venerdì 30 maggio 2008

Hegel, Georg Wilhelm Friedrich (Stoccarda 1770 - Berlino 1831), filosofo tedesco


RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich (Stoccarda 1770 - Berlino 1831), filosofo tedesco. Compiuti gli studi classici presso il ginnasio di Stoccarda, si iscrisse all’Università di Tubinga, dove strinse rapporti d’amicizia con il poeta Friedrich Hölderlin e il filosofo Friedrich Schelling. Terminati gli studi di filosofia e teologia, Hegel divenne precettore privato, dapprima a Berna nel 1793, poi a Francoforte nel 1797. Due anni dopo morì il padre, lasciandogli una rendita che gli permise di sospendere l’attività di precettore.
Nel 1801 si trasferì a Jena, dove portò a termine la Fenomenologia dello spirito (1807). Si trattenne a Jena fino all’ottobre del 1806, quando l’occupazione francese lo costrinse alla fuga. Dopo aver soggiornato per un breve periodo a Bamberga, dove lavorò come giornalista presso il “Bamberger Zeitung”, divenne professore di filosofia al ginnasio di Norimberga.
Negli anni di Norimberga pubblicò La scienza della logica (1812-1816). Nel 1816 ottenne la cattedra di filosofia presso l’Università di Heidelberg, dove pubblicò un’esposizione completa e sistematica della sua filosofia, l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817). Nel 1818 gli venne offerta la cattedra di filosofia che era stata di Johann Fichte all’Università di Berlino, dove rimase fino alla morte.
L’ultima grande opera pubblicata da Hegel furono i Lineamenti di filosofia del diritto (1821); dopo la sua morte videro la luce, a cura dei suoi allievi, gli appunti delle lezioni: le Lezioni sulla filosofia della religione (1832), le Lezioni sulla storia della filosofia (1833-1836), l’Estetica (1835-1838) e le Lezioni sulla filosofia della storia (1837).
LO SPIRITO ASSOLUTO
Era intento di Hegel elaborare un sistema filosofico che potesse comprendere in sé le idee dei suoi predecessori, formando una cornice concettuale al cui interno potesse essere filosoficamente appreso il divenire storico. Un tale approccio mirava a una comprensione unitaria della realtà, concepita nella totalità delle sue manifestazioni come processo di sviluppo del principio primo dell’essere, il pensiero puro o Ragione, che Hegel chiama Spirito assoluto. Il compito della filosofia è tracciare l’itinerario di sviluppo dell’assoluto: ciò implica in primo luogo il chiarimento della struttura intrinsecamente razionale dell’assoluto; in secondo luogo una dimostrazione delle modalità con cui l’assoluto si manifesta nella natura e nella storia; in terzo luogo, un’illustrazione del carattere teleologico dell’assoluto, che esibisca il finalismo intrinseco alla dinamica, al “movimento” dell’assoluto nella storia.
DIALETTICA
Riguardo alla struttura razionale dell’assoluto, Hegel affermò che “ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale”. Quest’affermazione può essere interpretata considerando l’assunto hegeliano secondo cui l’assoluto deve essere concepito come pensiero puro, o Spirito puro, coinvolto nel processo della sua stessa crescita. La logica che è sottesa a questo processo di sviluppo è la dialettica. Il metodo dialettico implica che il movimento, il processo, sia il risultato del conflitto tra opposti. Questa dimensione del pensiero hegeliano è analizzabile secondo le categorie di tesi, antitesi e sintesi. La tesi, che può essere ad esempio un’idea o un movimento storico, ha in sé un’incompiutezza che genera il suo opposto, l’antitesi, un’idea o un movimento opposti. Il risultato della contraddizione, del movimento degli opposti, è un terzo momento, la sintesi, che supera e risolve il conflitto a un livello superiore conciliando in una verità più comprensiva la verità dei due poli opposti (tesi e antitesi). La sintesi è una nuova tesi che innesca un ulteriore movimento dialettico, generando in questo modo un processo di sviluppo storico e intellettuale continuo. Lo stesso Spirito assoluto si sviluppa con un movimento dialettico verso il fine ultimo, la conoscenza di sé.
Per Hegel, quindi, la realtà è intesa come l’assoluto che si dispiega dialetticamente in un processo di sviluppo di sé. In questo processo lo Spirito assoluto si manifesta sia nella natura sia nella storia. La natura è l’Idea assoluta o l’Essere che oggettiva se stesso in forma materiale. Le coscienze finite e la storia dell’uomo sono il movimento in cui si manifesta l’assoluto stesso in ciò che gli è più affine, cioè la coscienza o spirito. Nella Fenomenologia dello spirito Hegel contrassegnò i momenti successivi di questo manifestarsi, dal livello di coscienza più semplice all’autocoscienza assoluta, fino alla ragione.
AUTOCOSCIENZA DELL’ASSOLUTO
La meta del divenire dialettico può essere compresa più chiaramente nello stadio della ragione: mentre la ragione finita progredisce nella comprensione, l’assoluto progredisce in direzione dell’autocoscienza. L’assoluto infatti giunge a conoscere se stesso mediante l’accrescersi della capacità di comprensione della realtà da parte dell’intelletto umano. Hegel analizzò i tre stadi di questo progresso del pensiero: arte, religione e filosofia. L’arte coglie l’assoluto nelle forme materiali, esprimendo la razionalità nelle forme sensibili del Bello. L’arte viene superata dalla religione, che coglie l’assoluto per mezzo di immagini e simboli; la religione più filosofica è per Hegel il cristianesimo, poiché in esso il manifestarsi dell’assoluto nel finito è riflesso simbolicamente nell’incarnazione. La filosofia, tuttavia, è lo stadio speculativo supremo, poiché coglie l’assoluto razionalmente. Quando si è realizzato questo momento, l’assoluto è pervenuto alla piena autocoscienza e il processo ha raggiunto il proprio fine. Solamente a questo punto Hegel identificò l’assoluto con Dio. “Dio è Dio”, Hegel affermò, “solo nella misura in cui conosce se stesso”.

Gli studi dei filosofi- La dialettica

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

I filosofi devono essere educati in modo tale che la loro anima non sia attratta dal mondo di ciò che diviene o è generato (to gignomenon), bensì dal mondo di ciò che è (to on). Ginnastica e mousiké non possono svolgere questa funzione, perché si limitano a conferire armonia e buone abitudini. D'altro canto, le discipline che si insegnano devono essere connesse con la cittadinanza, e dunque - dice Socrate non senza ironia - devono essere utili dal punto di vista bellico (522c).
Le discipline propedeutiche proposte da Socrate formano quello che Marziano Capella codificò successivamente, nell'ambito delle sette arti liberali, come quadrivium.
Il loro carattere essenziale è la loro capacità di risvegliare la noesis, facendo uso della dianoia (533d). Questo avviene più facilmente quando gli oggetti della percezione sensibile appaiono ambigui: in questo caso, siamo obbligati a riflettere sugli strumenti concettuali che usiamo per definirli. Per esempio, un dito ci appare sempre, qualitativamente, come un dito: per questo motivo, è difficile che si interroghi su che cosa sia. Di contro, proprietà quantitative come le dimensioni, il peso, il numero sono, per l'evidenza sensibile, ambivalenti: una stessa cosa può apparire grande o piccola, o pesante o leggera, a seconda che sia confrontata con un'altra di dimensioni minori o maggiori; un medesimo elemento può apparire come unitario oppure suddiviso in una indefinita molteplicità a seconda che lo consideriamo come un intero oppure scomposto nelle sue parti (523d ss). 54 Sul piano intelligibile, i concetti di uno e di molteplice sono chiari e distinti proprio perché non sono frutto di percezioni sensibili, ma oggetti del pensiero.
La prima disciplina proposta da Socrate per l'educazione dei filosofi è l'aritmetica. Essa, infatti, aiuta a capire che l'unità numerica non si ritrova nella singola cosa sensibile - che, a seconda del punto di vista, potrebbe anche apparirci indefinitamente molteplice - ma una costruzione del pensiero. Chi ha una abilità nel calcolo, naturale o acquisita, acquisisce prontezza anche in tutte le altre discipline (525a ss).
La seconda disciplina è la geometria, se coltivata in funzione della conoscenza di ciò che perennemente è e non per scopi pratici (527b).
La terza disciplina è l'astronomia, come studio del movimento dei corpi dotati di profondità (stereometria). Anche qui occorre ricordare che l'aspetto educativo non è la conoscenza empirica del movimento degli astri, che non è necessariamente regolare e immutabile, l'uso dei corpi celesti come esempi che diano spunto ad elaborazioni concettuali astratte (529a ss), in una prospettiva che oggi chiameremmo di meccanica razionale.
La quarta disciplina è l'armonia, che si occupa del moto armonico nella prospettiva dell'udito (530a ss).
La dialettica
Le discipline del quadrivium fungono da preludio al dialegesthai, il cui scopo è formare uomini capaci di dare e rendere ragione (logos) di ciò di cui si parla (531e).
La dialettica - dice Socrate - procede tramite il logos, senza fondarsi su nulla di sensibile, verso le cose come sono veramente, e non desiste prima di aver afferrato il bene in sé, fino al limite estremo dell'intelligibile (532b). Essa si fonda sul presupposto che sia possibile conoscere la verità - presupposto che però, di per sé, non implica che quanto sappiamo ora sia vero (533a). Si differenzia sia dalle technai, sia dalle discipline dianoetiche. Le prime, infatti, si occupano di opinioni e appetiti (epithymiai) umani e di processi di generazione e di composizione, o curano ciò che è generato dalla natura o prodotto per composizione (533b). Le seconde sono incapaci di rendere ragione (logon didonai) delle ipotesi di cui si servono, e quindi, pur procedendo correttamente nei passaggi intermedi, accettano come principio qualcosa che ignorano. La loro validità, pertanto, dipende da una convenzione o stipulazione (omologia) e non è propriamente dovuta a scienza (episteme) (533c).
Il metodo dialettico, di contro, procede superando le ipotesi fino al principio stesso per confermarne la validità, con l'assistenza delle discipline dianoetiche (533c-d).
Dialettico in generale è chi sa ottenere ragione (logos) dell'essenza di ciascuna cosa (534b), e in particolare è in grado di definire col logos l'idea del bene, separandola da tutte le altre cose, tramite l'arte dell'interrogare e del rispondere (534c-d). La noesis, di cui la dialettica è strumento, non può aver luogo senza l'interazione dialogica.
Il curriculum di studi platonico, che si conclude con lo studio della filosofia, ha un ordine inverso rispetto a quello delle sette arti liberali, per il quale il trivium 55 era propedeutico al quadrivium. Socrate propone che l'aritmetica, la geometria e tutta l'educazione preparatoria siano insegnate ai bambini, ma non a forza. Si tratta, infatti, di sviluppare e di mettere alla prova le loro facoltà, e non di imporre loro delle nozioni. Intorno ai vent'anni, cessati gli esercizi ginnici obbligatori, verranno selezionati i candidati alla dialettica, in base alla loro abilità sinottica, cioè alla capacità di avere uno sguardo complessivo e sistematico su quello che studiano. A trent'anni, i più solidi fra questi - quelli che discutono per conoscere il vero - verranno prescelti per la dialettica. Fino a cinquant'anni, alterneranno, ogni cinque anni, lo studio e il servizio politico, negli uffici propri dei giovani, come il comando militare. Infine, quelli che si sanno conservati integri alterneranno, a turno, lo studio della parte più alta della filosofia con incarichi di governo (538d ss).
Quanto detto, precisa Socrate, vale in ugual misura per i governanti e per le governanti (540c).

FIlosofia araba ed ebraica"Breve sintesi sui maggiori esponenti della cultura araba ed ebraica."

