mercoledì 28 maggio 2008

Nella «contemplazione del muro» l'essenza dello Zen di Bodhidharma

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Nel precedente articolo La dottrina del « Duplice Accesso » e la teoria dei « Quattro Atti » fra i Sūtra e lo Zen (sempre sul sito di Arianna Editrice), abbiamo fatto cenno a un elemento caratteristico della dottrina Zen, così come esso venne formulato dal  maestro Bodhidharma, colui che introdusse l'insegnamento di Buddha dall'India alla Cina. Intendiamo alludere al concetto di pi-kuan, ossia quello svuotamento della mente da ogni pensiero, che è la via maestra per giungere al satori, la suprema illuminazione e la suprema beatitudine conseguenti all'aver fatto tabula rasa di tutto ciò che è attaccamento, mediante il pensiero e le passioni, alla sfera della realtà impermanente. Infatti, mentre la dottrina del « Duplice Accesso » e la teoria dei « Quattro Atti » sono componenti tipiche del buddhismo in quanto tale, quella de pi-kuan è una nozione specificamente Zen e in essa risiede un notevole elemento di novità rispetto ad altre dottrine buddhiste giunte in Cina e in Giappone da Occidente.
Abbiamo anche parlato di uno scritto, intitolato Meditazione sui quattro atti, che viene attributo a T'an lin (Donrin), nel quale viene anche esposta la funzione del concetto di pi-kuan, che equivale a "pacificazione dello spirito" e che Bodidharma sostituisce col termine cheh-kuan: composta da cheh, che significa "svegliarsi" o "essere illuminato" e kuan che indica il "percepire" o il "contemplare"; mentre pi equivale a "muro" o "precipizio". Ad ogni modo, il concetto è chiaro: l'illuminazione equivale a un risveglio e, al tempo stesso, al superamento del muro delle illusioni (il velo di Maya), raggiungendo così la perfetta pace interiore.
Ora, è proprio su questo concetto che desideriamo fermare la nostra attenzione.
Tao-hsuan, l'autore delle Biografie, nei suoi commenti sullo Zen considera la contemplazione del muro praticata nel Mahayana, ossia il Tai-ch'eng pi-kuan di Bodhidharma, come la parte più significativa e originale della dottrina introdotta da quest'ultimo in Cina. Per tale motivo Bodhidharma fu spesso chiamato il brahmino del pi-kuan, vale a dire il brahmino della contemplazione del muro; e, sempre per questa ragione, alcuni pensano che i monaci della scuola Soto, in Giappone, seguano l'esempio di lui, immergendosi nella contemplazione con la faccia rivolta contro un muro.
Il muro, in questo caso, starebbe a rappresentare il "muro" dell'ignoranza (in sanscrito: aviydia, ossia - avendo la a valore privativo, come an in greco - l'opposto della retta comprensione); o anche, se si vuole, il "velo di Maya", ossia il velo ingannevole che induce la mente ad attribuire consistenza ontologica alla natura fenomenica impermanente, immergendosi in un vortice di passioni, timori, speranze e illusioni che distoglie la mente dal suo unico e vero scopo, il raggiungimento del "vuoto" mediante l'intuizione della assoluta nullità del mondo fenomenico e della erroneità del senso di separazione della mente dall'Assoluto.
Non tutti gli studiosi, però, sono d'accordo su questa interpretazione. Fra coloro che ne dubitano si trova anche il dottissimo Daisetz Teitaro Suzuki, considerato come il massimo studioso del buddhismo del XX secolo e uno dei più autorevoli conoscitori dello Zen, autore, fra l'altro, dei Saggi sul Buddhismo Zen (titolo originale: Essays in Zen Buddhism [First Series], London, Utchinson Group; traduzione italiana di Julius Evola, Roma, Edizioni Mediterranee, 3 voll., I, pp. 173-175), dai quali riportiamo il brano seguente.
 
