lunedì 29 settembre 2008

La pittura etrusca è il completamento dell'architettura delle tombe

a cura DI D. PICCHIOTTI

La pittura etrusca è il completamento dell'architettura delle tombe. La tecnica usata è una specie di affresco, con colori disciolti nell'acqua che vengono assorbiti dallo strato sottile dell'intonaco. La pittura è planimetrica: pochi colori, privi di chiaroscuro, distesi in superficie, staccati dal fondo, con la conseguente prevalenza della linea che li campisce, quasi come se fosse una decorazione vascolare. Quanto ai temi, poiché lo scopo delle figurazioni è quello di circondare il morto con le immagini della vita, prevalgono le scene di costume, con musicanti, danzatori, ginnasti, partite di caccia e di pesca. Non mancano tuttavia le figurazioni mitologiche, derivate dalla pittura vascolare greca o dovute ad artisti greci immigrati. Tra queste i più antichi affreschi sono quelli della Tomba dei Tori a Tarquinia, con l'agguato teso da Achille al giovane troiano Troilo presso la fontana sacra ad Apollo; tra le figure, definite linearisticamente e campite con chiari colori, compaiono fiori stilizzati, ed altri elementi paesistici, quali alberelli e cespugli spinosi. Nella tomba della caccia e della pesca a Tarquinia le figure dei pescatori, rappresentate con grafia semplificata e leggera, assumono un carattere squisitamente decorativo al pari degli uccelli e dei pesci che popolano sparsamente gli ampi spazi celesti e marini. Il fascino di queste ed altre consimili figurazioni consiste in buona parte nella disposizione irrealistica dei colori: secondo una convenzione derivata dalla pittura vascolare le figure sono tinteggiate in rosso se maschili, in bianco se femminili: nè mancano talvolta audaci invenzioni e arbitrii cromatici, come cavalli rossi ed azzurri.
Altre pitture interessanti sono quelle della Tomba del Barone.
Sulle pareti della piccola camera funeraria sono cavalli e figure umane, intervallate da arboscelli. I colori (nero, rosso, grigio, verde, bruno-violaceo) sono stesi su un sottile velo di preparazione. Il rapporto fra i pieni e i vuoti è perfettamente bilanciato, così come sono calcolati gli equilibri fra le immagini di un lato e quelle dell'altro, le proporzioni delle figure fra loro e delle singole parti con tutto il complesso. Il disegno è sottile, raffinato, adeguato all'eleganza delle figure. Nel IV sec. si stringono nuovi contatti con la civiltà greca.
Lo confermano le pitture della Tomba dell'Orco a Tarquinia fra le quali emerge la testa di una fanciulla della famiglia Velcha, partecipante a un banchetto funebre. Il fondo verde scuro, dai contorni irregolari, rappresenta forse una nuvola nera, richiamo all'oltretomba. Questo piano di fondo dal colore compatto fa risaltare il profilo puro della giovane e permette di evitare la tradizionale linea di contorno. Manca però il chiaroscuro. Il valore dell'immagine si affida al rapporto fra i due colori fondamentali: quello del fondo e il bianco-rosa del bel volto di profilo, le labbra lievemente dischiuse, il grande occhio aperto a contemplare la scena infernale, i capelli inghirlanditi, il collo ornato da una doppia collana. La visione dell'oltretomba si va facendo drammatica. A contrasto con la fanciulla Velcha sta l'immagine paurosa del demone Charu (Caronte), dal colorito verdastro, il naso adunco, la barbetta irsuta, i capelli anguiformi, le grandi ali, il bastone. L'aldilà non è più il luogo dove prosegue tranquilla la vita, ma bensì il luogo di tormenti per tutti gli uomini.

domenica 28 settembre 2008

Pazzi da leggere ascoltare e ammirare

a cura DI D. PICCHIOTTI

Nella follia si vive in un mondo diverso da quello della vita di ogni giorno (della vita che consideriamo normale); ma nel mondo della follia si ha a che fare con le stesse emozioni, anche se esasperate e radicalizzate, che vivono in ciascuno di noi, e che sono la tristezza, la malinconia, la nostalgia, l’angoscia, l’inquietudine, la disperazione, la gioia panica, alle quali nella follia si possono aggiungere alterate percezioni della realtà che sconfinano nei deliri e nelle allucinazioni.
Come può accadere che nella follia, nelle sue diverse connotazioni tematiche, si abbiano esperienze creative talora sconvolgenti sia nelle espressioni letterarie come in quelle artistiche e in quelle musicali?
Definire la creatività non è facile: è stata definita, ad esempio, come originalità, ricchezza di invenzioni, flessibilità, capacità intuitiva, intelligenza fuori del comune, attitudine a scoprire qualcosa di nuovo e di inatteso; ma la definizione meglio adeguata (forse) a coglierne il background è quella che considera la creatività come la capacità di trovare relazioni tra eventi apparentemente estranei gli uni agli altri, e di giungere a nuove e originali formulazioni di pensieri, di immagini, di metafore, di idee che inceneriscano gli abituali e convenzionali modelli di riflessione e immaginazione. Questa capacità può essere intesa come la premessa ad ogni realizzazione creatrice; ma vorrei dire che esiste forse una creatività ordinaria e una creatività straordinaria: la prima parla il linguaggio della vita quotidiana: benché da essa si distingua nel fulgore delle associazioni e delle immagini; mentre la seconda è un modo nuovo di sentire e di esistere che si esprime con grammatiche del tutto estranee alla realtà di ogni giorno e sfiorate dalle ali della genialità.
La creatività straordinaria è, cioè, quella che cambia radicalmente i modelli abituali di immaginare e di pensare, di fantasticare e di riflettere, che sono in ciascuno di noi, trascinandoci negli abissi vertiginosi dello stupore e della vertigine. La creatività straordinaria è la creatività artistica, certo, ma ci sono espressioni poetiche e figurative, musicali e pittoriche, che nulla hanno a che fare con le angosce e le inquietudini, la disperazione e la dissociazione della follia, e ci sono espressioni artistiche e poetiche che sono solcate e incrinate dalla cifra misteriosa e insondabile, luminosissima e oscura, della follia.
L’angoscia schizofrenica (la malattia schizofrenica) è presente in opere narrative e poetiche, pittoriche e musicali, con una emblematica creatività anche se diversa da quella che si coglie nella malinconia. La angoscia schizofrenica come Leitmotiv e come stato d’animo inconfondibile riemerge nei testi narrativi di August Strindberg e di Gérard de Nerval, nelle poesie di Friedrich Hölderlin e di Sylvia Plath, nella pittura di Edvard Munch, di Francis Bacon e di Lorenzo Viani, e nella musica, o almeno nella ispirazione musicale, di Robert Schumann e di Hugo Wolf.
In ogni caso, il problema aperto e dilemmatico, è quello di ricercare se la malattia schizofrenica sia stata la premessa necessaria alla creatività, o se la malattia sia stata la scintilla che ha trascinato con sé l’opera creativa, o se invece la malattia ne sia stata una concausa.
Non è possibile consegnare risposte univoche a questo problema che non può essere affrontato se non analizzando la storia della vita e le modalità espressive, e creative, in ogni singolo poeta e in ogni singolo artista; non dimenticando mai che si ha a che fare, qui, non con la creatività ordinaria, che fa parte della vita quotidiana e che è comunque, in ogni momento, di grande importanza per la realizzazione di sé, ma con la creatività straordinaria: quella geniale.
Abbiamo parlato di creatività ordinaria, quella che riempie di significati inattesi e salvifici la vita di ogni giorno, e creatività straordinaria che fino in fondo si esprime nella creatività artistica libera da ogni influenza della follia, e nella cratività animata dalla follia. Ma c’è anche una creatività lontana dalla creatività ordinaria e sconfinante, vorrei dire questo, nella creatività straordinaria, ed è la creatività psicotica: la creatività che la follia trascina con sé creando forme inedite di esistenza: dolorosamente incrinate dalla sofferenza e dalla angoscia. Le espressioni figurative e quelle linguistiche sono non di rado nella follia contrassegnate da originalità e bagliori creativi: stralciate da ogni influenza socioculturale e da ogni sovrastruttura ideologica. Ciò che si intravede in esse, al di là di ogni connotazione patologica, è la testimonianza dell’umano: della sofferenza e delle lacerazioni dell’anima; e nell’altro mondo, che ne consegue, noi intravediamo (se siamo capaci di ascoltare le voci del silenzio e dell’indicibile) una altra immagine della realtà: quella striata dalla linea d’ombra nascosta nella condizione umana e immersa nell’allusività stremata delle espressioni gestuali ed emozionali, plastiche e figurative, fragili e stupefatte.
La creatività psicotica è legata alla dilemmatica confrontazione fra una esperienza interiore lacerata, che anela a trovare un’espressione di vita e di speranza, e la disperata coscienza della difficoltà nel trovarla: nel vortice di antinomie che trascinano con sé le alte maree della angoscia creatrice.
Le immagini emblematiche di una creatività straziante sono quelle che una paziente di tredici anni sommersa da una esperienza psicotica acuta, e invitata a definire la disperazione che era in lei, ci consente di cogliere e di rivivere silenziosi e attoniti. Queste le parole che Silvano Arieti ci ha fatto conoscere: «La disperazione è come una parete coperta da uno spesso strato di grasso, e una persona sta cercando di arrampicarsi su per questa parete conficcandovi le dita. Giù in basso vi è una fossa profonda, senza fine. In cima alla parete, sul soffitto, vi è un grosso ragno nero. In quest’ultimo anno sono stata in questa fossa profonda, ma ora mi sto arrampicando su per una corda, cercando di uscirne».
L’immagine del ragno che sta divorando l’esistenza di Karin, la paziente immersa in una ofelica schizofrenia, che Ingmar Bergman fa rinascere in uno dei suoi film più belli e sconvolgenti.
Questi, certo, solo alcuni frammenti di una creatività psicotica possibile e reale.Eugenio Borgna:
Tratto da “l’Unità”, 2 Settembre 2005