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

La cultura araba aveva cominciato a svilupparsi verso il IX secolo con la traduzione di numerose opere di filosofi e scienziati greci. Nel XII secolo, i rapporti con il mondo arabo stimolarono moltissimo la vita culturale occidentale, perché la cultura orientale aveva già assorbito l'eredità della filosofia greca che gli occidentali conoscevano, invece, solo parzialmente attraverso l'opera dei Padri della Chiesa. Anche la filosofia araba è una scolastica, cioè un tentativo di trovare una spiegazione razionale
alla Verità rivelata dalla religione. Nella filosofia araba si possono distinguere due tendenze fondamentali: la neoplatonica e l'aristotelica. Della prima il massimo rappresentante è Avicenna, della seconda è Averroé. AVICENNA Avicenna, il cui nome era Ibn - Sina, era persiano e fu famoso come medico oltre che come filosofo. La sua opera principale è il Libro delle Guarigioni, da cui furono tradotte la Logica, la Metafisica e la Fisica. Avicenna formula chiaramente il principio fondamentale della filosofia araba: tutto ciò che accade, accade perché deve necessariamente accadere e non potrebbe accadere in un modo diverso. Se una cosa non è necessaria ma possibile in rapporto a se stessa, deve essere necessaria in rapporto ad altro. L'essere che è necessario in rapporto a se stesso è Dio; l'essere che è possibile rispetto a se stesso, ma necessario rispetto a Dio è la natura. Le cose naturali, infatti, sono necessarie perché derivano da Dio che è un essere necessario. Anche la creazione è un atto necessario perché ha origine in Dio. Tutti i filosofi arabi sin interessarono al problema dell'intelletto attivo che identificarono con Dio e dal quale distinsero altre specie d'intelletto: oltre all'intelletto attivo, che è quello divino, esistono l'intelletto potenziale che è quello umano che riceve dall'intelletto divino i principi in base ai quali può ragionare, l'intelletto acquisito che è quello che ragiona e forma l'insieme delle conoscenze umane. AVERROE' Il più celebre dei filosofi arabi è Ibn - Rashid, detto dagli occidentali Averroé; nacque in Spagna a Cordoba e scrisse due Commenti e una parafrasi delle opere di Aristotele. Per Averroé, la dottrina di Aristotele è la verità e Averroé si propone soltanto di esporla e chiarirla. Egli è inoltre convinto che la filosofia aristotelica sia assolutamente in accordo con la religione islamica, esprimendo meglio quello che quella religione insegna in maniera semplice agli uomini incolti. Per Averroé, l'insegnamento fondamentale di Aristotele è la necessità di tutto ciò che esiste; il mondo è necessario perché creato da Dio che è perfetto. In quanto creato da Dio che è eterno, il mondo non ha avuto un inizio nel tempo, ma è eterno come Dio.La sua creazione non è stata un atto libero ma una necessità perché il mondo è una necessaria manifestazione di Dio.

mercoledì 28 maggio 2008

Nella «contemplazione del muro» l'essenza dello Zen di Bodhidharma

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Nel precedente articolo La dottrina del « Duplice Accesso » e la teoria dei « Quattro Atti » fra i Sūtra e lo Zen (sempre sul sito di Arianna Editrice), abbiamo fatto cenno a un elemento caratteristico della dottrina Zen, così come esso venne formulato dal  maestro Bodhidharma, colui che introdusse l'insegnamento di Buddha dall'India alla Cina. Intendiamo alludere al concetto di pi-kuan, ossia quello svuotamento della mente da ogni pensiero, che è la via maestra per giungere al satori, la suprema illuminazione e la suprema beatitudine conseguenti all'aver fatto tabula rasa di tutto ciò che è attaccamento, mediante il pensiero e le passioni, alla sfera della realtà impermanente. Infatti, mentre la dottrina del « Duplice Accesso » e la teoria dei « Quattro Atti » sono componenti tipiche del buddhismo in quanto tale, quella de pi-kuan è una nozione specificamente Zen e in essa risiede un notevole elemento di novità rispetto ad altre dottrine buddhiste giunte in Cina e in Giappone da Occidente.
Abbiamo anche parlato di uno scritto, intitolato Meditazione sui quattro atti, che viene attributo a T'an lin (Donrin), nel quale viene anche esposta la funzione del concetto di pi-kuan, che equivale a "pacificazione dello spirito" e che Bodidharma sostituisce col termine cheh-kuan: composta da cheh, che significa "svegliarsi" o "essere illuminato" e kuan che indica il "percepire" o il "contemplare"; mentre pi equivale a "muro" o "precipizio". Ad ogni modo, il concetto è chiaro: l'illuminazione equivale a un risveglio e, al tempo stesso, al superamento del muro delle illusioni (il velo di Maya), raggiungendo così la perfetta pace interiore.
Ora, è proprio su questo concetto che desideriamo fermare la nostra attenzione.
Tao-hsuan, l'autore delle Biografie, nei suoi commenti sullo Zen considera la contemplazione del muro praticata nel Mahayana, ossia il Tai-ch'eng pi-kuan di Bodhidharma, come la parte più significativa e originale della dottrina introdotta da quest'ultimo in Cina. Per tale motivo Bodhidharma fu spesso chiamato il brahmino del pi-kuan, vale a dire il brahmino della contemplazione del muro; e, sempre per questa ragione, alcuni pensano che i monaci della scuola Soto, in Giappone, seguano l'esempio di lui, immergendosi nella contemplazione con la faccia rivolta contro un muro.
Il muro, in questo caso, starebbe a rappresentare il "muro" dell'ignoranza (in sanscrito: aviydia, ossia - avendo la a valore privativo, come an in greco - l'opposto della retta comprensione); o anche, se si vuole, il "velo di Maya", ossia il velo ingannevole che induce la mente ad attribuire consistenza ontologica alla natura fenomenica impermanente, immergendosi in un vortice di passioni, timori, speranze e illusioni che distoglie la mente dal suo unico e vero scopo, il raggiungimento del "vuoto" mediante l'intuizione della assoluta nullità del mondo fenomenico e della erroneità del senso di separazione della mente dall'Assoluto.
Non tutti gli studiosi, però, sono d'accordo su questa interpretazione. Fra coloro che ne dubitano si trova anche il dottissimo Daisetz Teitaro Suzuki, considerato come il massimo studioso del buddhismo del XX secolo e uno dei più autorevoli conoscitori dello Zen, autore, fra l'altro, dei Saggi sul Buddhismo Zen (titolo originale: Essays in Zen Buddhism [First Series], London, Utchinson Group; traduzione italiana di Julius Evola, Roma, Edizioni Mediterranee, 3 voll., I, pp. 173-175), dai quali riportiamo il brano seguente.
 
Ma questa è evidentemente una interpretazione superficiale del termine pi-kuan; del resto, la mera pratica del fissare un muro come avrebbe potuto provocare negli ambienti buddhisti una rivoluzione come quella di cui si dice nella biografia di Bodhidharma scritta da Tao-hsuan? Una pratica così inoffensiva come avrebbe potuto suscitare una violenta opposizione fra i sapienti di quel tempo? Secondo me, il pi-kuan ha un significato assai più profondo, da intendersi alla luce del seguente passo degli Annali citato in un'opera nota sotto il nome di Pieh-Chi, da considerarsi come uno speciale, più antico documento:
«Il Maestro risiedette dapprima nel monastero Shao-ling.-szu per nove anni e per istruire il secondo patriarca si limitò a dirgli: 'All'esterno tienti lontano da ogni parentado e all'interno non permettere che il tuo cuore palpiti (o abbia brame, ch'uan); quando la tua mente rassomiglierà ad un muro dritto potrai entrare nella Via'. Hui-k'e cercò in vario modo di spiegarsi il principio primo della mente, ma non giunse a realizzare in se stesso la verità. Il maestro gli diceva semplicemente: 'No! No!' e mai gli chiese di parlargli dell'essenza della mente nello stato senza pensieri [cioè come essere puro]. Dopo un certo tempo Hui-k'e dichiarò: 'Ora so come tenermi lontano da ogni parentado'. 'Senti ciò come un completo annientamento?' chiese il maestro. 'No, maestro', rispose Hui-k'e , 'non lo sento come un completo annientamento'. 'In che modo puoi attestare quel che dici?'. 'È cosa che so nel modo più evidente, ma esprimerla in parole è impossibile'. Allora il maestro disse: 'Questa è la stessa essenza della mente trasmessa da tutti i Buddha. Non dubitare di ciò'.»
Di fatto, questo passo riassume lo speciale messaggio contenuto nell'insegnamento di Bodhidharma e in esso possiamo trovare la risposta esatta circa il senso del pi-kuan. A quel tempo tale termine deve aver rappresentato una novità, e l'originalità della veduta stava proprio nel lato creativo della parola pi: senso concreto e plastico, senza nulla di astratto e di concettuale. Per questo Tao-hsuan nel riferirsi all'insegnamento di Bodhidharma lo designò specificamente come il Tai-ch'eng pi-kuan (contemplazione mahāyānica del muro). Mentre nella sua dottrina dei Due Ingressi e di Quattro Atti non vi è nulla di specificamente Zen, l'insegnamento del pi-kuan, della contemplazione del muro, fu ciò che fece di Bodhidharma il primo patriarca del buddhismo Zen in Cina.
L'autore della Giusta trasmissione della dottrina dei Çākya interpreta il pi-kuan come lo stato di una mente nella quale «non penetra alcuna polvere dall'esterno». Comunque, il significato che si cela nella «contemplazione del muro» va ricondotto alla condizione soggettiva di un maestro dello Zen, che è quella di una suprema concentrazione e di una rigorosa esclusione di ogni idea e di ogni immagine sensibile. Intendere il pi-kuan come un mero «fissare il muro» sarebbe una vera assurdità. A voler cercare il messaggio specifico di Bodhidharma quale fondatore dello Zen in Cina in qualche particolare espressione dei suoi scritti esistenti, bisogna riferirsi appunto alla «contemplazione mahāyānica del muro».
 
Chiarito questo punto, Suzuki passa a riferire dai testi antichi, specialmente dagli Annali,  alcuni episodi della vita e dell'insegnamento di Bodhidharma, specialmente quello del colloquio con l'imperatore cinese Wu di Liang e quello degli inizi del discepolato di Hui-k'e, colui che avrebbe preso il posto del maestro quale principale esponente della nuova dottrina (vissuto, secondo la cronologia tradizionale, dal 486 al 593).
Ne riportiamo un breve estratto perché ci sembra utile al fine di chiarire alcuni concetti chiave della dottrina e soprattutto della pratica Zen (Op. cit., vol. I, pp. 177-180) e per introdurre il lettore occidentale non specialista nel mondo affascinante di questa filosofia.
 