Ma questa è evidentemente una interpretazione superficiale del termine pi-kuan; del resto, la mera pratica del fissare un muro come avrebbe potuto provocare negli ambienti buddhisti una rivoluzione come quella di cui si dice nella biografia di Bodhidharma scritta da Tao-hsuan? Una pratica così inoffensiva come avrebbe potuto suscitare una violenta opposizione fra i sapienti di quel tempo? Secondo me, il pi-kuan ha un significato assai più profondo, da intendersi alla luce del seguente passo degli Annali citato in un'opera nota sotto il nome di Pieh-Chi, da considerarsi come uno speciale, più antico documento:
«Il Maestro risiedette dapprima nel monastero Shao-ling.-szu per nove anni e per istruire il secondo patriarca si limitò a dirgli: 'All'esterno tienti lontano da ogni parentado e all'interno non permettere che il tuo cuore palpiti (o abbia brame, ch'uan); quando la tua mente rassomiglierà ad un muro dritto potrai entrare nella Via'. Hui-k'e cercò in vario modo di spiegarsi il principio primo della mente, ma non giunse a realizzare in se stesso la verità. Il maestro gli diceva semplicemente: 'No! No!' e mai gli chiese di parlargli dell'essenza della mente nello stato senza pensieri [cioè come essere puro]. Dopo un certo tempo Hui-k'e dichiarò: 'Ora so come tenermi lontano da ogni parentado'. 'Senti ciò come un completo annientamento?' chiese il maestro. 'No, maestro', rispose Hui-k'e , 'non lo sento come un completo annientamento'. 'In che modo puoi attestare quel che dici?'. 'È cosa che so nel modo più evidente, ma esprimerla in parole è impossibile'. Allora il maestro disse: 'Questa è la stessa essenza della mente trasmessa da tutti i Buddha. Non dubitare di ciò'.»
Di fatto, questo passo riassume lo speciale messaggio contenuto nell'insegnamento di Bodhidharma e in esso possiamo trovare la risposta esatta circa il senso del pi-kuan. A quel tempo tale termine deve aver rappresentato una novità, e l'originalità della veduta stava proprio nel lato creativo della parola pi: senso concreto e plastico, senza nulla di astratto e di concettuale. Per questo Tao-hsuan nel riferirsi all'insegnamento di Bodhidharma lo designò specificamente come il Tai-ch'eng pi-kuan (contemplazione mahāyānica del muro). Mentre nella sua dottrina dei Due Ingressi e di Quattro Atti non vi è nulla di specificamente Zen, l'insegnamento del pi-kuan, della contemplazione del muro, fu ciò che fece di Bodhidharma il primo patriarca del buddhismo Zen in Cina.
L'autore della Giusta trasmissione della dottrina dei Çākya interpreta il pi-kuan come lo stato di una mente nella quale «non penetra alcuna polvere dall'esterno». Comunque, il significato che si cela nella «contemplazione del muro» va ricondotto alla condizione soggettiva di un maestro dello Zen, che è quella di una suprema concentrazione e di una rigorosa esclusione di ogni idea e di ogni immagine sensibile. Intendere il pi-kuan come un mero «fissare il muro» sarebbe una vera assurdità. A voler cercare il messaggio specifico di Bodhidharma quale fondatore dello Zen in Cina in qualche particolare espressione dei suoi scritti esistenti, bisogna riferirsi appunto alla «contemplazione mahāyānica del muro».
 
Chiarito questo punto, Suzuki passa a riferire dai testi antichi, specialmente dagli Annali,  alcuni episodi della vita e dell'insegnamento di Bodhidharma, specialmente quello del colloquio con l'imperatore cinese Wu di Liang e quello degli inizi del discepolato di Hui-k'e, colui che avrebbe preso il posto del maestro quale principale esponente della nuova dottrina (vissuto, secondo la cronologia tradizionale, dal 486 al 593).
Ne riportiamo un breve estratto perché ci sembra utile al fine di chiarire alcuni concetti chiave della dottrina e soprattutto della pratica Zen (Op. cit., vol. I, pp. 177-180) e per introdurre il lettore occidentale non specialista nel mondo affascinante di questa filosofia.
 