sabato 27 settembre 2008

Cina, pittura contemporanea

a cura DI D. PICCHIOTTI

La mostra, organizzata dalla Fondazione Carisbo, curata da Vittoria Coen e ospitata nelle due importanti sedi di San Giorgio in Poggiale e Palazzo Saraceni di Bologna fino allo scorso 6 marzo, è giunta ora nel Palazzo Monte di Pietà di Padova, dove resterà fino al 25 maggio 2005. Le circa quaranta opere presentate raccolgono diciassette artisti compresi fra i trenta e quaranta anni, maggiori esponenti di quella tendenza chiamata “pittura fotografica cinese”. Tale tendenza si esprime attraverso un apparente “realismo descrittivo”, dato da una minuziosa riconoscibilità del soggetto rappresentato con la realtà e un taglio fotografico da reportage. “Dipingo come si scatta una foto” dichiara Xie Wanxing nei suoi paesaggi urbani sfocati e scarni. Ma la “pittura fotografica cinese” non è che un atteggiamento di fondo sul quale si costruiscono questioni profonde. Nella prima grande esposizione storica, China Avant Garde, inauguratasi nel febbraio del 1989 al Museo di Belle Arti di Pechino, facevano la loro comparsa due linee di ricerca dominanti: il “Realisme cynique”2 e la “pop politique”3. Entrambe dirigevano la loro protesta contro il realismo socialista dell’arte di regime, desumendone le forme per poi distorcerle e sbeffeggiarle tramite nonsense e decontestualizzazioni4. Queste tendenze si sono poi arricchite di nuovi aspetti, come il “vulgairekitsch”5, in altre parole il trattamento di immagini porno-erotiche tratte dai mass-media enfatizzandone l’aspetto patinato, o il citazionismo, la rivisitazione, a volte esplicita, di certe invenzioni dell’arte contemporanea, soprattutto occidentale. Lo sperimentalismo di cui è ora protagonista l’arte contemporanea cinese si muove su due fronti. Uno trova spazio nelle accademie stesse, dove l’istituzione di corsi sugli attuali mezzi artistici, dal video al digitale, ha in qualche modo inserito gli artisti nel dibattito culturale del concettuale: la tendenza che considera l’arte come idea, come linguaggio, come definizione dell’arte, come conoscenza attraverso il pensiero anziché attraverso l’immagine. L’altro si muove invece al di fuori delle accademie, nelle ex-fabbriche riconvertite a spazi espositivi, nei neonati quartieri degli artisti, e fa oggetto della propria ricerca il mondo ai margini, il disagio esistenziale, il ruolo della contemporaneità su quello dell’artista. Ciò che qui, nelle opere esposte appare, è soprattutto la trama di tutte queste relazioni, un miscuglio di generi e atteggiamenti. “Realizzo corrispondenze tra la realtà delle immagini e quella sperimentata personalmente”6: Fu Hong lavora sulla documentazione, sull’archiviazione d’immagini per creare una sorta di database della fantasia. Wang Xingwei lavora appunto sui riferimenti espliciti, citando, non senza ironia, Courbet, Hopper, e Fischl, rispettivamente in Untitled (2003), in The Night of Shangai (2004) e in The Decadence and Emptiness of Capitalism 2 (2000).
“Sono molto interessato a ciò che è astratto”. Gli individui di Zeng Fanzhi sono immobilizzati tra due emisferi dell’azione: il volontario e l’involontario. Ricordano gli Attendants di Bacon, disperati e muti, fermi immobili nell’esatto istante dell’insensatezza. Yang Qian è invece interessata all’erotismo nascosto nel gesto quotidiano. Le sue donne si svelano a frammenti di corpo, nella nebbia del vapore che le avvolge nel bagno. Ed è nel diradarsi improvviso di quella nebbia fitta, quando si scopre un lembo di nudità, che l’osservatore, voyeur esclusivo, ha un sussulto. Le figure di Wu Yiming, sagome spettrali, dal volto bianco senza tratti, si muovono in un’atmosfera surreale. Hanno la freschezza del tratto degli antichi scrolls cinesi, e un fare inquietante che ricorda i volti di Munch. Sul fronte della provocazione c’è Zhou Thiehai che ripropone, dipinti a spray, i capolavori dell’arte rinascimentale, da Leda e il cigno di Correggio, alla Dama dell’ermellino di Leonardo coronati dal volto di Joe Camel, cammellino antropomorfo, protagonista della campagna pubblicitaria della Camel; e Shi Xinning nelle cui opere Mao Zedong è ritratto in cinquanta anni di storia occidentale, da Yalta al funerale di Che Guevara; accanto alla coppia Mastroianni-Ekberg della Dolce Vita di Fellini; di fronte all’Orinatoio di Duchamp. O ancora i volti cyborg-copertina delle bellissime donne di Feng Zhengjie e i fluttuanti preservativi sopra un fondo ricoperto di figurine kamasutra, di Zhang Xiaotao. Di matrice quasi informale, per il trattamento della pittura, i quadri di Li Songsong. A differenza del descrittivismo dominante negli altri, azzarda la percezione di una sensualità del mezzo, di un contatto voluto con la materia. Un ultimo elemento individuabile in queste opere è quello del perturbante, la categoria freudiana del senso di spaesamento e disagio proveniente dal contatto, anche solo visivo, con quanto normalmente si è abituati a vedere; contatto che squarcia improvvisamente un’abitudine costituita e insinua il sospetto che qualcosa non sia effettivamente come appare. Il perturbante prorompe nei ritratti grotteschi di Ma Liuming, dove l’artista si ritrae col volto adulto sul corpo di bambina o nei personaggi ambigui di Zhang Xiao Gang, dove i volti o le mani che scrivono un messaggio sono invasi da piccole macchie come nelle Memorie di Magritte. Le macchie che solcano il presente sono la dolorosa ombra del passato, il ricordo delle sofferenze del regime. La necessità dell’opera d’arte di sfuggire alla propria organicità, al proprio status di organismo interpretabile, la necessità di aprire i propri confini a infinite relazioni per disperdersi nei contesti, annientando la possibilità di ritrovare una primigenia identità e ammettendo come effettivo solo lo spostamento da un senso all’altro di qualsivoglia campo semantico, è da diverso tempo l’avventura dell’arte contemporanea. Rilke diceva che “le opere d’arte sono sempre il prodotto di un rischio in corso”. Ora, la rottura con la tradizione e l’impatto con le innumerevoli suggestioni del mondo occidentale, seppure riconoscibili, non sono che ipotesi di lettura. Rimangono l’importanza del rischio in atto, del confronto, del fermento della creazione che fanno di un gesto, qualunque esso sia, un’opera d’arte. Il panorama offerto da questa mostra, curata da Vittoria Coen, costituisce un importante approfondimento nei confronti del vivo interesse per l’arte contemporanea cinese, per poterne godere al di là di ogni interpretazione. di Valentina Casacchia

