gli fa assumere e scoprire. Per questo la relativa mancanza di specializzazione di questi animali gli consente di popolare ambienti molto diversi. Come è stato detto, gli animali curiosi si sono specializzati nel non essere specializzati, qualcosa - come si vede - che è proprio principalmente dell’uomo.
Cosa pensa del linguaggio degli animali?
Padre Leopoldo Prieto: Come è evidente, la questione del linguaggio dipende da quella dell’intelligenza. Il linguaggio è espressione di ciò che si conosce. E così come esistono diversi modi di conoscere (intelligenza e conoscenza sensoriale), esistono diversi modi di comunicare ciò che si conosce.
È chiaro che gli animali comunicano tra loro e alcuni lo fanno in un modo altamente complesso e preciso. La realtà della comunicazione animale si basa su due premesse evidenti: primo, l’animale conosce attraverso i sensi; secondo, è un essere sociale e pertanto ha bisogno di comunicare aspetti di interesse biologico ai suoi simili.
Tuttavia, questo tipo di comunicazione, a rigore, non può essere definito linguaggio. Il linguaggio è il modo proprio di comunicazione di una conoscenza intellettuale (astratta o, come si suol dire, simbolica). In questo senso, così come la conoscenza intelligente è esclusiva dell’uomo, così lo è anche il linguaggio. Questa conclusione è confermata continuamente dagli studiosi di psicologia animale.
Pertanto, la differenza fondamentale tra comunicazione animale e linguaggio umano sta nel fatto che nella prima è espressione affettiva dello stato organico dell’animale, mentre nel secondo è anzitutto espressione oggettiva del modo di essere della cosa conosciuta. Quest’ultima è definita comprensione. Questo è il vero confine tra la comunicazione animale e il linguaggio umano.
Ma non è stato dimostrato che alcune scimmie particolarmente sveglie sono capaci di interagire intelligentemente con l’uomo, usando addirittura il computer?
Padre Leopoldo Prieto: Gli sperimenti realizzati con le scimmie, specialmente con gli scimpanzé, allo scopo di dimostrare l’esistenza di attitudini logiche in questi animali, si sono dimostrati sempre dei fallimenti. Sono stati impiegati molti mezzi e molto tempo, ma i risultati ottenuti sono sempre stati deludenti. L’unica cosa che sono riusciti a dimostrare è l’esistenza di una memoria associativa (che è alla base dell’addestramento degli animali), più o meno sviluppata. Gli stessi ricercatori hanno dovuto riconoscere che gli scimpanzé, anche dopo un intenso addestramento linguistico, rimangono al livello di comunicazione del quale sono naturalmente dotati.
Questo dunque significa che ciò che questi animali hanno “appreso” attraverso l’addestramento non è stato anche “compreso”. Per questo non forma parte del proprio patrimonio di comunicazione, né viene trasmesso alla prole. Tutto ciò che si è ottenuto con questi esperimenti, tanto sofisticati quanto tenaci, è stata l’associazione di immagini con determinate azioni (in un numero abbastanza ridotto), rafforzata con i premi più graditi all’animale (cibo, passeggiata, ecc.).

martedì 7 ottobre 2008

Qual’è la differenza fra sentimenti ed emozioni?