L'imperatore Wu di Liang chiese a Bodhidharma:
«Dall'inizio del mio regno ho fatto costruire molti templi, ho fatto trascrivere tanti libri sacri, ho aiutato numerosi monaci; quale pensi che sia il mio merito?».
«Proprio nessun merito, Maestà!» rispose seccamente Bodhidharma.
«Perché?», chiese, stupito, l'imperatore.
«Tutte queste sono opere d'un ordine inferiore», rispose in modo significativo Bodhidharma, «le quali possono far sì che il loro autore rinasca nei cielo o sulla terra. Esse però recano ancora le tracce del mondo, sono come le ombre che accompagnano gli oggetti. Malgrado le apparenze esse non sono altro che delle irrealtà. Il vero atto che procura merito è pieno di sapienza pura, è perfetto e misterioso, la sua vera natura è fuor dalla portata dell'umano intelletto. Essendo tale, nessuna opera di questo mondo può condurre ad esso».
Allora l'imperatore Wu chiese a Bodhidharma: «Qual è il primo principio della santa dottrina?».
«È il vasto vuoto, Maestà, e nulla vi è in esso che sia da chiamarsi santo!» rispose Bodidharma.
«E allora chi è colui che ora mi sta dinanzi?».
«Non lo so, maestà!».
La risposta era semplice e chiara, ma il colto e pio imperatore buddhista non seppe cogliere ciò che ispirava tutto l'atteggiamento di Bodhidharma.
Questi, quando vide che non poteva essere più d'aiuto all'imperatore, ne lasciò i domini e si ritirò in un monastero nello stato di Wei, dove visse tranquillo praticando - si dice - la «contemplazione del muro» per nove lunghi anni, tanto da essere noto appunto sotto il nome di «brahmano del pi-kuan».
Un giorno un monaco di nome Shen kuang andò a visitarlo supplicandolo di illuminarlo sulla verità dello Zen; ma Bodhidharma non si curò affatto di lui. Shen-kuang non si scoraggi, saèendo che tutti i grandi capi spirituali del passato dovettero attraversare le prove più dure prima di raggiungere lo scopo ultimo delle loro aspirazioni. Una sera che nevicava aspettò che Bodhidharma lo scorgesse, fino a ce la neve gli giunse quasi alle ginocchia. Alla fine il maestro gli fece caso e chiese: «Che vuoi che faccia per te?». Kuang disse: Sono venuto per ricevere le vostre inestimabili istruzioni; vi prego, aprite le porte della vostra misericordia e porgete la vostra mano salvatrice a questo povero mortale sofferente. «L'incomparabile dottrina del buddhismo - rispose Bodhidharma - può essere compresa solo dopo una aspra disciplina, sopportando quel che è più duro da sopportare, praticando quel che è più difficile da praticare. Agli uomini di poca forza d'animo e di poca sapienza non è concesso intendere qualcosa di essa. Ogni pena che costoro si diano non approderà a nulla».
Kuang finì col troncarsi il braccio sinistro con una spada che portava e ad offrirlo al maestro come prova della sincerità del suo desiderio di essere istruito nella dottrina di tutti i Buddha. Bodhidharma disse: «Questa dottrina non devi cercarla da un altro».
«La mia anima non conosce ancora la pace. Vi prego, maestro, datele la pace».
«Ebbene, portami qui la tua anima ed io le darò la pace».
Kuang esitò un momento, poi disse: «L'ho cercata tutti questi anni, e non sono stato ancora capace di afferrarla!».
«Ecco! Essa ha ormai la pace, una volta per tutte», fu la risposta di Bodhidharma, che allora gli disse di mutare il proprio nome in Hui-k'e,
Passati nove anni, Bodidharma volle tornare in patria,. Convocò tutti i discepoli e disse loro: «Essendo per me venuto il momento di partire, voglio vedere fin dove siete giunti».
«Secondo la mia opinione - disse Tao-fu la verità è di là dall'affermazione e dalla negazione; è così che essa si muove.
Bodhidharma disse: «Hai avuto la mia pelle».
Venne poi una monaca, Tsung-ch'ih, che disse: «Come io la intendo, la verità è come quando Ananda ebbe la visione della terra Akshobhya del Buddha: visione di un attimo, che non si ripresenta più».
Bodhidharma disse: «Hai avuto la mia carne».
Un altro discepolo, Tao-yu, espresse il suo pensiero nel modo seguente: «Vuoti sono i quattro elementi e non esistenti i cinque aggregati (skandha). Secondo me, non vi è una sola cosa che si possa cogliere come reale».
Bodhidharma disse: «Hai avuto le mie ossa».
Infine venne Hui-k'e - ossia colui che prima si chiamava Shen-kuang - si chinò reverentemente dinanzi al maestro, prese posto sul suo seggio e non disse nulla.
Bodhidharma gli disse: «Hai avuto il mio midollo».
 
In questi episodi della vita di Bodhidharma sono bene espressi alcuni concetti fondamentali del buddhismo Zen.
Nell'episodio del dialogo con l'imperatore Wu di Liang si parla di due aspetti assolutamente centrali: la dottrina del Vuoto, meta suprema di ogni cammino di liberazione; e, nella straordinaria affermazione del maestro circa l'ignoranza del proprio io, la dottrina - propria del Buddhismo originario e, quindi, conservata soprattutto dal Theravada - secondo la quale l'io altro non è che un complesso di operazioni mentali sempre cangianti. Ma su questo secondo aspetto ci ripromettiamo di tornare con un lavoro specifico, proprio per la sua somma importanza dal punto di vista non solo psicologico, ma altresì filosofico.
Nell'episodio del primo discepolato di Hui-k'e (condito di elementi quasi certamente allegorici, come quello dell'auto-mutilazione del discepolo) vediamo esposti, per bocca di Bodhidharma, quattro elementi di notevole valore:  la necessità di sottoporsi a una disciplina inflessibile, tale da mettere realmente alla prova il desiderio del discepolo d'istruirsi (e di ciò fa parte l'apparente noncuranza del maestro verso il discepolo); la necessità di non delegare interamente alla figura del maestro stesso il cammino verso l'illuminazione, di non farne un elemento di de-responsabilizzazione, ma, al contrario, di cercare in se stessi la Via; il rifiuto di addentrarsi intellettualisticamente alla ricerca di enti elusivi, quali l'anima (o Dio), per restare sul terreno concreto dell'esperienza di ciò che è auto-evidente, ad es. la pace interiore o la mancanza di essa (e non la pace dell'anima, questione prettamente intellettuale); infine, il paradosso di una consapevolezza che giunge all'improvviso, quasi non cercata, allorché si sia sgombrato finalmente il campo dalle paure, dalle speranze e dalle percezioni illusorie.
Infine, nell'episodio del testamento spirituale di Bodhidharma ai suoi discepoli, alla vigilia della sua partenza per tornare in India, possiamo notare le seguenti affermazioni: una assoluta non dualità della verità (la verità non nasce dal pensiero oppositivo e non si contrappone ad un'altra verità); il suo conseguimento è cosa istantanea e non riproducibile (a differenza, ad es., della verità secondo l'accezione della scienza occidentale moderna); l'illusorietà di tutti i dati della coscienza desta (per cui non vale il principio di verità del cogito cartesiano); e, più importante di tutto il resto, la radicale inesprimibilità del nucleo più riposto della dottrina Zen - appunto perché si tratta di una dottrina intuitiva e creativa e non intellettualistica.
 
Forse il lettore occidentale, che possieda una certa qual conoscenza della filosofia europea, avrà notato alcune analogie fra alcuni aspetti di essa e lo Zen, così come avrà notato profonde differenze non solo nelle conclusioni cui giunge lo Zen, pur partendo da premesse in qualche modo simili, ma in tutta l'atmosfera che circonda i due approcci speculativi.
Prendiamo il caso della filosofia del Romanticismo tedesco e, in particolare, il concetto di Sehnsucht, che generalmente si definisce come "brama verso l'Infinito, verso l'Assoluto", oppure anche - sottolineandone le valenze psicologiche - come "desiderio del desiderio". Anche nel Sehnsucht, come nello Zen, troviamo una struggente tensione metafisica, un desiderio di andar oltre, oltre il regno delle apparenze, verso il perfetto appagamento interiore: un atteggiamento che ci ricorda da vicino l'ardore con il quale il giovane Hui-k'e supplicava Bodhidharma di aiutarlo a liberarsi dall'ignoranza, sottoponendosi a ogni sorta di sacrifici pur di essere aiutato a realizzare il suo desiderio di verità. Ma quale differenza di atteggiamento, di prospettiva, di conclusioni nel romanticismo tedesco!
Scrivono in proposito Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero in Protagonisti e testi della filosofia (Milano, Paravia, 2000, vol. III, p. 17):
 
(…) si può dire che l'intuizione romantica dell'uomo sia in funzione di quell'anelito all'infinito che è proprio di tale corrente culturale. Infatti è solo in relazione a tale 'brama di infinito' che si comprendono alcuni dei più emblematici 'stati d'animo' romantici, che formano l'oggetto preferito delle rappresentazioni letterarie.
L'espressione germanica Sehnsucht, che può essere tradotta in italiano con: desiderio, aspirazione struggente, brama appassionata, ecc., costituisce forse, a detta del germanista Ladislao Mittner, «la più caratteristica parola del romanticismo tedesco», poiché sintetizza l'interpretazione dell'uomo come desiderio e mancanza, ossia come desiderio frustrato verso qualcosa (l'infinito, la felicità…) che sempre sfugge. Infatti la romantica Sehnsucht si identifica con quell'aspirazione verso il più e l'oltre, che non trovando confini e mete precise, si risolve inevitabilmente, come scrive un altro germanista, Sergio Lupi, in un «desiderio di avere l'impossibile di conoscere il non conoscibile, di sentire il soprasensibile». Tant'è vero che la Sehnsucht, la quale etimologicamente deriva dal verbo sehnen, che vuol dire desiderare, e dal sostantivo Sucht, che significa esso pure desiderio, finisce per configurarsi come un «desiderio innalzato alla seconda potenza, un desiderio del desiderio, e quindi un desiderare che si esaurisce in sé per il piacere del desiderio».
Infatti Schlegel nella Lucinde, dice del suo personaggio Giulio: «Tutto poteva eccitarlo, niente poteva bastargli. Era come se volesse abbracciare il mondo e non potesse afferrare niente»…
 
Pertanto, si può dire che la romantica Sehnsucht contiene in se stessa i germi della disperazione: è la ricerca dell'impossibile, sapendo che è impossibile. L'eroe romantico crede di essere proteso verso l'Assoluto, mentre - in realtà - è impegnato in una narcisistica celebrazione del suo Ego, dalle brame illimitate.
Potremmo spingerci oltre e osservare che nel filosofo tedesco il quale ha spinto al massimo grado questo aspetto del romanticismo, Nietzsche, si verifica - come già osservava giustamente Julius Evola - una sorta di corto circuito fra il titanismo della volontà di potenza e la volontà dichiarata di rimanere fedele alla terra: due cose evidentemente inconciliabili, come sarebbe voler andare oltre la condizione umana pur rimanendo entro l'orizzonte del finito e, quindi, dell'umano. È probabile che la catastrofe finale di Nietzsche - che non è solo esistenziale, ma altresì filosofica -  tragga origine, per l'appunto, da questa contraddizione; ma essa è già implicita nel romanticismo dello Sturm und Drang e dei primi anni del XIX secolo.
Completamente diverso è l'approccio Zen al problema della ricerca della Via verso l'illuminazione, verso il satori. Anche qui siamo in presenza di un desiderio struggente, ma non si tratta di un desiderio del desiderio, bensì di un reale desiderio di qualche cosa d'altro del desiderio stesso: di un principio di chiarezza interiore, pace e armonia il quale, per quanto arduo da raggiungere, non è affatto impossibile e fuori della portata dei nostri sforzi. Pertanto nello Zen non vi è nulla di nichilistico, così come nulla di nichilistico vi è nell'idea buddhista di liberazione, intesa come scioglimento dalle catene dell'illusione. Il Nirvana, la meta finale, il superamento del ciclo delle rinascite, non è qualcosa di intrinsecamente negativo o contraddittorio, bensì un concetto positivo e accessibile all'uomo.
È il ritorno al Tutto, all'Assoluto dal quale egli si era allontanato, senza rendersene conto, a causa della illusione relativa al mondo fenomenico e alle passioni che essa, inevitabilmente, porta seco. Perciò l'eroe romantico che si slancia all'assalto dell'infinito è un personaggio tragico, che corre verso l'autodistruzione; mentre il saggio Zen che aspira alla verità è un personaggio concreto e positivo, che cerca in se stesso un principio di autorealizzazione, superando il dualismo tra Cielo e terra, tra Aldilà e aldiqua, tra Infinto e finito; per assidersi, vittorioso e pacificato, nella dimensione ove le antinomie della vita scompaiono e resta solo l'esperienza ineffabile del Tutto.
Abbiamo detto ineffabile: e Bodhidharma, come si è visto, insiste molto su questo punto.
Il che ci riporta a una notevole analogia fra lo Zen e il Tao: laddove, nel Tao te ching, si dice -  appunto - che il Tao del quale si può parlate, che si può esprimere a parole, non è il vero Tao; non è il vero Principio, non è la vera Via.
di Francesco Lamendola - 30/04/2008
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

 

lunedì 26 maggio 2008

Storia dell'infinito di Piergiorgio Odifreddi

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

30 aprile 2001
Puntata realizzata con gli studenti del Liceo Scientifico "Giordano Bruno" di Torino

"Infinito" come concetto filosofico e religioso
Rapporti tra religione e scienza: Cantor e il Sant'Uffizio
L'infinito per Giordano Bruno
L'infinito nelle altre culture
Infinitamente piccolo, infinitamente grande
La rappresentazione dell'infinito nell'arte e nella letteratura: Tristram Shandy di Sterne, Il Castello di Kafka
Il nastro di Moebius
A che serve parlare di infinito? Crea problemi o li risolve?
Siti internet sul tema
STUDENTESSA: Benvenuti al liceo "Giordano Bruno" di Torino. Siamo qui con Piergiorgio Odifreddi, che ringraziamo per aver accettato il nostro invito, per parlare dell'infinito. Prima di iniziare la discussione, guardiamo insieme una scheda filmata per meglio introdurre il tema.