ARTE POVERA

a cura DI D. PICCHIOTTI
Movimento artistico nato in Italia, tra Roma e Torino, intorno al 1966.
In generale riconducibile all'ambito dell'arte concettuale, si distingue per il rifiuto di mezzi espressivi tradizionali (pittura, scultura) e l'impiego, viceversa, di materiali «non artistici», «poveri» appunto, sia naturali e organici sia industriali (legno, pietra, terra, vegetali, stracci, plastiche, neon, scarti industriali), assunti nella loro espressività primaria e immediatezza sensoriale e spesso proposti sotto forma di installazioni in stretto rapporto con l'ambiente o con «azioni» dell'artista.
Secondo il suo primo e principale teorico, Germano Celant, che mutuò il termine dal teatro di J. Grotowski, l'Arte Povera consiste essenzialmente «nel ridurre ai minimi termini, nell'impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi».
Nell'atteggiamento di negazione e dissacratorio dell'arte povera c'è in realtà una volontà di fondo indistruttibile e poetica di riappropriarsi di valori primari come il senso della terra, della natura, dell'energia pura, della storia dell'uomo. Pur nel contesto estremamente politicizzato degli anni '60 l'arte povera appare tuttavia distante dai problemi politici ed economici delle masse nella stessa misura in cui rifiuta ogni inserimento (dell'arte come dei suoi destinatari, le masse) nel sistema e quindi qualsiasi trasformazione di quest'ultimo, ma ne propugna un radicale ribaltamento più vicino all'utopia che al riformismo. La volontà di portare l'arte alle masse si unisce con quella di aprire meccanismi mentali liberatori nei fruitori dell'arte soprattutto attraverso l'uso dello scarto, dell'intuizione ovvia ma impensabile nell'ordine prestabilito di abitudini e comportamenti sociali e personali. Il risultato è un linguaggio per lo più criptico, limpido ed evidente solo per chi come l'artista e il critico possiede la "chiave" per accedere alla dimensione diversa, libera e poetica, della speculazione, dell'approfondimento dei valori dello spirito e delle verità insite nell'arte.
Ne sono stati esponenti Giovanni Anselmo, Alghiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Piero Gilardi, Jannis Kounellis, Marsa e Mario Merz, Pino Pascali, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio.
Pur distinguendosi ciascun artista per una propria e originale poetica, molti degli esponenti dell'Arte Povera sono accomunati dall'interesse per la dimensione energetica e vitale dei materiali.
Pino Pascali (1935-1968), che nel brevissimo arco di tempo della sua produzione giunge a vertici altissimi di sintesi poetica e con istintiva felicità creativa e assoluta coerenza attua una totale presa di coscienza della necessità di recupero dei valori primari dell'esistenza e nello stesso tempo di sottrazione dell'arte al gioco della mercificazione. Esemplari sono le opere che presentano riferimenti a elementi naturali come il mare o la serie degli animali che realizza con materiali tecnologici spaesanti anche per la tecnica esecutiva a metà tra il modellismo e la simulazione ludica. Si afferma la assoluta arbitrarietà dell'agire dell'artista nei confronti di tutto un sistema economico-sociale fondato sul possesso e l'accrescimento del possesso: servirsi di setole acriliche non per fabbricare scope e spazzolini ma bruchi giganti, significa evidentemente ingannare contemporaneamente la natura con l'industria e l'industria con la natura.
Pino Pascali: Mare (1967)
Jannis Kounellis recupera elementi vegetali e animali, crea oggetti con materiali grezzi, come il fuoco, sacchi di juta riempiti di granaglie, carbone, legno, carni, fiori, o materiali di sintesi come cera, oro e piombo, a tratti associati a citazioni di frammenti classici intesi come simboli di un linguaggio perduto, chiave drammatica ma tuttavia necessaria per la comprensione del presente.
Jannis Kounellis: Senza titolo (1980)
Le opere di Mario Merz (1925) e Gilberto Zorio (1944) sono esemplari della ricerca sulla possibilità di un incontro tra natura e cultura nella coscienza dell'uomo. Per fare questo gli artisti assumono elementi tratti dalla natura o simulanti elementi o eventi naturali confondendoli con l'atto e l'effetto della creazione artistica. Elementi primari come pelli di animali (Zorio), arbusti (Merz) si mescolano con altri tecnologici come il neon, prediletto per la sua natura di conduttore neutro di energia, e mettono in essere confronti e interazioni evidenziando il rapporto tra energia mentale e energia fisica. Altri materiali come metallo fuso, acidi corrosivi, lampade voltaiche (Zorio), pongono ancora di più l'accento sull'essere, sulla trasformazione, sulla durata, sull'azione, a discapito della considerazione di una realtà offerta alla contemplazione e trasformata così inevitabilmente in elemento già distante dalle urgenze e dalle necessità del presente.
Gilberto Zorio: Stella per purificare le parole ( in pelle, legno, acciaio, corda, 1978)
Mario Merz - Chiaro oscuro (neon, fascine, struttura metallica, vetro, 1983)
Giulio Paolini (1940), inizialmente operante nel gruppo dell'Arte Povera, è un caso a parte nel panorama concettuale. Anche la sua è una continua meditazione dell'arte sull'arte e in questo si colloca al centro della poetica del movimento, ma più che sul sistema linguistico e verbale egli si basa sul sistema delle immagini e più precisamente della visione. Spesso le sue opere sono incentrate proprio sui modi e sull'essenza del vedere e su rimandi mentali operati attraverso gli elementi oggettivi dell'opera, come nel "Giovane che guarda Lorenzo Lotto", riproduzione di un ritratto frontale di giovane di Lotto, che guardando lo spettatore, grazie alla conoscenza del titolo, fa sentire chi guarda al posto del maestro del Cinquecento, con uno sfasamento di tempo e una sorta di transfert che cala lo spettatore in una dimensione di realtà al di là dell'apparenza fisica del dipinto.
Giulio Paolini - Giovane che guarda Lorenzo Lotto 1967
Nel panorama internazione delle neoavanguardie, l'Arte Povera trova ampie corrispondenze in ricerche analoghe avviate negli stessi anni in altri paesi, per esempio in Germania da J. Beuys e sotto diverse etichette (Land Art, Earthworks) in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove l'Arte Povera sottolinea ora l'aspetto di rifiuto dei materiali usati, ora il valore dato alla pura azione, ora l'intervento «ecologico» nel paesaggio, ora infine l'operazione estetica nel suo momento teorico anziché nei risultati prodotti.