L'imperatore Wu di Liang chiese a Bodhidharma:
«Dall'inizio del mio regno ho fatto costruire molti templi, ho fatto trascrivere tanti libri sacri, ho aiutato numerosi monaci; quale pensi che sia il mio merito?».
«Proprio nessun merito, Maestà!» rispose seccamente Bodhidharma.
«Perché?», chiese, stupito, l'imperatore.
«Tutte queste sono opere d'un ordine inferiore», rispose in modo significativo Bodhidharma, «le quali possono far sì che il loro autore rinasca nei cielo o sulla terra. Esse però recano ancora le tracce del mondo, sono come le ombre che accompagnano gli oggetti. Malgrado le apparenze esse non sono altro che delle irrealtà. Il vero atto che procura merito è pieno di sapienza pura, è perfetto e misterioso, la sua vera natura è fuor dalla portata dell'umano intelletto. Essendo tale, nessuna opera di questo mondo può condurre ad esso».
Allora l'imperatore Wu chiese a Bodhidharma: «Qual è il primo principio della santa dottrina?».
«È il vasto vuoto, Maestà, e nulla vi è in esso che sia da chiamarsi santo!» rispose Bodidharma.
«E allora chi è colui che ora mi sta dinanzi?».
«Non lo so, maestà!».
La risposta era semplice e chiara, ma il colto e pio imperatore buddhista non seppe cogliere ciò che ispirava tutto l'atteggiamento di Bodhidharma.
Questi, quando vide che non poteva essere più d'aiuto all'imperatore, ne lasciò i domini e si ritirò in un monastero nello stato di Wei, dove visse tranquillo praticando - si dice - la «contemplazione del muro» per nove lunghi anni, tanto da essere noto appunto sotto il nome di «brahmano del pi-kuan».
Un giorno un monaco di nome Shen kuang andò a visitarlo supplicandolo di illuminarlo sulla verità dello Zen; ma Bodhidharma non si curò affatto di lui. Shen-kuang non si scoraggi, saèendo che tutti i grandi capi spirituali del passato dovettero attraversare le prove più dure prima di raggiungere lo scopo ultimo delle loro aspirazioni. Una sera che nevicava aspettò che Bodhidharma lo scorgesse, fino a ce la neve gli giunse quasi alle ginocchia. Alla fine il maestro gli fece caso e chiese: «Che vuoi che faccia per te?». Kuang disse: Sono venuto per ricevere le vostre inestimabili istruzioni; vi prego, aprite le porte della vostra misericordia e porgete la vostra mano salvatrice a questo povero mortale sofferente. «L'incomparabile dottrina del buddhismo - rispose Bodhidharma - può essere compresa solo dopo una aspra disciplina, sopportando quel che è più duro da sopportare, praticando quel che è più difficile da praticare. Agli uomini di poca forza d'animo e di poca sapienza non è concesso intendere qualcosa di essa. Ogni pena che costoro si diano non approderà a nulla».
Kuang finì col troncarsi il braccio sinistro con una spada che portava e ad offrirlo al maestro come prova della sincerità del suo desiderio di essere istruito nella dottrina di tutti i Buddha. Bodhidharma disse: «Questa dottrina non devi cercarla da un altro».
«La mia anima non conosce ancora la pace. Vi prego, maestro, datele la pace».
«Ebbene, portami qui la tua anima ed io le darò la pace».
Kuang esitò un momento, poi disse: «L'ho cercata tutti questi anni, e non sono stato ancora capace di afferrarla!».
«Ecco! Essa ha ormai la pace, una volta per tutte», fu la risposta di Bodhidharma, che allora gli disse di mutare il proprio nome in Hui-k'e,
Passati nove anni, Bodidharma volle tornare in patria,. Convocò tutti i discepoli e disse loro: «Essendo per me venuto il momento di partire, voglio vedere fin dove siete giunti».
«Secondo la mia opinione - disse Tao-fu la verità è di là dall'affermazione e dalla negazione; è così che essa si muove.
Bodhidharma disse: «Hai avuto la mia pelle».
Venne poi una monaca, Tsung-ch'ih, che disse: «Come io la intendo, la verità è come quando Ananda ebbe la visione della terra Akshobhya del Buddha: visione di un attimo, che non si ripresenta più».
Bodhidharma disse: «Hai avuto la mia carne».
Un altro discepolo, Tao-yu, espresse il suo pensiero nel modo seguente: «Vuoti sono i quattro elementi e non esistenti i cinque aggregati (skandha). Secondo me, non vi è una sola cosa che si possa cogliere come reale».
Bodhidharma disse: «Hai avuto le mie ossa».
Infine venne Hui-k'e - ossia colui che prima si chiamava Shen-kuang - si chinò reverentemente dinanzi al maestro, prese posto sul suo seggio e non disse nulla.
Bodhidharma gli disse: «Hai avuto il mio midollo».
 