Già i filosofi greci posero l'infinito, che essi chiamavano "apeiron", come principio della realtà. Ma l'infinito matematico appariva qualcosa di più temibile, inclassificabile, di in-definito. I Pitagorici scacciarono dalla loro setta Ippaso di Metaponto, colpevole di aver rivelato l'esistenza dei numeri irrazionali.
Nell'800, il matematico Georg Cantor consacrò i propri studi al tentativo di rendere definito e operativo in matematica un concetto come quello di infinito. Mosso anche da interessi filosofici e addirittura teologici, Cantor formulò una nuova categoria di numeri, i numeri "transfiniti". Un insieme infinito, secondo la definizione di Cantor, è un insieme che possiede almeno un sottoinsieme con cui è in corrispondenza biunivoca. Insomma, per gli insiemi infiniti il tutto non è sempre maggiore delle parti. Le conseguenze di questa scoperta furono enormi. Oggi l'infinito è un oggetto familiare per gli scienziati, uno strumento che pone alcuni problemi e permette di risolverne molti altri. Ma al profano, e forse anche allo scienziato, il salto dal finito all'infinito continua a dare come una vertigine. Per l'uso che ne fanno le scienze, l'infinito è un rapporto e non un'idea, uno strumento e non una essenza. Possiamo allora dire che è possibile conoscere attraverso l'infinito, ma non conoscere l'infinito? E i nostri sforzi in questa direzione saranno sempre inutili, frustrati e destinati allo scacco, come sosteneva Kant?

ODIFREDDI: Non so se avete sentito parlare di Nicola Cusano, che non a caso era un cardinale . Perché c'è un collegamento tra l'infinito e Dio. È stato per lo meno così proposto. Ebbene Cusano verso il 1450 nelle sue opere - La dotta ignoranza e Le congetture - fu il primo a introdurre il concetto d'infinito. Oggi in matematica l'infinito è qualche cosa di abbastanza naturale, lo si usa quotidianamente, però il concetto d'infinito matematico è più recente. Verso la fine dell'Ottocento, con questo signore, di cui abbiamo sentito per lo meno il nome nel filmato: Cantor, che è colui che ha iniziato la teoria matematica dell'infinito. Quindi queste sono un po' le tre tappe; i Greci che lo rimuovevano, Cusano che in realtà l'ha introdotto in maniera filosofica teologica, e poi Cantor, che invece lo ha introdotto in maniera matematica.

STUDENTESSA: Si parla di infinito matematico e di infinito filosofico. Esistono dunque diversi tipi di infinito o è lo stesso preso in considerazione sotto diversi punti di vista?

ODIFREDDI: Ma guarda questo è vero per molti concetti che sono filosofici, ma che poi vengono usati nella scienza. Pensa alla "causalità", al rapporto tra causa ed effetto. L'infinito è uno di questi. Ma il modo in cui i filosofi considerano l'infinito forse non è quello che usano i matematici e gli scienziati. Gli scienziati lo usano effettivamente come infinito dei numeri. Dico "dei" al plurale perché, la cosa può sembrare strana, ci sono tanti infiniti. I matematici hanno scoperto che di infiniti ce ne sono infiniti, che è una specie di circolarità. E il primo che si è accorto che forse più di un infinito poteva esistere è stato Giordano Bruno. Siamo qui in una scuola, che è intitolata per l'appunto a Giordano Bruno. Se Voi, probabilmente avete letto le opere di Giordano Bruno, ebbene ne La cena delle ceneri, fa uno strano ragionamento. Dice: supponiamo di avere una palla, come la terra. La terra viene illuminata dal sole, ma soltanto una parte della terra viene illuminata dal sole. Man mano che ci si allontana, il sole è più lontano dalla terra, una parte sempre maggiore della sfera viene illuminata. Ora, domanda: quant'è la parte della sfera che al massimo può venire illuminata? Se il sole fosse all'infinito, allora illuminerebbe esattamente metà della sfera. Ora Giordano Bruno si chiede: ma poverina l'altra metà della sfera che cosa fa? Rimane in ombra? Allora l'idea di Giordano Bruno è: quando arriviamo all'infinito, facciamo un passo in più, incominciamo ad andare oltre questo primo infinito e il sole comincerà a illuminare la parte di dietro della sfera. Quando s'arriva all'infinito per la seconda volta tutta la sfera è illuminata. Non c'è bisogno di dire che questa è, ovviamente, è un'idea semplicemente metaforica, non ha nessun senso. Però è la prima volta nella storia in cui qualcuno pensa che ci sia effettivamente la possibilità di avere due o più infiniti. I matematici oggi sono arrivati ad averne addirittura infiniti. E chi scoprì che ci sono infiniti infiniti fu proprio quel Cantor ( Georg Cantor 1845 - 1918) di cui abbiamo già citato il nome prima.

STUDENTESSA: In che modo un'entità superiore, quale Dio, dovrebbe essere infinita? Esiste un rapporto tra religione e scienza?

ODIFREDDI: Qui ci sono due domande. Naturalmente il rapporto tra religione e scienza certamente esiste, non fosse il fatto che, tanto per citare appunto Giordano Bruno, nel momento in cui le sue teorie cominciano a postulare infiniti mondi che esistono nell'infinito spazio per un infinito tempo, Giordano Bruno finisce al rogo. Quindi effettivamente rapporti ci sono, ma non sono sempre stati rapporti ottimali. Però il problema dell'infinito in teologia è un problema interessante, perché fino a quando l'infinito non c'era, o meglio, fino a quando l'infinito veniva rimosso - abbiamo detto prima che i Greci in qualche modo lo rimuovevano - si pensava che Dio non esistesse perché non c'era l'infinito. Tutte le dimostrazioni dell'esistenza di Dio di San Tommaso nella Summa theologiae: le cinque vie che portano a Dio, sono tutte basate sul rifiuto dell'infinito. Nel momento in cui Cusano, un cardinale come dicevo prima, riconduce il concetto di infinito, ecco che si fa un voltafaccia. Prima Dio c'era perché l'infinito non c'era, nel momento in cui arriva l'infinito Dio c'è perché c'è l'infinito. Quindi quello mi sembra un po' un modo di risistemare sempre le cose a proprio vantaggio. Però appunto dal 1450 fino alla fine dell'Ottocento, l'infinito fu identificato per l'appunto come qualche cosa che sta oltre il finito, qualche cosa che sta oltre il nostro mondo e dunque con il trascendente, con Dio. C'è una storiella interessante, che Vi posso raccontare: quando Cantor scoprì che c'erano più infiniti, Cantor, nonostante il suo nome, che è ovviamente di origine ebraica, era cristiano, battezzato, quindi se ne preoccupò. Ovviamente era la fine dell'Ottocento, non c'era più pericolo di andare al rogo, però volle sapere che cosa la Chiesa pensava di questo fatto, la Chiesa cattolica. Andò in Vaticano, portò i suoi lavori e disse al Santo Uffizio, che era governato allora da un cardinale tedesco: "Ma Eminenza io ho qui lavori di matematica che mi dicono che ci sono più infiniti, in realtà tanti infiniti". Il cardinale disse: "Ma, insomma io la matematica non la conosco quindi do ai miei segretari i suoi lavori perché se li studino". I segretari erano dei domenicani - Voi sapete che il Santo Uffizio si è basato spesso sui domenicani per fare i suoi affari -, e i domenicani si presero due anni, perché ovviamente hanno dovuto cominciare a studiare la matematica la teoria degli insiemi eccetera. Dopo due anni dissero al cardinale: "Guardi, secondo noi, non c'è problema, non c'è pericolo per la fede". Allora Cantor venne convocato in Vaticano e il cardinale del Santo Uffizio gli disse: "Guardi lei può parlare di questi infiniti, purché non li chiami infiniti, perché effettivamente questo darebbe una brutta idea teologica, cioè farebbe una connessione con la divinità". Allora , Cantor scelse un nome, che oggi non sarebbe tanto corretto politicamente perché ha delle implicazioni un po' diverse, li chiamò "transfiniti" e, per il colmo dell'ironia, oggi i matematici chiamano questi transfiniti "cardinali". Quindi, insomma il cerchio. L'idea del cardinale del Santo Uffizio era che oltre tutti questi transfiniti là, alla fine, c'è il vero infinito assoluto. Chiesero a Cantor cosa ne pensava : "Ma per noi matematici quello non c'è. Non esiste un infinito assoluto per i matematici, perché è contraddittorio" e il Santo Uffizio disse: "Va bene quello lì è nostro". Quindi in qualche modo ci sono delle relazioni. La chiesa si è sempre preoccupata , sempre dal momento in cui l'infinito è stato in qualche modo identificato con la divinità. Oggi però i matematici non credono che l'infinito matematico sia in qualche modo un'immagine dell'infinito metafisico. Pensano semplicemente che siano oggetti matematici e quindi li tengono abbastanza distinti.

STUDENTESSA: Quali innovazioni ha avuto il pensiero di Giordano Bruno sull'idea di infinito che si era avuta fino allora?

ODIFREDDI: Giordano Bruno era un seguace di Cusano. Cusano era vescovo di Bressanone dove si parla il tedesco. Però Cusano aveva fatto un sacco di pasticci dal punto di vista filosofico. Se Voi leggete: Le congetture e soprattutto: La dotta ignoranza, non a caso l'ignoranza arriva già nel titolo. Cusano credeva che nell'infinito tutto diventasse uguale. Lui credeva che un triangolo infinito fosse uguale a una retta, fosse uguale a un cerchio infinito, e così via. Giordano Bruno, che era un seguace per l'appunto di Cusano, però in tempi diversi, non più nel 1450, ma nel 1600, introdusse, come ho detto prima, l'idea di due infiniti. La sua idea dell'infinito era molto moderna. Lui aveva questa idea dello spazio infinito, che l'universo non fosse soltanto una porzione finita in qualche modo, ma che si estendesse in tutte le direzioni senza limiti. È la stessa cosa per il "tempo": anche il tempo doveva essere infinito e soprattutto - questo certamente non avrebbe dato gran fastidio alla chiesa - però quello che diede fastidio alla chiesa fu che Giordano Bruno usò il concetto di infinito anche per i mondi. Lui sosteneva che ci fossero infiniti mondi, che il sistema solare fosse solo un esempio di sistema in cui potesse esserci la vita e che in giro per l'universo ci fossero infiniti di questi altri sistemi, in cui probabilmente ci fossero infiniti altri esseri, specie viventi, che avessero l'intelligenza. Questo naturalmente provocò dei grandi problemi teologici. Sant'Agostino già lo diceva, pensava che non fosse possibile che ci fosse vita in altri pianeti, perché se ci fosse vita in altri pianeti, allora Dio avrebbe dovuto incarnarsi anche negli altri pianeti, salire e scendere sulla croce, sarebbe diventato un saltimbanco della croce. E questo non si può dire. Gesù Cristo non era un saltimbanco per lo meno per Sant'Agostino. E invece Giordano Bruno introduce quest'idea, per l'appunto la possibilità che ci siano infiniti altri luoghi nell'universo, in cui la vita si è evoluta. Già anche Cusano lo faceva, però Cusano era appunto un cardinale, vicario tra l'altro, cioè il secondo in comando, diciamo così. Quindi aveva un alto potere ed erano altri tempi. Con Giordano Bruno questa idea non andò bene e uno dei crimini, diciamo così, che gli furono imputati e che poi lo portarono al rogo, fu proprio questo, cioè il fatto di aver creduto che ci fossero infiniti mondi e infinite altre specie. Quindi questo è un momento in cui l'infinito effettivamente lascia la filosofia e incomincia ad entrare nella scienza e quindi comincia a parlare di ciò che effettivamente succede nell'universo. E questo evidentemente la Chiesa non poteva accettarlo.

STUDENTESSA: In che cosa differisce la nostra idea di infinito da quella delle civiltà orientali o politeiste?