mercoledì 24 settembre 2008

La libertà dell'uomo e la fede

a cura DI D. PICCHIOTTI

Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) fu autore, oltre che di romanzi filosofici, di Lettere sulla dottrina di Spinoza al Signor Mosè Mendelssohn (1785), David Hume, Dialogo sulla fede, o idealismo e realismo (1787), Lettera a Fichte (1799), Il tentativo del criticismo di ridurre la ragione ad intelletto (1801), e di Le cose divine e la loro rivelazione (1811).
Fu uno dei piú radicali critici dell'illuminismo francese. Ne rifiutò soprattutto il concetto astratto di «ragione» - cioè la sua riduzione a puro strumento di connessione dei contenuti di pensiero - e la svalutazione del «sentimento» - che per lui invece è organo rivelativo di verità immediate -. L'assolutizzazione della ragione ha condotto, come ad estrema conseguenza, alla filosofia materialistica e meccanicistica; cosí si sono minate, a suo avviso, le stesse basi della vita etica, in quanto, concependo l'uomo chiuso in un sistema rigoroso di cause ed effetti, si è finito col negarne la libertà e, quindi, col pregiudicarne la possibilità di una vita virtuosa infatti, come può definirsi virtuosa un'azione concepita come risultato meccanicamente determinato da certe precise condizioni?
A tale concezione meccanicistica e deterministica del comportamento umano sembrava, a suo giudizio, condurre anche la visione filosofica di Spinoza, anch'essa fondata sulla assolutizzazione della ragione; l'uomo, momento particolare della manifestazione di Dio - unica Sostanza - non poteva godere di una vita autonoma, indipendente, guidata dalla propria volontà; il sistema spinoziano, dunque, nega la libertà dell'uomo, e cosí nega - malgrado le buone intenzioni - ogni possibilità di vita etica.
Questa valutazione negativa dello spinozismo Jacobi difese con tenacia, ma conseguí effetti opposti a quelli ch'egli sperava. Egli, anzi, fu l'origine di quella «discussione su Spinoza» che agitò l'ambiente culturale tedesco a lui contemporaneo; fu lui l'artefice involontario della «rinascita spinoziana». Infatti, provocato dal filosofo M. MENDELSSON, che dubitava che Jacobi avesse inteso correttamente l'affermazione con cui G.E. LESSING si dichiarava «spinoziano» e lo invitava a chiarire che cosa fosse per lui lo spinozismo, egli enunciò - in modo straordinariamente chiaro ed organico - i temi di fondo della filosofia di Spinoza in un'opera che costituí lo spunto di un vivace dibattito pubblico che sortí l'effetto - non voluto né previsto da Jacobi - di risvegliare simpatie ed entusiasmi per lo spinozismo.
Dunque, contro l'assolutizzazione della ragione - operata dall'Illuminismo e dallo spinozismo - Jacobi rivendica i diritti e la funzione del sentimento, e, in particolare, della fede. Tutta la vita umana, anche a livello di atti comuni e quotidiani, è basata sulla fede, ossia sull'accettazione di verità non dimostrate né dimostrabili ma immediatamente evidenti.
L'elemento di ogni conoscenza ed attività umana è la fede. Nasciamo tutti nella fede e dobbiamo rimanere per forza nella fede, proprio come nasciamo tutti nella società e dobbiamo rimanere per forza nella società.
(Lettere sulla dottrina di Spinoza)
Qual è, allora, la funzione della ragione?
Due sono, per Jacobi, gli strumenti della conoscenza: i sensi e la ragione. I sensi ci offrono dati sensibili. La ragione - che è ciò che distingue l'uomo dalla bestia - non è la facoltà logica, la capacità di «riflettere» connettendo esperienze e concetti, bensí è il campo in cui avviene la «rivelazione del soprasensibile»; ossia è l'organo per conoscere Dio, la libertà, la virtù, la verità, la bellezza, la bontà.
In ogni essere finito e sensibile... la ragione non è altro che il senso del sovrasensibile.
(Sulle cose divine e la loro rivelazione)
Sicché l'intuizione sensibile e l'intuizione razionale hanno in comune il fatto d'essere conoscenze immediate, in quanto i loro rispettivi contenuti si presentano alla coscienza come immediatamente evidenti. Entrambe sono quindi fondate sulla fede.
Come la realtà che si manifesta ai sensi esterni non ha bisogno di alcuna garanzia, perché essa è la piú efficace testimone della propria verità, cosí non ha neppure bisogno di garanzie quella realtà che si rivela a quel senso profondamente interiore che noi chiamiamo ragione, anche questa realtà è l'unica e piú efficace testimone della propria verità. Necessariamente l'uomo crede ai suoi sensi e necessariamente crede alla sua ragione, e non c'è nessuna certezza superiore alla certezza di questa fede.
(David Hume, dialogo sulla fede)
La facoltà di «connettere», di legare logicamente i contenuti della coscienza (sia quelli «sensibili» che quelli «razionali,>) è chiamata da Jacobi intelletto. Sicché, cosa importante, anche il lavoro dell'intelletto è basato sulla fede, attraverso la quale la coscienza assume i contenuti che esso poi connette.
Dunque, mediante la fede sappiamo che fuori di noi c'è un mondo di corpi sensibili. E similmente sulla fede, e non sulla astratta dimostrazione, si fonda la certezza della nostra libertà. Se infatti consideriamo l'uomo come essere «finito», semplicemente «naturale», la conoscenza logica (intellettuale) ci induce a considerarlo soggetto a leggi meccaniche, per le quali ogni comportamento è determinato necessariamente da certe e precise cause. Ma ognuno avverte in sé la libertà, l'indipendenza della volontà dagli appetiti. La sua autodeterminazione non può esser derivata da fredde deduzioni; la sua spontaneità si presenta immediatamente alla coscienza; la libertà, insomma, si manifesta nell'azione stessa. Pertanto l'uomo può dichiararsi consapevolmente libero, perché la sua libertà gli si rivela nel suo agire; egli l'avverte con un'intuizione di fede, nel momento in cui si riconosce unico ed originale autore di ciò che è, del suo sapere, della sua arte e del suo carattere morale. E, naturalmente, sulla fede riposa la certezza dell'esistenza di Dio.
Soltanto ciò che vi è di piú alto nell'uomo attesta in lui un essere supremo fuori di lui; soltanto lo spirito testimonia in lui un Dio. Dio stesso creò l'uomo e gli diede immediatamente lo spirito, traendolo dal proprio spirito. E l'uomo è, precisamente in quanto c'è in lui l'alito di Dio.
La coscienza dello spirito si chiama ragione. Ma lo spirito può soltanto venire immediatamente da Dio; perciò avere ragione e sapere che c'è Dio sono la stessa cosa, come è la stessa cosa ignorare Dio ed essere un animale... L'uomo deve necessariamente ammettere Dio; e può negarlo soltanto come può anche negare in se stesso la propria libertà e lo spirito, ma non può mai annientarne completamente la nozione nell'intimo della coscienza morale.
La fede in Dio è un istinto, un istinto naturale per l'uomo, come la sua posizione eretta. Non avere questa fede è contro natura, come è contro natura per l'uomo la posizione curva...
(Su una profezia di Lichtenberg e Sulle cose divine)