In questi episodi della vita di Bodhidharma sono bene espressi alcuni concetti fondamentali del buddhismo Zen.
Nell'episodio del dialogo con l'imperatore Wu di Liang si parla di due aspetti assolutamente centrali: la dottrina del Vuoto, meta suprema di ogni cammino di liberazione; e, nella straordinaria affermazione del maestro circa l'ignoranza del proprio io, la dottrina - propria del Buddhismo originario e, quindi, conservata soprattutto dal Theravada - secondo la quale l'io altro non è che un complesso di operazioni mentali sempre cangianti. Ma su questo secondo aspetto ci ripromettiamo di tornare con un lavoro specifico, proprio per la sua somma importanza dal punto di vista non solo psicologico, ma altresì filosofico.
Nell'episodio del primo discepolato di Hui-k'e (condito di elementi quasi certamente allegorici, come quello dell'auto-mutilazione del discepolo) vediamo esposti, per bocca di Bodhidharma, quattro elementi di notevole valore:  la necessità di sottoporsi a una disciplina inflessibile, tale da mettere realmente alla prova il desiderio del discepolo d'istruirsi (e di ciò fa parte l'apparente noncuranza del maestro verso il discepolo); la necessità di non delegare interamente alla figura del maestro stesso il cammino verso l'illuminazione, di non farne un elemento di de-responsabilizzazione, ma, al contrario, di cercare in se stessi la Via; il rifiuto di addentrarsi intellettualisticamente alla ricerca di enti elusivi, quali l'anima (o Dio), per restare sul terreno concreto dell'esperienza di ciò che è auto-evidente, ad es. la pace interiore o la mancanza di essa (e non la pace dell'anima, questione prettamente intellettuale); infine, il paradosso di una consapevolezza che giunge all'improvviso, quasi non cercata, allorché si sia sgombrato finalmente il campo dalle paure, dalle speranze e dalle percezioni illusorie.
Infine, nell'episodio del testamento spirituale di Bodhidharma ai suoi discepoli, alla vigilia della sua partenza per tornare in India, possiamo notare le seguenti affermazioni: una assoluta non dualità della verità (la verità non nasce dal pensiero oppositivo e non si contrappone ad un'altra verità); il suo conseguimento è cosa istantanea e non riproducibile (a differenza, ad es., della verità secondo l'accezione della scienza occidentale moderna); l'illusorietà di tutti i dati della coscienza desta (per cui non vale il principio di verità del cogito cartesiano); e, più importante di tutto il resto, la radicale inesprimibilità del nucleo più riposto della dottrina Zen - appunto perché si tratta di una dottrina intuitiva e creativa e non intellettualistica.
 
Forse il lettore occidentale, che possieda una certa qual conoscenza della filosofia europea, avrà notato alcune analogie fra alcuni aspetti di essa e lo Zen, così come avrà notato profonde differenze non solo nelle conclusioni cui giunge lo Zen, pur partendo da premesse in qualche modo simili, ma in tutta l'atmosfera che circonda i due approcci speculativi.
Prendiamo il caso della filosofia del Romanticismo tedesco e, in particolare, il concetto di Sehnsucht, che generalmente si definisce come "brama verso l'Infinito, verso l'Assoluto", oppure anche - sottolineandone le valenze psicologiche - come "desiderio del desiderio". Anche nel Sehnsucht, come nello Zen, troviamo una struggente tensione metafisica, un desiderio di andar oltre, oltre il regno delle apparenze, verso il perfetto appagamento interiore: un atteggiamento che ci ricorda da vicino l'ardore con il quale il giovane Hui-k'e supplicava Bodhidharma di aiutarlo a liberarsi dall'ignoranza, sottoponendosi a ogni sorta di sacrifici pur di essere aiutato a realizzare il suo desiderio di verità. Ma quale differenza di atteggiamento, di prospettiva, di conclusioni nel romanticismo tedesco!
Scrivono in proposito Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero in Protagonisti e testi della filosofia (Milano, Paravia, 2000, vol. III, p. 17):
 