ODIFREDDI: Le civiltà orientali hanno concezioni abbastanza diverse. Il problema è che noi non abbiamo accettato l'infinito fin dal principio, noi occidentali intendo, che ci rifacciamo alla cultura greca. Per esempio se si va in India - potremo forse poi un giorno fare una trasmissione de Il Grillo, andare tutti in India e vedere, per esempio, i Giainisti sono una antichissima religione, sono addirittura precedenti all'Induismo, che oggi è la religione di maggioranza in India. Ebbene questi giainisti, già credo verso il mille avanti Cristo, pensavano che l'universo avesse una durata infinita, esattamente come dicevamo prima con Giordano Bruno, cioè che non ci fosse stato un inizio e non ci fosse stata una fine. Il problema del monoteismo è che ci sono tanti tipi di monoteismo, almeno quattro nella storia. Uno è finito male, nel senso che è il monoteismo di Akhenaton in Egitto, che è durato pochissimi anni e poi, con la morte di Akhenaton, del faraone, che tra l'altro era il papà di Tutankhamon, che tutti conoscete probabilmente. Ebbene quel tipo di monoteismo è durato molto poco. Ma le cosiddette grandi religioni rivelate: l'ebraismo, il cristianesimo e l'Islam arrivano tutte da una concezione in cui c'è una creazione dell'universo. Se Voi prendete la Bibbia e l'aprite alla prima pagina, al Primo capitolo, la Genesi, inizia proprio così: "In principio Dio creò il cielo e la terra". Allora l'idea che ci sia stata una creazione significa che in realtà l'universo quando si va all'indietro nel tempo, ovviamente può andare soltanto fino a un certo punto, cioè fino agli inizi. Cioè il tempo non va all'infinito all'indietro. La stessa cosa per la fine; Se Voi chiudete la Bibbia, saltando magari quello che c'è in mezzo e andate a vedere L'apocalisse, ebbene L'apocalisse, che è l'ultimo libro della Bibbia cristiana, il Nuovo Testamento, ci raccontano che ci sarà la fine dell'universo, la fine del mondo e il Giudizio Universale. Dunque il tempo in realtà è limitato, è limitato tra un inizio, che è l'inizio della creazione, e la fine, che sarà il momento del giudizio. Invece, in religione appunto come il "Giainismo", questo non lo accettavano. Per loro era possibile che l'universo fosse sempre esistito e che esisterà sempre. Quindi non c'era bisogno per loro di un concetto di creazione, non c'era bisogno del creatore, non c'era nemmeno bisogno del distruttore. Altre religioni, per esempio l'induismo a cui abbiamo accennato, hanno un approccio verso il mondo, che è molto simile invece a quello delle religioni di cui ho appena parlato. Per esempio l'induismo ha tre dei, che sono Brama, Visnù e Shiva. E Brama è l'analogo di Dio Padre, cioè il creatore, Visnù è colui che sostiene l'universo in essere, e poi c'è Shiva, che è il distruttore, che lo porta alla fine. Ecco che qui sembrerebbe che ci fosse una concezione finita del tempo, cioè l'universo cresce, nasce cresce e finisce. Solo che lì in realtà c'è questa danza che si ripete. Shiva distrugge l'universo, ma poi questo universo rinasce. C'è questa idea, questa metafora, che l'universo è semplicemente il battito di ciglia di Visnù. Ed ecco che allora l'infinito ritorna in una maniera un po' diversa, che è l'idea dell'illimitato, del ciclico, del periodico, cioè il tempo circolare. L'universo nasce, cresce, si distrugge, ma poi rinasce e così via, e allora si entra in circolo. Mentre invece dal nostro punto di vista occidentale, nelle nostre religioni, c'è un inizio e una fine, ma una fine che sia definitiva. Dopo di che ci sarà l'eternità, ma è un altro tipo di eternità. Quindi effettivamente, a seconda del tipo di religione, ci sono concetti poi che arrivano nel pensiero filosofico e scientifico dell'infinito. Questo è interessante perché è la domanda che facevi Tu prima, cioè: qual è il legame religione e la scienza. Molto spesso le idee scientifiche nascono come miti, nascono come mitologia. In particolare una delle versioni della mitologia, per coloro che non credono, è proprio la religione. La religione presenta dei miti, un pensiero che è ancora mitologico, certamente non scientifico. Poi questi miti vengono in qualche modo utilizzati e trasformati dalla scienza. Credo che oggi, per esempio l'idea della nascita dell'universo, la creazione della Genesi, viene tradotta scientificamente nell'idea del big bang, questa grande esplosione con cui l'universo ha inizio. Quindi non è stupefacente che religioni che hanno concezioni diverse della divinità o dell'infinito, poi producano delle scienze, diciamo così, che hanno delle idee diverse, anche dal punto di vista dell'infinito.

STUDENTESSA: È possibile definire il concetto di infinito senza ricorrere ad un'eccezione negativa, quindi definendolo per ciò che è.

ODIFREDDI: Ma dunque, ovviamente la parola "infinito" contiene il negativo già agli inizi. Infinito appunto, come dicevamo prima, significa "non finito". Però oggi in matematica questo certamente è possibile. Abbiamo visto nel filmato - non so se ve ne siete accorti -, che in realtà si è data una definizione matematica dell'infinito. Naturalmente non l'avrete capita. Adesso cerchiamo di spiegarla meglio. L'idea è questa, viene da Galileo. Galileo è un altro di quelli che hanno avuto problemi come Giordano Bruno, quando hanno cercato di introdurre nella scienza idee che andassero contro la teologia. Ebbene Galileo ne I discorsi, nella sua ultima opera, scritta per l'appunto quando era, oggi diremmo agli arresti domiciliari, dopo la sentenza del Santo Uffizio, Galileo fa questo ragionamento. Dice: quanti sono i numeri interi? Lo chiedo a Voi, ma potrete immaginare, se siamo in una trasmissione che parla dell'infinito, i numeri interi sono infiniti: lo zero, uno due, tre, eccetera. Quanti sono i numeri pari, secondo Voi?

STUDENTI: Infiniti.

ODIFREDDI: Infiniti. Però ce ne sono certamente meno di quanti siano i numeri interi, perché di numeri pari ce ne sono uno ogni due. L'idea sarebbe che i numeri pari sono metà dei numeri interi. Eppure, tutti avete detto: i numeri pari sono anche loro infiniti. Galileo fu il primo a scoprire questo. Il fatto che a ogni numero corrisponde il suo doppio, quindi a zero corrisponde zero, a uno corrisponde due, a due corrisponde quattro, tre, sei, e così via, e che a ogni numero pari corrisponde la sua metà, nel caso di due uno, nel caso di quattro due, eccetera. Questo è quello che in matematica si chiama una "corrispondenza biunivoca", che alla Vostra età forse fa pensare più a sentimenti di natura diversa, però "corrispondenza biunivoca" significa: ogni numero intero ha il suo doppio, ogni numero pari ha la sua metà. Vedete che la corrispondenza poi è di quel genere lì. E questa fu una scoperta: il fatto che nell'infinito è possibile avere una parte, cioè per esempio i numeri pari, che hanno lo stesso numero di elementi del tutto. Questo oggi è stato rivoltato. Non è più un paradosso dell'infinito, come invece veniva presentato da Galileo, e da altri dopo di lui, bensì è diventato la definizione dell'infinito. Ed è una definizione positiva, cioè non è più negativa. Che cos'è infinito? Infinito è qualche cosa tale che c'è una sua parte, che ha in realtà lo stesso numero di elementi del tutto. E come si fa però a sapere qual'è il numero? Sono tutte e due infiniti. Il numero si fa in questo modo: cioè si mette in corrispondenza ciascun elemento della parte con un elemento del tutto e viceversa. E quando questa "corrispondenza biunivoca" esiste, si dice che i numeri sono uguali. E se c'è una parte che ha lo stesso numero di elementi del tutto, questo si dice che allora è l'infinito. Ed è la definizione che ancora oggi viene usata in matematica.

STUDENTESSA: Ma quindi che senso ha parlare di infinitesimo e infinito? Oppure quali sono le differenze che ci sono tra infinitamente piccolo e infinitamente grande?

ODIFREDDI: Matematicamente si potrebbe dire così: se Tu prendi un numero intero - due, tre, quattro, eccetera - questo man mano che cresce va verso l'infinito. Ma se Tu dividi uno per questi numeri - un mezzo, un terzo, un quarto, eccetera - man mano che il denominatore cresce la frazione diminuisce. Allora il rapporto fra l'infinito e l'infinitesimo è che l'infinito è una quantità che cresce e, quando questa quantità cresce se tu dividi uno per quella quantità il risultato diminuisce. Ora però questo sempre nell'ambito dei numeri interi o razionali: cioè due, tre, quattro, un mezzo, un terzo, un quarto. Questi sono numeri ancora finiti, in qualche senso. L'infinito sarebbe in qualche modo il limite a cui tu arrivi quando continui a far crescere qualche cosa, e l'infinitesimo è qualche cosa a cui tu arrivi quando continui a far decrescere questa cosa. Però è una concezione talmente paradossale che per lungo tempo fu considerata addirittura contraddittoria. Newton e Leibniz, di cui forse avrete almeno sentito parlare, sono i due grandi matematici del Seicento e del Settecento, - coloro che inventarono l'analisi matematica e il calcolo infinitesimale - ebbene questi due signori basarono il calcolo infinitesimale, come dice la parola, sugli infinitesimi. Pensavano che questi infinitesimi esistessero, che ci fossero delle quantità che fossero diverse da zero, ma più piccole di un mezzo, di un terzo, di un quarto, eccetera. E naturalmente ci fu subito qualcuno che si ribellò. Un vescovo, che si chiamava Berkeley scrisse un libro, con un titolo tra l'altro lunghissimo, che non stava certamente sulla costa del libro, e il titolo era ovviamente una reazione dell'arcivescovo al fatto che questi signori, Leibniz e Newton, erano tanto schizzinosi, quando si trattava di parlare di concetti teologici - la divinità, eccetera - poi però quando parlavano di matematica usavano questi concetti abbastanza strani, come l'infinitesimo e l'infinito. Quindi il vescovo li bacchettò duramente. Ed effettivamente i matematici in qualche modo rimossero questi concetti, tipo l'infinitesimo, e così via, e anche l'infinito. È solo nella modernità, dall'Ottocento in avanti, che queste cose sono entrate a far parte ormai del nostro bagaglio. Gli infiniti molto prima. Sembra molto più facile pensare all'infinito che non all'infinitesimo. Però mentre gli infiniti entrarono appunto nella storia con Cantor, di cui Vi ho parlato prima, quello che andò al Santo Uffizio - quindi verso la fine dell'Ottocento, gli infinitesimi sono stati riabilitati, se così vogliamo dire, in termini politici, soltanto molto recentemente, nel 1960. Sono solo quarant'anni che i matematici hanno capito come usare gli infinitesimi in una maniera che non fosse contraddittoria. Però oggi possiamo dire effettivamente che ci sono delle teorie, dei concetti che permettono di parlare sia dell'infinito che dell'infinitesimo in maniera attuale, come se queste cose esistessero veramente. Certo questo con la vita quotidiana ha poco a che fare, intendiamoci, però per lo meno dal punto di vista matematico ci permette di fare calcoli in maniera molto semplificata.

STUDENTESSA: Come facciamo, noi che abbiamo una mente finita, a pensare all'infinito?

ODIFREDDI: Questa è, ovviamente, una delle obiezioni che venivano fatte, per esempio, da Pascal e anche da Cartesio. Era anzi una delle dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Il fatto di sapere o di credere che la nostra mente sia finita è che però, nonostante il fatto che sia finita, abbia la possibilità di pensare l'infinito. E allora sia Cartesio che Pascal consideravano questo come la dimostrazione del fatto che ci fosse qualcosa di fuori e che questo qualche cosa esterno riflettesse la sua infinità in questa nozione, che ci veniva messa dentro la zucca, per così dire. Oggi ovviamente non pensiamo più questo. Come dicevo prima, una volta l'infinito era considerato come un limite del pensiero. Oggi invece viene considerato - se posso usare uno di questi trucchi dialettici che usano spesso i filosofi - come "un pensiero del limite". L'infinito noi lo pensiamo, nonostante la nostra mente sia finita, perché possiamo immaginarci quali sono i limiti, e costruire una teoria su quali sono i nostri limiti. L'idea è che effettivamente si possa pensare ai nostri limiti e che di questi limiti si possa fare una teoria. Non so se si è capito, ma comunque questa è la sostanza.

STUDENTESSA: In che modo l'arte contemporanea e la letteratura hanno cercato di rappresentare l'idea di infinito e come questa ha influenzato il nostro pensiero?