Dunque sono proprio la spiritualità e la libertà dell'uomo che gli rivelano l'esistenza di Dio. Non il ragionamento può dare la certezza dell'esistenza divina, ma, al contrario, l'autorivelazione di Dio dà valore ai ragionamenti su Dio. Bisogna rivalutare allora il momento della fede in Dio, ma, sostiene Jacobi, non alla maniera errata di Kant, il quale, avendo dichiarato inconoscibile il «noumeno», parla di Dio come di una «idea della ragione»; concetto, questo, che svuota di significato la dimensione umana della fede religiosa, perché riduce il suo contenuto - la realtà stessa di Dio ad un'illusione psicologica, cioè ad un puro «nulla».
Johann Gottfried Herder (1744-1803) scrisse Metacritica alla critica della ragion pura (1799), Kalligone (1800), Dio (1787), Scritti cristiani (1793-1799), e inoltre Saggio sull'origine del linguaggio (1772), Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità (1774), Idee per la filosofia della storia dell'umanità (1784).
Filosofo e teologo, riuscí a comporre, in una visione unitaria, le sue riflessioni sul mondo e sull'uomo con i contenuti della sua fede religiosa. Il mondo e la storia sono, per lui, il campo in cui si manifesta Dio, che è la sapienza che organizza secondo la legge del progresso lo sviluppo della realtà naturale (dai livelli piú bassi a quelli piú alti) e l'evoluzione della storia dell'uomo. Anzi, natura e uomo sono legati da un nesso profondo per cui l'uomo è la realtà più alta a cui Dio ha condotto l'evoluzione delle forme naturali. Sicché, come in natura, cosí anche nella storia ogni forma determinata (tema caro anche all'idealismo tedesco) è transeunte, in quanto destinata ad essere assorbita e, allo stesso tempo, «superata» in una forma superiore piú ricca e piú complessa. E, al pari dell'individuo umano, anche la storia conoscerà il compimento del suo sviluppo solo nel mondo divino ultraterreno, in cui l'uomo, finalmente, attingerà e realizzerà a pieno il suo ideale di umanità.
C'è dunque una sostanziale continuità tra realtà naturale e realtà umana.
Dalla pietra al cristallo, dal cristallo ai metalli, da questi ai vegetali dalle piante all'animale, e dagli animali all'uomo, abbiamo visto elevarsi la forma dell'organizzazione e, con essa, articolarsi anche le forze e gli impulsi della creatura. Questi, alla fine, si congiungono tutti nella figura dell'uomo... Giunta all'uomo, la serie si è fermata: al di sopra di lui non conosciamo alcuna creatura che sia organizzata in modo piú valido e ricco; l'uomo sembra essere il punto d'arrivo a cui può giungere una organizzazione terrestre... Al pari delle figure, abbiamo visto avvicinarsi all'uomo le forze e gli impulsi. Sul nutrimento e sulla proliferazione dei vegetali si innalza l'istinto operoso degli insetti, la cura materna e domestica degli uccelli e degli animali terrestri, fino a pensieri simili a quelli dell'uomo e alla ricerca deliberata di comodità. Da ultimo, tutto ciò mette capo alla capacità razionale, alla libertà, e all'umanità dell'uomo.
(Idee per la filosofia della storia dell'umanità)
La progressiva complessità organica delle forme naturali è frutto di una forza organizzatrice interna alla natura stessa. Questa forza onnipotente non è altro che la sapienza divina che, quindi, è presente e si rivela nelle formazioni naturali.
Ma con l'uomo non si ferma il cammino. L'uomo, come ogni essere della natura, è in movimento; tende verso l'umanità; egli, cioè, sul piano della storia, è sempre potenza rispetto a un atto che sarà lo scopo e il termine del suo viaggio; questo cammino, anch'esso segnato dalla legge del progresso, è, per Herder, la storia della civiltà.
Lo scopo della nostra esistenza attuale è diretto alla formazione della umanità;... La nostra capacità di ragionare deve divenire ragione, la nostra sensibilità affinata arte, i nostri impulsi genuina libertà e bellezza, i nostri moventi amore per l'uomo.
(Idee per la filosofia della storia dell'umanità)
Ma la realizzazione piena dell'umanità è un obiettivo che trascende la storia, il piano spazio-temporale; sta al di là, come un ideale inattingibile, ma verso cui l'uomo si avvicina, guidato invisibilmente dal Creatore. Pertanto, per Herder, il trapasso alla piena umanità si avrà solo quando l'uomo abbandonerà la sua naturalità, e dalle ceneri di questa si libererà quell'ideale, la pura immagine dell'umanità che egli porta in sé.
Sul piano della storia, quindi, il cammino della civiltà consiste nella progressiva liberazione dell'uomo dalla dipendenza dalle sue condizioni naturali di esistenza; il che equivale al progressivo attingimento di verità, bellezza e amore. Pertanto la condizione storica dell'uomo è di passaggio dal mondo naturale al mondo divino.
Tutto, in natura, è collegato: una condizione tende verso l'altra e la prepara. Se, dunque, l'uomo chiude la catena dell'organizzazione terrestre come suo anello ultimo e supremo, perciò egli stesso inizia anche la catena di un genere di creature piú elevato, come suo membro piú basso; pertanto egli è, verosimilmente, l'anello di collegamento tra due sistemi della creazione che si prolungano l'uno nell'altro... Ora si fa dunque chiara la strana contraddizione in cui l'uomo si mostra. Come animale, egli serve alla terra, e aderisce ad essa come al luogo in cui abita; come uomo, egli ha in sé il seme dell'immortalità, che esige un altro giardino... L'uomo ci presenta, quindi, due mondi ad un tempo: e questo costituisce l'apparente duplicità della sua essenza.
(Idee per la filosofia della storia dell'umanità)
Il fatto che l'uomo, nella condizione storica, non riesce a distinguere la sua futura condizione metafisica, non deve frenarlo nel cammino. Egli deve vivere la speranza che l'opera del Creatore lo condurrà alla meta. Questa speranza è il contrassegno della fede.
In questa visione totale, Herder colloca i suoi interessanti contributi in tema di filosofia del linguaggio.
Anche il linguaggio, come le opere dell'arte, in quanto produzione dell'attività spirituale dell'uomo, è una manifestazione del divino nella storia. Anch'esso, come tutte le forme in cui si esprime l'intelligenza umana, ha una genesi, una vita, una morte. Sicché la storia dell'uomo è costellata di una pluralità di linguaggi: ma, sempre, ognuno è «specchio della nazione e dell'epoca». E come l'individuo umano si sviluppa dall'infanzia alla maturità, dalla fantasia alla razionalità, cosí ogni linguaggio passa da una forma originale contraddistinta da elementi sensibili, fantastici, poetici, ad una forma di espressione razionale e pragmatica: ne perderà in ricchezza, ma ne acquisterà in perfezione formale ed efficienza.
In Herder dunque prendono nuova forma e nuova sistemazione tanti temi di filosofia della storia e della civiltà che si ritrovano in G. Vico (che peraltro era ignoto ad Herder); ma ugualmente si ritrovano tanti spunti che saranno presto e piú compiutamente teorizzati dagli idealisti. Il che indica, comunque, la fecondità e il ruolo intermediario di Herder tra la vecchia e la nuova epoca. Ciò che invece non ritroveremo negli idealisti e non risultava espresso in Vico, è la saldatura tra storia e metastoria, tra vita terrena e vita ultraterrena, che dà uno specifico significato alla concezione dell'uomo herderiana.