(…) si può dire che l'intuizione romantica dell'uomo sia in funzione di quell'anelito all'infinito che è proprio di tale corrente culturale. Infatti è solo in relazione a tale 'brama di infinito' che si comprendono alcuni dei più emblematici 'stati d'animo' romantici, che formano l'oggetto preferito delle rappresentazioni letterarie.
L'espressione germanica Sehnsucht, che può essere tradotta in italiano con: desiderio, aspirazione struggente, brama appassionata, ecc., costituisce forse, a detta del germanista Ladislao Mittner, «la più caratteristica parola del romanticismo tedesco», poiché sintetizza l'interpretazione dell'uomo come desiderio e mancanza, ossia come desiderio frustrato verso qualcosa (l'infinito, la felicità…) che sempre sfugge. Infatti la romantica Sehnsucht si identifica con quell'aspirazione verso il più e l'oltre, che non trovando confini e mete precise, si risolve inevitabilmente, come scrive un altro germanista, Sergio Lupi, in un «desiderio di avere l'impossibile di conoscere il non conoscibile, di sentire il soprasensibile». Tant'è vero che la Sehnsucht, la quale etimologicamente deriva dal verbo sehnen, che vuol dire desiderare, e dal sostantivo Sucht, che significa esso pure desiderio, finisce per configurarsi come un «desiderio innalzato alla seconda potenza, un desiderio del desiderio, e quindi un desiderare che si esaurisce in sé per il piacere del desiderio».
Infatti Schlegel nella Lucinde, dice del suo personaggio Giulio: «Tutto poteva eccitarlo, niente poteva bastargli. Era come se volesse abbracciare il mondo e non potesse afferrare niente»…
 
Pertanto, si può dire che la romantica Sehnsucht contiene in se stessa i germi della disperazione: è la ricerca dell'impossibile, sapendo che è impossibile. L'eroe romantico crede di essere proteso verso l'Assoluto, mentre - in realtà - è impegnato in una narcisistica celebrazione del suo Ego, dalle brame illimitate.
Potremmo spingerci oltre e osservare che nel filosofo tedesco il quale ha spinto al massimo grado questo aspetto del romanticismo, Nietzsche, si verifica - come già osservava giustamente Julius Evola - una sorta di corto circuito fra il titanismo della volontà di potenza e la volontà dichiarata di rimanere fedele alla terra: due cose evidentemente inconciliabili, come sarebbe voler andare oltre la condizione umana pur rimanendo entro l'orizzonte del finito e, quindi, dell'umano. È probabile che la catastrofe finale di Nietzsche - che non è solo esistenziale, ma altresì filosofica -  tragga origine, per l'appunto, da questa contraddizione; ma essa è già implicita nel romanticismo dello Sturm und Drang e dei primi anni del XIX secolo.
Completamente diverso è l'approccio Zen al problema della ricerca della Via verso l'illuminazione, verso il satori. Anche qui siamo in presenza di un desiderio struggente, ma non si tratta di un desiderio del desiderio, bensì di un reale desiderio di qualche cosa d'altro del desiderio stesso: di un principio di chiarezza interiore, pace e armonia il quale, per quanto arduo da raggiungere, non è affatto impossibile e fuori della portata dei nostri sforzi. Pertanto nello Zen non vi è nulla di nichilistico, così come nulla di nichilistico vi è nell'idea buddhista di liberazione, intesa come scioglimento dalle catene dell'illusione. Il Nirvana, la meta finale, il superamento del ciclo delle rinascite, non è qualcosa di intrinsecamente negativo o contraddittorio, bensì un concetto positivo e accessibile all'uomo.
È il ritorno al Tutto, all'Assoluto dal quale egli si era allontanato, senza rendersene conto, a causa della illusione relativa al mondo fenomenico e alle passioni che essa, inevitabilmente, porta seco. Perciò l'eroe romantico che si slancia all'assalto dell'infinito è un personaggio tragico, che corre verso l'autodistruzione; mentre il saggio Zen che aspira alla verità è un personaggio concreto e positivo, che cerca in se stesso un principio di autorealizzazione, superando il dualismo tra Cielo e terra, tra Aldilà e aldiqua, tra Infinto e finito; per assidersi, vittorioso e pacificato, nella dimensione ove le antinomie della vita scompaiono e resta solo l'esperienza ineffabile del Tutto.
Abbiamo detto ineffabile: e Bodhidharma, come si è visto, insiste molto su questo punto.
Il che ci riporta a una notevole analogia fra lo Zen e il Tao: laddove, nel Tao te ching, si dice -  appunto - che il Tao del quale si può parlate, che si può esprimere a parole, non è il vero Tao; non è il vero Principio, non è la vera Via.
di Francesco Lamendola - 30/04/2008
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

 

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