ODIFREDDI: L'infinito è usato moltissimo in letteratura, a volte anche in modi un pochettino strani. Non si vedono, sono nascosti. Ma pensate al paradosso di Zenone. Forse molti di Voi lo conoscono, cioè Achille e la tartaruga: Achille che dà un vantaggio, dieci metri alla tartaruga, e poi dice: "Corri pure che adesso ti prendo subito " e poi si scopre, nel paradosso, che in realtà non la potrà mai più raggiungere, perché nel momento in cui Achille percorre dieci metri che ha dato di vantaggio alla tartaruga, la tartaruga si è mossa di un metro, lui percorre il metro, lei si è mossa di dieci centimetri, lui percorre dieci centimetri, lei si è mossa di un millimetro, e così via. Questo è un paradosso, ovviamente. Ma questo paradosso è basato sul concetto di infinito. È paradossale proprio perché c'è questa idea che lo spazio venga diviso fino all'infinito, e che quindi non si possa percorrere in un tempo finito una infinità di passi. Cosa c'entra questo con la letteratura? Beh, moltissima letteratura si è basata ad esempio sul paradosso dell'infinito. Uno dei grandi romanzi del Settecento che è Tristam Shandy non so se lo avete mai letto, che, tra l'altro, inizia in una maniera bellissima, è l'autobiografia di questo signore, Tristam Shandy. E l'autobiografia comincia ovviamente secondo Voi quando? Quando deve cominciare un'autobiografia?

STUDENTI: Dalla nascita.

ODIFREDDI: In realtà Voi siete esistiti per un certo periodo prima della nascita, dal momento del concepimento. E quindi la prima scena di questo romanzo meraviglioso del Settecento inglese, è la scena in cui papà e mamma fanno delle cose che non si possono dire in televisione. Tra l'altro è una scena molto interessante, perché mentre stanno facendo queste cose, la mamma dice al papà: "Hai caricato l'orologio?" e il papà dice: "Ma insomma questo forse non è il momento più adatto per parlare dell'orologio. Questo povero bambino che nascerà, perché abbiamo fatto queste cose avrà dei problemi per tutta la vita perché noi ci siamo distratti nel momento cruciale, parlando dell'orologio". Ebbene Voi capite che se un'autobiografia incomincia in questo modo, prima che si arrivi al dunque passerà un po' di tempo. Dopo quattro volumi di questa autobiografia, lo scrittore scopre di avere impiegato due anni della propria vita per scrivere quattro volumi e per raccontare i primi due giorni della propria vita. Ed ecco che allora dice: "Ma nel frattempo son passati due anni, però. Il che vuol dire che io continuo a scrivere al ritmo di due volumi all'anno e ogni volta faccio un giorno in più e però è passato un altro anno. Questo è il paradosso di Zenone al contrario. Il Tristam Shandy scopre che non è possibile scrivere la propria biografia in maniera dettagliata, perché questo ci porterebbe per l'appunto verso l'infinito. Un altro uso che invece forse tutti conoscete è Kafka. Avrete letto: Il castello, per esempio. In realtà i romanzi di Kafka sono tutti una rappresentazione dell'infinito, al punto che, se Vi accorgete, sono tutti incompiuti. Come mai sono incompiuti? Perché l'idea che Kafka ci vuole dare è che, quando ci si scontra con gli ostacoli della burocrazia non si finisce mai. Voi siete troppo giovani e non lo sapete, ma noi che abbiamo un po' di anni in più lo sappiamo benissimo: gli ostacoli che la burocrazia ci frappone sono infiniti. Allora cosa può fare uno scrittore? Può soltanto suggerire quest'idea di infinità. Racconta tre, quattro, cinque episodi, ma poi è esattamente come nel caso di Achille e la tartaruga. Io non sono stato a dirVi: "E poi dopo un millimetro percorre un decimo di millimetro e Achille gli corre dietro, e poi fa un centesimo di millimetro" faccio i puntini e dico "e così via". Gli ostacoli sono infiniti e non si arriverà mai alla fine. Quindi questo è un altro dei modi in cui l'infinito arriva nella letteratura. Borges, non so se lo conoscete, è uno scrittore moderno, morto quindici anni fa, uno scrittore di lingua spagnola, argentino. Ebbene moltissimi dei suoi racconti sono basati proprio su questa idea di infinito. Lui stesso un giorno ha detto che gli sarebbe piaciuto scrivere la storia dell'infinito e questa storia avrebbe avuto tra i suoi protagonisti molti di quelli che abbiamo citato oggi: Giordano Bruno, Cusano, Cantor e così via. Molti dei suoi racconti sono per l'appunto basati su questo concetto dell'infinito. Quindi per lo meno in letteratura l'infinito è qualche cosa che viene suggerito da tutti questi romanzi che ci raccontano d'infiniti ostacoli nella nostra vita o infiniti episodi della nostra vita. Nell'arte è chiaramente più difficile rappresentare l'infinito direttamente, però c'è qualcuno che ci ha provato. Escher, per esempio, un grafico molto bravo, ha fatto delle immagini, in cui una figura, si ripete più piccola intorno, poi più piccola ancora intorno ed è tutta iscritta in un quadrato e chiaramente questo è un tentativo di rappresentare il paradosso di Zenone sotto forma pittorica, cioè non si arriverà mai al bordo perché ogni volta le figure sono più piccole, ma l'idea è che non si annullano mai. Oppure un altro modo di rappresentare l'infinito nell'arte è quello attraverso l'illimitato. Abbiamo parlato prima del tempo ciclico, che è anche quella una versione del tempo infinito. Ebbene in arte si può rappresentare qualcosa di ciclico. Ad esempio, il nastro di Moebius, non so se lo conoscete. Se Voi prendete un pezzo di carta e lo incollate, quello che ottenete è un cilindro. Questo cilindro ha un dentro e un fuori, ovviamente. Se Voi questo pezzo di carta lungo lo prendete e invece di incollarlo così gli fate fare mezzo giro soltanto, ecco che ottenete una striscia che è una specie di giostra e si chiama nastro di Moebius. E la cosa interessante è che questo nastro ha soltanto una faccia, cioè ha un dentro e, sembrerebbe, un fuori. Però se Voi continuate a percorrerlo scoprite che non c'è differenza tra il dentro e il fuori. Ha solo una faccia. Questo è un modo di rappresentare l'infinito ed è stato usato veramente tanto, per esempio dagli scultori. La letteratura, pittura, la musica, per esempio, rappresenta l'infinito di nuovo con questa ciclicità. Ci sono questi canoni perpetui, ad esempio, nella musica barocca, che incominciano in un certo modo e arrivano alla fine nello stesso modo, cioè si possono in qualche modo incollare e si possono suonare tante volte quante si vogliono di seguito. Questo è un modo di rappresentare l'infinito con la musica. Quindi, anche senza accorgercene, a volte ci sono nelle rappresentazioni artistiche rappresentazioni dell'infinito.

STUDENTESSA: Spostando l'attenzione invece su un piano temporale, è possibile parlare di tempo senza inizio e quindi senza fine?

ODIFREDDI: Dunque questo dipende dal punto di vista. Ho accennato prima al big bang. Oggi il big bang viene considerato, nella maggior parte delle interpretazioni, come il momento in cui non soltanto nasce l'universo, cioè la materia, ma addirittura nasce lo spazio e il tempo. Allora se il tempo nasce col big bang è chiaro che non ha senso chiedersi che cosa è successo prima, perché è nato in quel momento. Però non tutti sono d'accordo su questo fatto. Qualcuno sostiene che il big bang è solo l'esplosione iniziale di qualche cosa che in realtà c'era già prima. E una delle possibilità è per l'appunto questa: che il tempo sia infinito, all'indietro e in avanti, cioè che prima del big bang ci sia stato qualche cosa. Qualcuno sostiene, andando a rivedere Giordano Bruno, che il big bang sia solo una delle possibili esplosioni di universi che ci sono al mondo e che in realtà queste esplosioni siano tante, siano molteplici, siano in realtà addirittura infinite, e che il nostro universo sia come una bolla in una schiuma. Si parla spesso delle religioni orientali, una delle immagini delle religioni orientali per l'infinito e l'illimitato è l'oceano. Noi siamo semplicemente delle increspature sull'oceano, come delle piccole onde, ma la vera realtà è l'oceano che ci sta sotto. Ebbene, addirittura nella fisica, oggi si pensa che questa possa essere un'immagine veritiera di ciò che è il nostro universo. Cioè il nostro universo sarebbe solo una bolla di una enorme schiuma in cui ci sono tante, tantissime, probabilmente infinite, altre bolle, ciascuna delle quali è un universo a se stante, che non è più quello che diceva Giordano Bruno, cioè infiniti mondi nel senso di infiniti sistemi solari, cioè tante stelle tanti pianeti in questo universo, ma sono infiniti mondi nel senso letterale, cioè infiniti universi, nei quali magari possono valere altre leggi della fisica, in cui succedono cose che ovviamente non possiamo sapere. Noi siamo confinati forse in questo universo, però possiamo sognare o temere - non si sa se sia un sogno o un incubo - che fuori di questo universo ce ne siano infiniti altri, magari diversi, altri simili al nostro. Quindi questa è un'idea in cui di nuovo l'infinito interviene, sia dal punto di vista spazio-temporale, come chiedevi Tu, che dal punto di vista proprio di proliferazione dell'universo.

STUDENTESSA: Le scienze naturali o applicate hanno bisogno di utilizzare il concetto di infinito?

ODIFREDDI: Ne hanno bisogno in questo senso, molto preciso, che se Tu usi soltanto i numeri razionali, che immagino conoscerete, Beh, i numeri razionali ovviamente sono l'analogo del finito nella matematica, cioè hanno uno sviluppo decimale finito, o, se non è finito, è periodico, quindi in qualche modo si riesce a descrivere finitamente. Però sapete anche che quasi tutti i numeri reali sono irrazionali. La scoperta del primo irrazionale fu quella dei pitagorici: radice di due. La radice di due è irrazionale. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che, se noi vogliamo scrivere lo sviluppo decimale di radice di due, cioè scrivere radice di due come uno virgola quattro, uno e così via, dobbiamo andare fino all'infinito. Quindi ogni volta che Voi parlate, quando fate "analisi" - che hanno inventato Newton e Leibniz, a cui accennavamo prima - ogni volta che Voi parlate di numeri reali, in realtà state parlando di infinito per ciascun numero, eccetto per quei pochi che sono razionali, perché lo sviluppo decimale di questi numeri è infinito. Ed ecco che allora, poiché i numeri reali sono usati dovunque, non solo nella matematica, ma nella scienza, nelle applicazioni fisiche, chimiche, biologiche, eccetera, ogni volta che si usano i numeri reali, in realtà si sta usando l'infinito in maniera magari nascosta, però diretta. È vero che si può anche rivoltar la frittata, come sempre, e cioè dire che è vero che per esempio radice di due ha uno sviluppo infinito, però nelle applicazioni non si va oltre una certa cifra. Però il fatto di non andare oltre una certa cifra significa solo che ci fermiamo ad una certa approssimazione. Se noi vogliamo essere più precisi dovremmo andare oltre, più precisi ancora oltre e l'idea è che, se la precisione dovesse essere infinita, noi dovremmo arrivare fino alla fine. Quindi sì, nella scienza la risposta è: sì, nella scienza l'infinito viene usato ogni volta che si usano i numeri reali, cioè: sempre. E più di così ovviamente non si può.

STUDENTESSA: Al giorno d'oggi a che serve parlare di infinito? Crea problemi o li risolve?