Il percorso umano verso l’individuazione nel pensiero di Erich Fromm

a cura DI D. PICCHIOTTI
Soluzioni al paradosso esistenziale

Fromm considera, come si è visto, caratteristica intrinseca della natura umana la costante ricerca di una soluzione alla contraddizione in cui consiste la sua essenza.
In tale tentativo l’uomo può percorrere due vie diametralmente opposte: quella progressiva, verso l’emancipazione da quei vincoli che lo rendono ancorato alla natura e limitano il suo sviluppo, e quella regressiva, nella quale la disperata ricerca dell’armonia perduta lo rende schiavo delle sue passioni irrazionali, con l’effetto di perpetuare la sua condizione di dipendenza.

I primi passi mossi sulla via dell’individuazione in virtù dell’autoconsapevolezza, apportano all’uomo indipendenza e razionalità, ma al tempo stesso lo rendono in grado di percepire la propria solitudine, la propria separazione dai suoi simili e da un mondo nei confronti del quale egli percepisce la propria impotenza. L’insicurezza, l’ansia esistenziale che ne derivano, lo pongono di fronte all’alternativa tra il rinnegare la propria umanità, barattando la libertà conquistata con nuove dipendenze e costrizioni, ed il progredire sulla strada intrapresa, quella dell’indipendenza e della libertà positiva, che sola può permettergli la propria realizzazione.

Il progressivo distacco dall’originaria unità con la natura, il suo emanciparsi da quei legami che al tempo stesso lo opprimono e gli danno sicurezza, conduce l’uomo alla conquista di una sempre maggiore libertà. Ma tale libertà, afferma Fromm, come si può osservare nell’uomo moderno che può considerarsi sommariamente emerso dalle costrizioni della società pre-individualistica, rimane una libertà negativa, quella che Fromm definisce libertà da, che costituisce la precondizione, ma non si identifica, con quella libertà positiva, libertà di, che sola può consentire all’uomo il pieno sviluppo delle sue potenzialità.

La libertà progressivamente conquistata, finché rimane una libertà negativa (dai vincoli naturali, da costrizioni esterne), non può servire a placare l’insicurezza dell’uomo ed il vuoto che egli sperimenta come conseguenza della sua separazione.

Il peso di questa libertà lo costringe dunque ad affrontare il paradosso della propria esistenza. E le soluzioni che egli può dare sono riconducibili fondamentalmente a due sole alternative: egli può relazionarsi attivamente al mondo attraverso le proprie facoltà umane di ragione e di amore, oppure inseguire disperatamente la sicurezza rigettandosi nella natura dalla quale è venuto, nelle sue origini di essere animale e pre-individuato, e a spese della propria integrità fuggire dalla libertà conquistata.

Ciò può considerarsi valido sia a livello filogenetico che ontogenetico, sia per quanto riguarda la storia dell’esistenza umana che quella personale dell’individuo, poiché il destino dell’umanità è anche quello di ogni individuo.

Così come nel corso della storia l’uomo è emerso dallo stato di unione con la natura acquisendo consapevolezza di se stesso come entità separata, analoga è la sorte dell’individuo nella sua storia personale. Nel corso del processo di individuazione il bambino diviene sempre più capace di porre se stesso al centro del suo rapporto con il mondo, che nei primi stadi dello sviluppo non è vissuto come entità separata, e sviluppando le proprie facoltà emotive e razionali impara a far uso della sua ragione e ad affermare la propria volontà.

Fromm mette in evidenza il carattere dialettico del processo di individuazione, sia a livello individuale che sociale: emancipandosi da quei legami che, pur limitandolo, gli danno sicurezza e senso di unità e di appartenenza, l’uomo diviene cosciente di sé come entità separata, ma al tempo stesso capace di percepire il proprio isolamento. L’ansietà, il peso della responsabilità che la propria libertà comporta, può risultargli insostenibile, ed indurlo ad aggrapparsi a nuovi vincoli, a retrocedere nel processo di individuazione abbandonando la propria libertà nella disperata ricerca di nuove fonti di unità e sicurezza.

Il cammino dell’uomo verso l’individuazione, sia nel corso della storia umana che individuale, comporta dunque un percorso prolungato, non privo di insidie che possono farlo sprofondare in nuove dipendenze. I legami alla madre e alla natura, dai quali è emerso, divengono così legami al sangue, alla terra, al clan, alla casta, alla propria comunità sociale o religiosa, l’appartenenza alle quali diviene criterio per stabilire l’umanità di altri individui. Ma in tempi più recenti anche lo stato, la patria, la razza, la bandiera, sono divenuti oggetto di tali legami antirazionali e regressivi, con gli effetti catastrofici che ben conosciamo.

Ma nessun nuovo legame che l’uomo possa crearsi può permettergli di riguadagnare la perduta armonia. La soluzione regressiva si rivela dunque praticabile, ma deleteria per la sua integrità. La sola soluzione produttiva tramite la quale l’uomo può vincere il suo isolamento è quella di percorrere fino in fondo la strada dell’individuazione tramite la sua spontanea attività, ponendosi in relazione attiva con i suoi simili, con se stesso e con il mondo.

La possibilità dell’individuo di affermare un tale tipo di rapporto è funzione della sua struttura caratteriale, che al tempo stesso costituisce un valido indicatore del livello da questi raggiunto sulla via progressiva o rispettivamente regressiva. Ma Fromm considera ogni società caratterizzata da un certo livello di individuazione, che generalmente l’individuo medio non può superare. E dunque, in ultima analisi, nel pensiero di Fromm, la possibilità di un approccio produttivo alla vita risulta in gran parte condizionata dalle circostanze socioeconomiche e politiche cui l’uomo è soggetto, vista l’influenza che queste esercitano, tramite lo specifico modo di vita e le modalità di produzione ad esse sotteso, sul carattere dell’individuo.

Infatti, come Fromm afferma, soltanto in una società che consideri l’uomo come il suo fine più alto, e mai come un mezzo per altri fini, che sia fondata sui principi dell’amore e della giustizia, della solidarietà e dell’uguaglianza tra individui nel rispetto della loro libertà e diversità, potrà affermarsi il carattere produttivo come orientamento dominante, e concretizzarsi questa possibilità per la maggior parte delle persone.