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Questi vissuti sono un po’ il "sale" della vita, perciò la domanda è un ottimo spunto per approfondire distinzioni di significato che spesso risultano trascurate mentre sono molto utili per una migliore comprensione dei fatti emotivi.
Con emozione (moto dell’animo) indichiamo ciò che proviamo reagendo ad uno stimolo, anzi meglio al significato che attribuiamo allo stesso. Abbiamo quindi il riconoscimento del valore da noi attribuito ad un evento e immediatamente una risposta emotiva che interessa il nostro corpo.
Il senso (la finalità) più evidente delle emozioni appare quello di stimolare un’adeguata reazione comportamentale. Mi accorgo di un pericolo, provo paura, scappo, chiedo aiuto o mi difendo. Un evento mi apre nuove interessanti opportunità, provo gioia e corro a condividerla con i miei amici più cari. 
Esistono altresì fenomeni reattivi molto rapidi, essenziali per la sopravvivenza, attraverso i quali reagiamo anche prima di un riconoscimento, pienamente cosciente, degli stimoli, ma in questi casi non parliamo propriamente di emozioni. 
 Le emozioni puntualizzano la nostra reattività agli eventi della vita, i sentimenti accompagnano in maniera più duratura gli investimenti affettivi che operiamo intorno a noi. Chiamiamo, infatti, sentimento ciò che proviamo verso un "oggetto", persona, cosa o situazione che assuma un valore relativamente stabile per noi, o meglio, in relazione ai nostri bisogni e desideri. Sono sentimenti l’amore, l’innamoramento, l’odio, l’invidia, la gelosia. La funzione dei sentimenti appare verosimilmente quella di sostenere questi investimenti. 
Per chi apprezza le metafore informatiche, i sentimenti sono, di solito, come delle icone, presenti con discrezione se stiamo vivendo altre esperienze o ci stiamo occupando di altro, ma attivabili facilmente qualora la situazione lo renda opportuno. Quando un sentimento invade prepotentemente la nostra vita parliamo di una passione.
Gli stati d’animo hanno apparentemente una natura più rarefatta mentre sono importantissimi poiché accompagnano emotivamente il senso che attribuiamo alle situazioni ed in definitiva alla vita stessa. Sono coerenti con le nostre opinioni e decisioni più profonde e spesso, come queste, sono stabili e impermeabili. Se i nostri stati d’animo abituali non ci piacciono, sono probabilmente proprio le opinioni e decisioni centrali che dobbiamo verificare, magari con la consulenza di un esperto.
Imparare a riconoscere i vari aspetti della vita emozionale aiuta a gustarla meglio, un po’…come imparare a gestire il sale in cucina.EMOZIONI, SENTIMENTI E STATI D'ANIMO
Qual’è la differenza fra sentimenti ed emozioni?
Questi vissuti sono un po’ il "sale" della vita, perciò la domanda è un ottimo spunto per approfondire distinzioni di significato che spesso risultano trascurate mentre sono molto utili per una migliore comprensione dei fatti emotivi.
Con emozione (moto dell’animo) indichiamo ciò che proviamo reagendo ad uno stimolo, anzi meglio al significato che attribuiamo allo stesso. Abbiamo quindi il riconoscimento del valore da noi attribuito ad un evento e immediatamente una risposta emotiva che interessa il nostro corpo.
Il senso (la finalità) più evidente delle emozioni appare quello di stimolare un’adeguata reazione comportamentale. Mi accorgo di un pericolo, provo paura, scappo, chiedo aiuto o mi difendo. Un evento mi apre nuove interessanti opportunità, provo gioia e corro a condividerla con i miei amici più cari. 
Esistono altresì fenomeni reattivi molto rapidi, essenziali per la sopravvivenza, attraverso i quali reagiamo anche prima di un riconoscimento, pienamente cosciente, degli stimoli, ma in questi casi non parliamo propriamente di emozioni. 
Ci siamo specificamente occupati negli articoli apparsi le scorse settimane delle principali emozioni (paura, rabbia, dolore e gioia), ora vale la pena di affermare che le stesse hanno un carattere individuale sia nell’attribuzione del significato conferito agli eventi stimolo sia nell’intensità, e modo, della riposta corporea.
Mentre le emozioni puntualizzano la nostra reattività agli eventi della vita, i sentimenti accompagnano in maniera più duratura gli investimenti affettivi che operiamo intorno a noi. Chiamiamo, infatti, sentimento ciò che proviamo verso un "oggetto", persona, cosa o situazione che assuma un valore relativamente stabile per noi, o meglio, in relazione ai nostri bisogni e desideri. Sono sentimenti l’amore, l’innamoramento, l’odio, l’invidia, la gelosia. La funzione dei sentimenti appare verosimilmente quella di sostenere questi investimenti. 
Per chi apprezza le metafore informatiche, i sentimenti sono, di solito, come delle icone, presenti con discrezione se stiamo vivendo altre esperienze o ci stiamo occupando di altro, ma attivabili facilmente qualora la situazione lo renda opportuno. Quando un sentimento invade prepotentemente la nostra vita parliamo di una passione.
Gli stati d’animo hanno apparentemente una natura più rarefatta mentre sono importantissimi poiché accompagnano emotivamente il senso che attribuiamo alle situazioni ed in definitiva alla vita stessa. Sono coerenti con le nostre opinioni e decisioni più profonde e spesso, come queste, sono stabili e impermeabili. Se i nostri stati d’animo abituali non ci piacciono, sono probabilmente proprio le opinioni e decisioni centrali che dobbiamo verificare, magari con la consulenza di un esperto.
Imparare a riconoscere i vari aspetti della vita emozionale aiuta a gustarla meglio, un po’…come imparare a gestire il sale in cucina

LA NECESSITÀ DELL’AMICIZIA “Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici”