ODIFREDDI: Anzi tutto ci ha permesso di venire qui, il che non è poco: abbiamo fatto una trasmissione. In realtà, come dicevo poco fa, questa è una soluzione di problemi. Cioè il fatto di poter parlare oggi di infinito in matematica significa poter fare, per esempio, un'analisi matematica, poter parlare di numeri reali senza paradosso e sapendo di che cosa si parla. È chiaro che ogni volta che si scopre qualche cosa c'è sempre un problema. C'è un'immagine che è una metafora che paragona la conoscenza a un'isola. E l'idea è: man mano che l'isola della conoscenza si allarga, ovviamente s'allarga anche il bordo, che sarebbe il confine con l'incognito, cioè la nostra ignoranza. Quindi, potrebbe sembrare che non vale la pena di aumentar la propria conoscenza, perché intanto man mano che aumentiamo la conoscenza, cresce nello stesso modo l'ignoranza, la nostra limitatezza. Però in realtà non è così, perché - proprio perché siete un liceo scientifico potete capire quello che sto per dire -, cioè, mentre cresce l'isola della conoscenza, cresce la sua area, mentre invece il bordo è in realtà soltanto una lunghezza. E allora la conoscenza cresce in maniera praticamente quadratica, mentre invece il bordo, l'ignoranza, cresce in maniera lineare. Quindi la conoscenza è molto meglio che l'ignoranza. Quindi, in qualche modo, sapere dell'infinito, conoscerlo, certo provoca dei problemi, perché la matematica poi li deve risolvere e c'è tutta una teoria che cerca di risolver questo, però cresce anche la nostra conoscenza e si può applicare questa conoscenza alla fisica, alla chimica, ma non soltanto a quello, anche semplicemente al pensiero puro. E quindi, secondo me, c'è certamente qualche cosa di positivo.

concetto d’infinito nell’antica Grecia

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Da sempre l’uomo cerca il senso della sua esistenza, ma furono i filosofi della scuola di Mileto,
il primo è Talete, definito da Aristotele come il primo fisiologo cioè colui che elabora una
dottrina della physis, ad interrogarsi su che cosa fosse il tutto, su come si fosse formato questo
tutto e sul perché e come si è formato questo tutto. Tali pensatori furono i primi che senza
ricorrere al mito, attraverso la pura osservazione della realtà e l’elaborazione di conoscenze
provenienti dall’esperienza, hanno cercato di formulare il mistero dell’essere, che sarà alla base
di tutta la filosofia.
I primi filosofi hanno sviluppato attraverso l’uso del logos una cosmogonia, una riflessione
filosofica partendo da un’indagine sull’universo e precisamente su cosa ci fosse prima di questo.
Ecco i tentativi di risposta.
1. Talete individua l’acqua come principio primo.
2. Anassimandro invece la ritiena come qualcosa di derivato e individua l’arché
nell’infinito, ossia in una natura in-finita e in-definita, da cui provengono tutte le cose.
Qui compare il termine a-peiron, ossia dell’infinito come qualcosa che è privo di limiti
sia esterni (e quindi quantitativamente infinito) sia interni (e quindi qualitativamente
indeterminato). Naturalmente come è infinito il principio così sono infiniti i mondi.
3. Anassimene individua l’aria come principio primo che ben si presta ai processi di
trasformazione e variazione per far nascere le cose
Da questi brevi accenni notiamo come l’esistenza pur generata da un principio primo è tale per una
sorta di passaggi da uno stato all’altro delle cose, e sono i processi di trasformazione che generano
le cose. Fu Eraclito stesso a parlare della realtà naturale come panta rhei, a percepirla non come
qualcosa di immobile ma in un continuo movimento, e proprio per questo sceglie il fuoco come
principio primo per le sue peculiarità di mutamento e di trasformazione delle cose.
1. Con i pitagorici si ha una nuova visione dell’infinito con una accezione negativa, visto
come l’illimitato, l’indefinito, l’imperfetto. Infatti i pitagorici scoprono in tutte le cose una
regolarità matematica, numerica, necessaria per conoscere e per limitare l’illimitato
istituendo un ordine. L’ infinito è il vuto che circonda il tutto e il mondo nasce attraverso la
scelta di un Uno che inglobandolo in sé lo determina. Nascono qui i concetti di numero che
se da una parte sono illimitati dall’altra hanno un aspetto limitante. I numeri pari meno
perfetti quelli dispari più perfetti.
2. Ora però con la filosofia del 600/500 a.C. non ci si è più limitati ad una semplice
conoscenza del mondo cosmogonico, me si è intensificata l’indagine su ciò che c’era prima
del tutto, esiste il nulla? Comincia con Parmenide una vera e propria ontologia, metafisica
dell’essere. Attraverso l’individuazione del principio di identità e di non contraddizione che
affermano l’impossibilità di una coesistenza dell’essere col non essere, afferma le
caratteristiche dell’essere: è da sempre, è eterno non ha inizio né fine; è immobile perché il
movimento presuppone il passaggio da un non essere all’essere; è finito perché in sé
compiuto e perfetto; è Uno anche se pare diverso perché è sempre identico a se stesso. Per
cui notiamo come il pensiero dell’infinito assume sempre di più una connotazione negativa,
come l’imperfetto, un continuo passaggio dal non essere all’essere. La percezione
dell’infinito è dovuta alla fallacia dei nostri sensi. Sarà Zenone a difendere con i sui
paradossi le tesi di Parmenide. Melisso invece sosterrà che l’essere deve essere infinito,
senza limiti di spazio e tempo perché altrimenti vorrebbe dire che confinerebbe con un nulla
che è impossibile.
3. Anassagora per spiegare l’inesistenza del nulla e come tutto è sempre nell’essere, pur
sperimentando il divenire delle cose, si serve dell’immagine delle omeomorie, gli elementi
da cui derivano le cose, che sono infiniti di numero e quantità (estendibili e divisibili
all’infinito) e quesi molti sono l’uno.
4. Gli atomisti riconfermando l’impossibilità del non essere , parleranno di essere e non essere
come un’aggregazione e disgregazione continua degli atomi, principi primi indivisibili.
E’ con Socrate che ci avviciniamo al concetto d’infinito più vicino al nostro senso comune, come
l’incapacità della ragione umana di cogliere l’essere nella sua totalità, perché limitato: «so di non
sapere». Infinito come eterno. Sarà proprio Platone a risolvere il problema di ciò che è l’essere da
come ci appare, a risolvere cioè le tesi opposte di Eraclito e Parmenide dividendo nettamente la
conoscenza della realtà in due piani: la realtà sensibile, fugace, mutevole, imperfetta, e la realtà
soprasensibile che è da sempre ed è immutabile. Per Platone il non essere non solo non esiste come
negazione dell’essere, ma viene però usato con una connotazione diversa, per esprimere la diversità
di una cosa rispetto all’altra. Le idee sono una delimitazione di un il limite, in quanto è dalla
cooperazione dell’uno con un secondo principio detto della molteplicità (Diade di grande-piccolo)
che si generano le cose.
Con Aristotele la spiegazione fra ciò che appare hai sensi e fra ciò che conosciamo con la ragione
raggiungerà il culmine della chiarezza con i concetti di atto e potenza. L’infinito in atto non esiste,
mentre esiste in potenza. A ciò è arrivato ragionando anche sul concetto di tempo che è ciò che ci
permette di cogliere il movimento attraverso un prima e un poi. Il tempo è infinito potenzialmente
perché non può esistere tutto insieme, ed è infinito pure lo spazio potenzialmente, ribadendo perciò
il valore di infinito e finito dei pitagorici. Notiamo però che Aristotele non ha colto l’idea
dell’infinito come ciò che chiamiamo immateriale, ma per lui apparteneva alla categoria della
quantità e perciò del sensibile.
Attraverso questo excursus notiamo come l’idea che noi abbiamo dell’infinito è profondamente
diversa da quella greca per la quale “l’infinito non è ciò al di fuori di cui non c’è nulla, ma ciò al di
fuori di cui c’è sempre qualcosa” (Aristotele, Fisica, III, 6, 207 ). Con una tale concezione
dell’infinito Aristotele arriva ad affermare l’esistenza di Dio come causa incausata, atto puro,
motore immobile.

mercoledì 21 maggio 2008

"La verità nella pittura" Dissertazione nell’ambito del corso “Arte e verità”Open Universiteit – Olanda