martedì 23 settembre 2008

MAINE DE BIRAN-VITA E OPERE

a cura DI D. PICCHIOTTI

Nato a Grateloup vicino a Bergerac (Dordogne, Francia), il 29 novembre, 1766 e morto a Parigi, il 16 luglio del 1824, François-Pierre-Gonthier Maine de Biran ha studiato a Périgueux, ha fatto parte dell'esercito, ma dopo alcuni anni si è dimesso ed è entrato in politica. Nell’aprile del 1797 fa parte del Consiglio dei "Cinq Cents"; tuttavia, poiché ha subito l'ostilità del Direttorio per le sue simpatie monarchiche, si ritira a Grateloup, dove si dedica alla filosofia. La sua costituzione era fragile e sensibile e la sua inclinazione filosofica già si era manifestata tramite le sue osservazioni sull'influenza della condizione fisica sulla morale. Come ideologo vinse il premio al l’Istituto con il suo saggio Sull’abitudine (1802); ma il suo Decomposizione del pensiero (1805) mostra che egli sta deviando dalla teoria di quella scuola e in La percezione immediata (1807) e Rapporti del fisico e della morale dell’uomo (1811), è un antagonista della filosofia di XVIII secolo. Allora egli rientrò nell'arena politica e fu eletto al Parlamento in 1812, 1815 e 1820. Nell’ultima fase della sua vita, la sua tendenza al misticismo lo ha riportato gradualmente verso un Cristianesimo pratico. Tre fasi contrassegnano lo sviluppo della sua filosofia. Fino a 1804, una fase denominata "filosofia della sensazione", in cui era un seguace del sensismo del Condillac, che presto ha abbandonato per un sistema basato su un'analisi della riflessione interna. Nella seconda fase - la filosofia della volontà - 1804-18, per evitare il materialismo ed il fatalismo, ha abbracciato la dottrina dell’immediata appercezione, che indicava che l'uomo conosce se stesso e le cose esteriori dalla resistenza del suo sforzo. Riflettendo, l’uomo rileva lo sforzo volontario che differenzia il suo interno dalla sua esperienza esterna, imparando così a distinguersi fra l’ego ed il non-ego. Nella terza fase - la filosofia della religione - dopo il 1818, scopriamo che De Biran sostiene una psicologia mistica intuitiva. All’uomo sono date due condizioni di vita: la rappresentazione (comune agli animali) e la volontà (volontà, sensazione e percezione); ma Mainde de Biran ne aggiunge una terza: l’amore o durata dell'unione con Dio, in cui la durata della tolleranza divina assorbe la rappresentazione e la volontà. Maine de Biran è ritenuto da Cousin come il metafisico francese più grande dopo Malebrahche. Il suo genio non è stato riconosciuto completamente fin dopo alla sua morte, poiché il saggio Sull’abitudine (Parigi, 1803) fu l'unico libro che è stato pubblicato sotto il suo nome durante il corso della sua vita; ma la sua reputazione è stata stabilita saldamente sulla pubblicazione dei suoi scritti, in parte da Cousin (Aperture filosofiche di Maine de Biran, Parigi, 1834-41) e in parte da Naville (Aperture inedite di Maine de Biran, Parigi, 1859).

IL PENSIERO

Per François Pierre Maine de Biran la riflessione interiore - su cui deve basarsi l'autentica filosofia - conduce ad una visione spiritualistica. Con ciò egli dichiara di porsi nella tradizione di pensiero che va da Montaigne a Pascal e a Malebranche. È vero che la sensibilità umana è "passiva", ma è pur vero che l'esperienza interiore testimonia una "libera attività", indipendente dai condizionamenti della sensazione e della stessa realtà esterna. Questa libera attività anzi ha un primato di valore; nel senso che essa, in modo autonomo, e secondo un criterio permanente di perfettibilità dei propri prodotti, traduce le sensazioni, molteplici e instabili, in conoscenza e in azione. Essa dunque è la condizione assoluta dell'attività teoretica e dell'attività pratica dell'uomo. Tale attività è la caratteristica della coscienza. Ma che cos'è la coscienza? L'autoriflessione ce la indica come il nostro "senso intimo"; cioè il "sentimento di esistenza individuale", o anche il sentimento dell'identità di sé con sé del soggetto conoscente. Sul piano, dunque, del discorso teoretico, essa rappresenta non solo la condizione di ogni conoscenza, ma essa stessa una prima la piú semplice e insieme la piú certa - forma di conoscenza; cioè la conoscenza del proprio io come unitario, stabile, permanente nella sua identità; conoscenza del proprio io che non si lascia travolgere e trasformare dalla molteplicità e varietà delle sensazioni, ma che è il centro in cui queste acquistano valore conoscitivo. Sul piano, poi, del discorso pratico, la coscienza testimonia all'io che vuole ed agisce di essere "forza" e "causa", unico principio di ogni atto di libera volontà e unica origine di tutti i suoi prodotti. C'è infine un terzo piano su cui va inoltre condotto il discorso sulla coscienza: quello religioso, quello della fede. Il "senso intimo" rappresenta la fonte delle certezze religiose, e soprattutto di quella che "esiste un Essere ordinatore di tutte le cose", cioè Dio. E infatti nella coscienza, attraverso l'esperienza della preghiera e della meditazione, che Dio si manifesta all'uomo essa è pertanto il "luogo" di una "rivelazione originaria di Dio" che non solo non contraddice, ma integra e potenzia quel]a di cui la Chiesa è depositaria e custode. L'uomo dunque ha tre vite distinte: quella organica, quella cosciente e quella religiosa; la prima è in funzione della seconda, ma questa non si riduce - come voleva Condillac - alla prima, né dipende totalmente da essa; inoltre la seconda è in funzione della terza, ma anche in questo caso la terza non può ridursi o esaurirsi nella seconda. Di qui de Biran trae alcune conclusioni, come ad esempio quella che la libertà che si esperisce nella vita cosciente non costituisce il grado massimo di libertà dell'uomo; infatti solo nella vita religiosa la libertà è compiuta, in quanto l'uomo è completamente sottratto alle influenze delle passioni. Sul piano formale il discorso filosofico di de Biran approda a un esito religioso; in realtà la prospettiva religiosa ne costituisce il presupposto logico e la motivazione. Esso risponde allo scopo di garantire razionalmente l'autorità della Chiesa il cui messaggio, per il filosofo, trova fondamento psicologico nella rivelazione interiore di Dio all'individuo; esso è conformato all'obiettivo di difendere la continuità della presenza della Chiesa nella tradizione storica. Ma c'è di piú; la difesa del ruolo della Chiesa è contestuale a quella delle istituzioni socio-politiche esistenti; de Biran infatti tinge d'ottimismo l'evoluzione di quelle istituzioni, garantendone religiosamente l'autorevolezza e l'autorità. Come l'individuo - egli dice infatti - tende all'assoluto, cosí anche l'umanità nel suo complesso; le istituzioni sociali e politiche pertanto sono in cammino verso forme sempre piú perfette; il destino dell'individuo e quello dell'umanità associata si compiranno quando i "valori assoluti" diventeranno norma sia dell'esistenza singola che della convivenza civile.

ALLE ORIGINI DELLO SPIRITUALISMO FRANCESE

Maine de Biran può sicuramente essere considerato uno dei padri fondatori dello spiritualismo francese: egli fonda una nuova concezione della coscienza su base non metafisica, ma meramente psicologica, dandone una fondazione più scientifica che non filosofica; egli si colloca come propaggine estrema della corrente dell’ideologie, dello studio delle idee - intese come prodotto della mente - nella loro correlazione col corpo. Maine de Biran asserisce che dobbiamo partire da un "fatto primitivo" - che può esser posto a fondamento della scienza - che non sia un fantasioso principio astratto (quale era l’Io di Fichte), ma un fatto: ricollegandosi al "fatto", egli - che pure del positivismo fu acerrimo nemico - si accosta alle tesi e alla terminologia positivistiche. Il fatto originario in questione è il "senso interno" (detto anche "sentimento della mia esistenza"), con un fin troppo evidente richiamo al cogito cartesiano (letto però in chiave scientifica). Tale originario sentimento della mia esistenza è dato dal fatto che mi sento opporre una resistenza da qualcosa di a me esterno: è cioè dato dalla coscienza di uno sforzo, il sentirmi come attività lottante contro la passività dell’esterno che mi si oppone e mi fa resistenza (e tra questi oggetti esterni a me opponentisi c’è il mio stesso corpo, che lotta contro il mio sforzo interno). Riconoscere al soggetto l’attività (ovvero la spontaneità) come sua essenza equivale a riconoscere che egli è libero, sottratto da una catena causale i cui singoli anelli sono insieme attività (causano) e passività (sono effetti di altre cause): la causalità necessaria, allora, si deve arrestare un attimo prima che si entri nell'interiorità del soggetto. "Porre in discussione la libertà significa mettere in dubbio il sentimento dell’esistenza dell’io, che da essa non si differenzia […] La libertà, o l’idea della libertà, considerata nella sua fonte reale, non è altro che il sentimento della nostra attività e del nostro potere di agire e di produrre lo sforzo costitutivo dell’io": nel soggetto impera un’energia prorompente all’esterno e scontrantesi con esso; libertà è, appunto, sentire la nostra attività interna, lo sforzo costitutivo dell'io. Sebbene nel mondo esterno regni il determinismo, sussiste un ambito che da esso non è minimamente sfiorato: tale è l’ambito della coscienza, regno della spontaneità. Questo modello è ripreso e corretto dallo spiritualismo: caratteristica precipua è la distinzione e la separazione dei piani, per cui coscienza e realtà materiale sono due sfere eterogenee e quindi incompatibili, senza che una sia la versione nobilitata dell’altra. Nello spiritualismo, tuttavia, il discorso si fa più complesso: la coscienza è caratterizzata da spontaneità e, per ciò, è libera e sottratta alla causalità; ma poi lo spiritualismo tende a fare della coscienza la realtà fondamentale, rispetto a cui la non-coscienza (ossia la natura) è realtà subordinata e derivata, quasi come se fosse una coscienza addormentata e oggettivata, che ha perso lo smalto delle sue prerogative. Si giunge per tal via ad un monismo camuffato, per cui l’unica realtà è la coscienza, e la natura - eccanicisticamente intesa da Cartesio, da Kant e da Maine de Biran - è coscienza sviluppatasi in maniera più grossolana. Ciò significa che, in qualche modo, l’intera realtà è spontanea, anche se non manifestantesi nella forma umana della libertà: sicchè lo spiritualismo può affermare la libertà in forma generalizzata, tale per cui essa è estendibile all’intera realtà, poiché anche la natura è spontanea e attiva, capace di produrre il nuovo: in tal senso, l’effetto non può mai essere inteso come mero risultato meccanico della causa.