A CURA DI D. PICCHIOTTI

“L’amicizia appartiene all’essenza dell’uomo, poiché la persona, per diventare ciò che è, ha bisogno di
amici”. È una delle idee ricorrenti emerse nel corso del Convegno sull’amicizia, organizzato a Roma dalla
Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce.
Secondo il prof. Norberto Galli dell’Università del Sacro Cuore di Brescia, la vera amicizia è governata
da una “certa simmetria”: il sentimento amicale – ha spiegato Galli - è proprio degli individui “apparte-
nenti allo stesso sesso, di pari età, di analogo stato sociale, dotati di una similarità di valori, di atteg-
giamenti, di opinioni, di prospettive precisantisi cammin facendo”. Proprio per questo è “improprio par-
lare di amicizia tra genitori e figli, fratelli e sorelle, docenti e discenti, prevalendo tra loro i principii di fi-
liazione, di parentela, d'insegnamento”. L’amicizia da senso e consistenza ai rapporti umani ed è
l’artefice della solidità dei “legami familiari, sociali e professionali”.
Per evitare che tra amici s’insinuino con facilità “competizioni, invidie, tradimenti, condotte in potenza
nefaste”, è opportuna una “mediazione educativa orientata alla riscoperta di aspetti virtuosi”.
“L’educazione all’amicizia - ha aggiunto sempre Galli - compete anzitutto ai genitori”, che possono in-
fondere nei figli “sentimenti di accoglienza verso i coetanei”, “stimolo a partecipare alle attività altrui”.
Per Adriano Fabris, docente presso l’Università di Pisa, l’amicizia trova il suo contrassegno in una “di-
namica di rapporti caratterizzata da reciprocità e simmetria”. Citando Aristotele e Kant, Fabris ha ricor-
dato che “il raggiungimento dell’amicizia vera e propria” è spesso caratterizzato da un “esito difficile”.
Ciò nonostante, va aggiunto che in ogni caso “l’amicizia non è un dato di partenza, bensì è propriamen-
te una possibilità. Che può essere scelta e perseguita sulla base di ciò che risulta già inscritto, in qual-
che modo, nella struttura dei rapporti interumani”. E che “solo nella scelta del rispetto e nell’assunzione
del modello della simmetria può realizzarsi in maniera equilibrata il coinvolgimento che mi attrae verso
l’altra persona”.
Marco D’Avenia, docente di Filosofia Morale e coordinatore del convegno, ha invece sottolineato la ne-
cessità di cercare l’amicizia nella vita quotidiana, negli ambiti lavorativi, nei normali rapporti sociali e
nella vita familiare. “Non è possibile vivere con irritazione o egoisticamente in alcuni ambiti vitali e, al
contempo, intrecciare rapporti di vera amicizia, che sono per natura disinteressati”.
“Nonostante la mancanza di fiducia che tante persone hanno nei confronti dell’amicizia, essa continua
ad essere valutata come una realtà di grande pregio”, ha invece evidenziato il prof. Antonio Malo,
dell’Università della Santa Croce. Accade spesso che nella nostra società “al valore altissimo, e tante
volte anche idealizzato, dell’amicizia non corrisponde un’immagine ugualmente elevata della persona”. È
fondamentale allora guardare all’amicizia come un fattore “che aiuta alla costituzione della propria iden-
tità” e permette a ciascuno di “conoscere-amare l’altro come fine non come mezzo né in base alle sue
qualità o capacità”, ma “come indipendente dai suoi bisogni, sentimenti o utilità”. “Solo l’amicizia con
Dio, mediante la Carità, può attualizzare la potenzialità naturale verso un’amicizia universale, scevra di
ogni egoismo ed esclusivismo - ha concluso lo studioso -. Nell’amicizia in Dio e per Dio si raggiunge la
maggior identità, poiché si è non solo con l’amico, ma con l’Amico, che ci fa partecipare di tutto ciò che
è suo”.
Sull’amicizia come “riconoscimento” si è soffermato invece il prof. Lucio Cortella, dell’Università Ca’ Fo-
scari di Venezia, spiegando che è proprio il riconoscimento a consentire a “un vero rapporto d’amicizia
di vivere la vicinanza non già come annessione bensì come costruzione reciproca delle diverse identità”.
“Se il riconoscimento dev’essere reciproco, la sua condizione è che esso garantisca l’autonomia dei sog-
getti in gioco. L’amicizia - ha concluso Cortella - si regge finché essa mantiene in equilibrio questa pre-
ziosa tensione fra comunanza e indipendenza. Essa è perciò al tempo stesso un rapporto necessario e
libero”.
Il professor Francesco Botturi, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dal canto suo ha evi-
denziato che “l’amicizia si colloca nel duplice senso dell’ideale della libertà”, nel senso che sia “la