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
Introduzione
La mia passione per la pittura si indirizza maggiormente al Medioevo e questa è la ragione per cui ho scelto il quadro «La deposizione dalla croce» di Rogier van der Weyden. Mentre nel corso « Arte e verità » si parte dal pensiero dell’Idealismo e del Simbolismo del XIX secolo, personalmente credo che in quest’opera medioevale si possa piuttosto rilevare essenzialmente un valore universale. La severità stilistica medioevale è una verità che suscita il mio interesse perché, secondo me, l’Assoluto viene reso visibile. Gli artisti medioevali potevano esprimere questo « di natura » poiché la frattura tra l’uomo e il mistero non si era ancora creata, mentre nei Simbolisti ciò era evidente. La comprensione nell’essenza della vita e l’esistenza umana si è perduta, inquanto l’intelletto si è posto al di sopra del vitale, e io penso che l’unità perduta si possa riconquistare mediante l’arte e nell’arte. Gli uomini cercano di porsi al di sopra della loro fragilità e della loro natura mortale attraverso lo sviluppo e la trasmissione di quello che rende « bella » l’esistenza per cui vale la pena di viverla. Mediante la devozione l’essere mortale può tramandare qualcosa di se stesso e in tal modo sopravvivere nel pensiero degli altri. Anche un artista può decifrare il mondo e tentare di riconquistare il Paradiso perduto. Voglio perciò lasciarmi ispirare da grandi opere nelle quali si vedono le tracce che conducono all’ « Altro ». Il quadro « La deposizione dalla croce » di Rogier van der Weyden mostra l’aspetto etico e spirituale. Questo denota il ruolo di ricerca della verità che l’opera esprime. Il modo di dipingere in strati di colore lascia vedere la tenerezza e la fragilità che è derivata da un attento metodo di lavoro. Da ciò si origina il fissaggio delle figure nel loro dinamismo. Questa integrità e purezza provocano una reazione anagogica che conduce al contatto con l’Altro. Al tempo di Rogier van der Weyden l’arte aveva un altro significato rispetto al significato che l’arte ha per lo spettatore moderno. Generalmente l’arte veniva usata per imprimere maggior forza alla preghiera. Il fatto che tal genere di rappresentazioni vengano ancor oggi tanto apprezzate, deriva dalla presentazione e dal linguaggio che esse esprimono.
Descrizione concisa
“La deposizione dalla croce” di Rogier van der Weyden è la parte centrale di un trittico i cui pannelli laterali sono andati perduti. Il quadro misura due metri e sessanta centimetri di larghezza e due metri e venti centimetri di lunghezza, è di forma rettangolare ed al centro è interrotto da un riquadro. Si vede Cristo che viene deposto dalla croce mentre viene circondato da Maria, Giuseppe di Arimatea, Nicodemo, Giovanni, Maria Maddalena e altre figure. L’insieme appare compreso in uno spazio deforme poco profondo che sembra uno sfodoscena, dove nel riquadro la scala e la croce interrompono l’angolo destro. La composizione risulta bilanciata poiché tutta l’attenzione si concentra sull’evento drammatico che viene incorniciato da figure i cui contorni sono stati dipinti in modo chiaro. I tratti di pennello sono appena visibili e la diffusione della luce è regolare. I colori sono distribuiti in modo equilibrato. Anche dalla disposizione delle figure, da cui deriva la regolarità nel colore dei volti, dipende l’equilibrio della rappresentazione. Il rosso, il nero, e il bianco appaiono regolarmente sulla superfice. Il blu rimane pressoché limitato al colore del manto di Maria. Anche nelle pieghe di tutte le vesti il pittore ha realizzato una grande armonia. La nicchia dorata fa si che la chiarezza aumenti e che tutti i colori risaltino meglio. Le figure che sono state modellate come sculture mostrano una grande plasticità che forma un contrasto con il piatto e spigoloso sfondoscena. L’unità della rappresentazione viene raggiunta dalla concentrazione delle figure nella composizione e dal fluido e dinamico andamento delle linee.
Interpretazione
Questo dipinto medioevale, che viene anche denominato « Il pianto », è una rappresentazione pittorica in cui il dinamismo delle figure è stato fissato nell’immagine che raffigura una scena commovente. Oltre al racconto di sofferenza il dipinto riproduce anche delle emozioni umane. Ciò che viene mostrato è la compassione di Cristo per l’umanità e la partecipazione e la pietà di Maria e degli altri presenti per Cristo. Si tratta di una raffigurazione fedele con una composizione regolare che mostra una grande variazione di forme, colori e panneggi, luce ed ombra, plasticità e figure piatte. Mentre lo sfondo, semplice, ispira tranquillità e intimità, gli atteggiamenti drammatici, i volti e i gesti esprimono dolore. L’espressione tragica viene accentuata dal gioco delle incurvature e controincurvature come se fossero immagini riflesse. Anche la nudità del corpo di Cristo insieme alla tenera nudità delle mani e dei piedi forma un vistoso contrasto con le figure vestite. Le figure scultoree sono state fissate mentre erano in movimento. Questa fissazione genera staticità e una drammaticità teatrale. L’immaginario è stato espresso quasi letteralmente mediante lo scolpire con i colori sulla tavola. Il drammatico della scena viene rafforzato anche mediante l’uso di colori raggianti. Lo stesso effetto drammatico viene aumentato dall’intimità del gruppo di persone disposto intorno alla figura del Cristo. Un grande senso di solidarietà fra i componenti del gruppo di persone si desume dalla posizione delle mani di Gesù e di Maria che quasi si toccano, mentre irradiano un forte senso di tenerezza. La stessa tenerezza che si nota nei volti delle figuree e nel corpo di Cristo. La penetrazione in più profondi strati del cosciente viene, secondo me, raffigurata mediante un modo lento nel dipingere che è visibile soprattutto nei colori che sono stati posti in strati. Su quest’argomento tratterò più avanti. Il quadro preso in esame raffigura un episodio molto significativo il quale, nonostante l’espressione di tristezza delle figure, il confluire delle emozioni e l’intensità del dolore, suscita una forte tensione senza sentimentalismo o teatralità. L’emozione è diretta sul corpo di Cristo morto e su sua madre. L’atteggiamento di Maria è una ripetizione dell’atteggiamento di suo figlio, il che mostra, ancora una volta, la solidarietà. Il mantello blu di Maria è un riferimento simbolico al celeste. Il teschio e le ossa collocati in basso nel quadro costituiscono un riferimento al Golgota.
La ricerca della verità
Fin dal primo capitolo di questo corso ho riconosciuto il mio sentimento moderno nella descrizione del primo Romanticismo tedesco e inglese. Ho avvertito la stessa perdita di unità e la stessa necessità di recupero del rapporto fra l’uomo e il mistero. Ho provato lo stesso senso di alienazione di una realtà spirituale. Intendo dimostrare la ricerca della verità originaria e la necessità di riispirazione prendendo in considerazionec la pittura e in particolare l’opera « La deposizione dalla croce » di Rogier van der Weyden. A me pare che il concetto di “originale” nell’arte abbia perso il suo significato. Ritengo che l’originale non è sempre originalità, ossia ciò che si intende come superamento di un limite. A volte l’idea concepita viene intesa come fonte primaria o, come per i Simbolisti, un segno concreto. A volte un’opera d’arte viene creata prendendo spunto da un atteggiamento critico nell’ambito della società. Ma non è il primitivo e il naive la base per qualsiasi creazione? Io penso che il mistero si possa ritrovare dal profondo, da una pulsione emotiva. La ricerca dell’essenza è collegata alla religione e a idee e allo sforzo di contemplazione e di ravvedimento. In Rogier van der Weyden avverto l’effetto duraturo, la presa di distanza dal tempo e dal luogo e l’espressione dell’Indicibile. Le verità originarie, che fondamentalmente non contengono le nostre umane limitazioni, vengono evocate mentre nuovi significati vengono carpiti all’opera d’arte. Può l’arte dare un contributo per la rivelazione dell’essenza dell’esistenza e della natura mortale dell’uomo? Rogier van der Weyde ha ricercato la bellezza, il che comprende anche la ricerca della conoscenza del supremo, del divino e del nascosto. Secondo Kant la bellezza è un’esperienza estetica che presenta due aspetti: in primo luogo la bellezza che si origina dall’interazione fra intelletto e contemplazione, e in secondo luogo l’esperienza del supremo che si origina quando la rappresentazione della contemplazione si appella alla ragione. Nell’esperienza del supremo l’uomo percepisce se stesso come unità del naturale e del trascendentale.
Io penso che osservare l’arte sia qualcosa di più che il semplice godimento estetico.Il profondo e l’essenza sono la fonte di vita a cui l’opera d’arte deve la sua origine. Un sentimento primitivo con il quale l’artista tenta di perseguire il bene. Un’opera d’arte è il prodotto della cultura ad essa contemporanea che è derivata da un ideale comune e da un modo di espressione collettiva. Questo mi fa capire il metodo artigianale adoperato dall’artista, metodo in cui nulla è stato lasciato al caso. Anche la materia ha le sue esigenze e l’artista deve pertanto mostrare rispetto e non sentirsi al di sopra di essa. La padronanza del mestiere e la paziente professionalità insieme a una tecnica ponderata consentono una chiara visione della realtà. Tutto questo riconosco ne « La deposizione dalla croce » di Rogier van der Weyden: un attaccamento al soggetto artistico, un’unione religiosa. Un’altra ispirazione non avrebbe potuto giustificare l’ispirazione interiore del pittore. Con mezzi pittorici puri l’artista ha confermato la sua personalità. Conta solo quello che l’artista stesso ha da dire, ossia un mondo vissuto e un’unione emotiva con l’arte del dipingere. Il laborioso processo creativo non è visibile. La penetrazione negli strati profondi del cosciente viene raggiunta mediante una tecnica pittorica lenta e una profondità psicologica che è visibile soprattutto nei colori a strati i quali sembrano strati emotivi. Le emozioni sono concretamente visibili nelle espressioni dei volti e negli atteggiamenti. L’oculato metodo di pittura viene espresso anche nelle figure immobili, momenti coagulati che sono stati costruiti con cura mediante strati sottili di colore per cui esse mostrano tenerezza e fragilità. Con questa tecnica ogni dettaglio assume una relazione con il significato del quadro. È attraverso la devozione dell’artista che si può creare la fissazione delle immagini che, secondo il mio punto di vista, è necessaria affinché un quadro continui nel tempo ad affascinare. La maggior forza de « La deposizione dalla croce » consiste nell’introspettiva della psiche umana e nella ricerca dell’unione e dell’armonia fra gli esseri umani. Ciò viene espresso nel modo di operare nella forma, nel colore e nella plasticità. Il realismo figurativo deve conservare il legame con la realtà affinchè esso possa, a mio avviso, essere compreso da tutti. Un soggetto di carattere sociale o religioso da significato e giustifica l’opera d’arte. Il soggetto detta, ovvero suggerisce allo spettatore un indirizzo di pensiero. « La deposizione dalla croce » è, e rimane, una fonte che ci da un alibi, ossia un pretesto per una rappresentazione che ha significato per ognuno e che offre all’artista la possibilità di ritrarre il doppio significato che è una caratteristica dell’arte figurativa. Il subconscio deve venire in superficie attraverso la coscienza e la ragione.

Nel corso vien detto che l’artista, come intermediario, ha la capacità di mostrare nell’intimo il subcosciente e di restituire al quotidiano il suo mistero e di cogliere in esso la manifestazione del divino. « La deposizione dalla croce » di Rogier van der Weyden lo considero come un dipinto con un effetto epifanico. Con mezzi pittorici puri viene espresso qualcosa. L’immaginazione creativa mi rende cosciente dell’estraniazione che viene visualizzata attraverso la collocazione della scena al centro della predella e dalle figure pietrificate. Nella scena ha luogo una rivelazione che recupera l’autentica unità fra l’uomo e il mistero: la rivelazione si riattiva sotto forma di un’improvvisa apparizione di una divinità che subito scompare. Il quotidiano recupera così, per un po’, il suo mistero, talché l’unità della creazione si può scorgere in un attimo. Secondo me lo spettatore deve poter trovare la via verso il suo intimo e la propria immaginazione creativa alla quale lo spettatore deve rivolgersi per vivere l’esperienza della manifestazione del divino. È questa un’esperienza estetica che ha come effetto l’anagogia che conduce l’uomo al di sopra del dominio della percezione empirica della realtà verso il trascendente. Nell’esperienza trascendente l’uomo ha l’intuizione che diventa poi capacità di comprensione nell’individuo stesso, come un incontro con l’autentico, il più vero. La ricerca del divino e della verità richiede una certa armonia fra il pensiero e la realtà. Pertanto è necessario il distacco dalla realtà e bisogna vincere il proprio io mentre si cerca il vuoto totale nel pensiero e nel campo dell’esperienza. Tale operazione è necessaria al fine di poter raggiungere uno stato di umiltà e semplicità che da altresì la possibilità all’intimo di agire. Nel dipinto di Rogier van der Weyden riscontro una bellezza che porta la mia anima più vicina al divino. Da questo deriva purezza, chiarezza, semplicità, tranquillità e ricchezza interiore, tutte cose che hanno un effetto consolatorio. In questo tipo di esperienza i colori hanno una grande forza espressiva. Attraverso la visione dell’essenza, che si basa sull’esperienza della realtà quotidiana, si genera stupore, il quale, a sua volta, cerca il contatto con il desiderio che tende all’Altro. Il fatto che l’Altro sia irraggiungibile ci è chiaro, ma la ricerca della Verità continua a dare un senso alla vita e al nostro lavoro. Attraverso la ricerca all’interno della nostra esperienza umana e nel coinvolgimento di tutto quello che non può essere escluso dall’esistenza, nasce il pensiero metafisico. Questo pensiero lo definisco come un modo di pensare artigianale e un modo di affrontare tutto con grande attenzione e cura, il che consente la percezione delle verità spirituali. Preferibilmente ricerco la verità nel realismo figurativo e in quello che ad esso si riferisce. Un realismo trasformato nella pittura è liberatorio poiché questo rompe la realtà costretta nel suo limite. Il realismo figurativo è a tutti comprensibile, è universale, sicché anche il non credente può emozionarsi. Io credo che questo succeda inquanto dietro la realtà quotidiana si trova il metafisico, l’Altro che percepisce il bene morale. Così pure dietro la realtà si nasconde il bene che noi desideriamo. Il visivo riflette ciò che è morale. Osservare l’arte secondo me vuol dire cercare il Vero, il buono e il bello, come nel pregare o nel meditare. Nell’opera di Rogier van der Weyden si riconosce un atteggiamento di particolare attenzione da parte dell’artista che in tal modo ci offre la possibilità di percepire la realtà. « La deposizione dalla croce » non è stato generato da una tensione muscolare ma da uno spirito fecondo ispirato da un atteggiamento di umiltà. In questo il pittore ha atteso che dal suo genio venisse in luce ciò che era allo stato latente. Socrate definisce tale processo « maieutica » o « ostetricia », ossia lo stimolo alla conoscenza, non di quella che viene trasmessa, bensì di quella conoscenza che si nasconde e che rimane racchiusa nell’uomo. Una paziente professionalità e una tecnica ponderata, insieme ad una chiara visione della realtà, riproducono quanto si è mostrato all’artista. La relazione che intercorre fra il pittore, il suo pennello, il colore e la tela, rappresenta un’esperienza quotidiana che, a mio parere, è importante per scoprire il rapporto fra l’uomo e l’Altro. La spontaneità del pittore, mediante gli strumenti usati, fa sì che il metafisico possa trasformare l’opera d’arte offrendo così nuove prospettive allo spettatore.
Postfazione
Ritengo che l’arte non sia mai una copia fedele della natura, infatti c’è sempre la personalità dell’artista che lascia la propria impronta nella sua creazione. L’arte è un’espressione dello spirito, è il senso, il credo e l’amore. Quello che ho constatato ne « La deposizione dalla croce » è arte che diventa catarsi, è una purificazione delle emozioni per raggiungere l’equilibrio; è arte che rende possibile la visione dell’Ente Supremo, il principio divino; è arte che irradia il credo nella bontà e nell’amore umano; è arte che va intesa come un luogo nel mondo accessibile a tutti; è arte che acquieta le emozioni; è arte che esprime un rinnovato collegamento di idee fondate su un ideale comune. Tutti questi aspetti trovo in questo dipinto medioevale e questa è stata la ragione per cui ho cercato la Verità ne « La deposizione dalla croce » di Rogier van der Weyden.
Riferimenti bibliografici
- S. Kemperdick (1999) Rogier van der Weyden, Meesters van der Lage Landen.
- Het Symbolisme in Europa, Katalogus Museum Boymans–van Beuningen, Rotterdam (1975-1976)
- Chrisje van der Heyden-Ronde, maart 2002