S. Kierkegaard: il difficile dialogo con l’anima ( Estratto)

a cura DI D. PICCHIOTTI

Il momento del passaggio dalla modalità di esistenza estetica a quella etica può sovrapporsi a quel “mezzogiorno della vita” che rappresenta il punto di viraggio dall’atteggiamento estroverso a quello introverso o anche la silenziosa, costante oscillazione dialettica tra l’investimento sulla Persona e il contatto con la funzione dell’Anima.

‘Malattia Mortale’ può essere considerato il permanere nevrotico, sterile, nella disperazione, per eccesso di inconsapevolezza o mancanza di coraggio, in quanto la vita, quella vera, è solo per i coraggiosi. ‘Malattia Mortale’ è la nevrosi immobilizzante che impedisce lo sviluppo dalla forma estetica di esistenza a quella etica, da cui si deduce che scegliere di essere autenticamente se stessi costituisce l’unico antidoto valido contro la morte psicologica.

Il percorso filosofico proposto da Kierkegaard attraverso gli stadi estetico, etico e religioso e i relativi vissuti di disperazione, impegno e aspirazione può permettere un accostamento tra i concetti di esistenza e di individuazione specialmente se si utilizzano le funzioni dialettiche dell’Io e l’Ombra, della Persona e l’Anima, del Sé.

Base comune su cui si sviluppano gli ‘Stadi sul cammino della vita’ o, se vogliamo, i percorsi individuativi dei ‘singoli’ dato che per entrambi gli autori, l’uomo è un essere in continua via di compimento .


Altro suggestivo accostamento è quello tra le funzioni del concetto di archetipo junghiano e quello di possibilità in Kierkegaard.

L’archetipo, la struttura strutturante, può anche essere visto come un concentrato di possibilità, la precondizione di tutte le dimensioni del possibile, lo snodo dal quale emergono le potenziali mutazioni di significato. E proprio in Kierkegaard l’esistenza può essere considerata il territorio entro cui circoscrivere tutte le dimensioni del possibile.

L’uomo è continuamente sottoposto all’oscillazione dialettica tra possibilità e necessità, ovvero il confronto tra l’inconscio e il principio di realtà, tra la libertà del possibile e la dittatura del reale.

Ed è proprio di fronte ad una situazione di crisi che può avvenire l’apertura al possibile, ovvero il disvelamento dell’archetipo.

L’esistenza, concatenazione concreta di possibilità e relative scelte, si dipana in continue fluttuazioni tra angoscia, diretta espressione della libertà di scegliere, e negazione di angoscia, ovvero l’appiattimento, il livellamento delle possibilità di scelta.

In altre parole, tra un approccio autentico ed uno in autentico all’esistenza.

Il paradosso consiste nel constatare che ‘Timore e Tremore’, il titolo di un’altra opera fondamentale di Kierkegaard, è proprio il sentimento di quei coraggiosi che si sentono in grado di sopportare il peso della responsabilità personale ed esclusiva della propria esistenza, mentre gli autentici pavidi vengono alleviati da tutto ciò.

È il costo umano di ogni percorso di individuazione, “il patire, la passione dell’Io”, come affermava Jung.
Erika Czako

Nell’iniziale citazione tratta da ‘Ricordi, Sogni, Riflessioni’, Jung ci suggerisce che questo contatto con l’infinito può essere sia capito che sentito, pone cioè sullo stesso piano le funzioni del pensiero e del sentimento ricordandoci che la comprensione delle esperienze deve scaturire dall’integrazione di fattori emotivi e razionali e perciò non si può delegare solo alla razionalità o all’emotività il compito di guidarci nelle nostre scelte.


Questa valutazione stimola un accostamento, per libera associazione, con Kierkegaard, filosofo del sentimento, in particolare quello religioso, ma, al tempo stesso, lucido e razionale analizzatore della condizione umana.

Apparentemente Kierkegaard non rientra nel quadro delle radici filosofiche del pensiero junghiano, debitore semmai più dello gnosticismo e del neoplatonismo, di Schopenhauer, Schelling e, ovviamente, di Nietzsche. Eppure vi sono alcuni punti di contatto che si rivelano stimolanti.


Innanzi tutto la centralità del concetto e dell’esperienza dell’angoscia, ovvero il sentimento cardine della vita psichica, il prisma che permette di scomporre ed analizzare il vissuto.

Sia Kierkegaard che Jung condivisero una lunga consuetudine con questo stato d’animo e, forti della loro capacità di analisi introspettiva, trassero da questa esperienza emotiva le basi per la loro successiva speculazione filosofica e psicologica.

Ebbero cioè la capacità di tradurre in termini creativi la loro sofferenza interiore.

È lecito pertanto accostare l’esperienza della ‘disperazione’, momento decisivo nella tematica di Kierkegaard, alla discesa agli Inferi, la nekyia, che permise a Jung di dischiudere le porte dell’inconscio.

Il contatto con l’angoscia coincise, in entrambi i pensatori, con il momento decisivo della scelta di esplorare dentro se stessi, per riconoscersi e diventare autenticamente ciò che si è.

Come direbbe Winnicott, salvare il vero Sé differenziandolo da quel falso Sé, estetico, costruito con la funzione di sbarramento difensivo.

‘Aut-Aut’, oltre che titolo di una delle opere più significative di Kierkegaard, può essere considerato anche il codice descrittivo del primo passo, quello fondamentale: la scelta, il farsi carico della libertà di essere se stessi, ovvero della possibilità di individuarsi, accettando l’allineamento tra libertà, possibilità, esistenza ed individuazione.

E la libertà, non a caso, viene collocata al primo posto. Altissimo è il prezzo che si è chiamati a pagare, perché incommensurabile è il valore della libertà, sia interiore che estrinseca.

La disperazione è anche consapevolezza della libertà di scegliere, del non potersi ormai più sottrarre al dovere di essere.

La disperazione costituisce una scelta, così come si sceglie di essere se stessi.

È anche il momento pervaso da un forte sentimento di colpa, proporzionale al sentimento di libertà che si vuole esprimere. Ogni cammino di individuazione inizia in questo clima psicologico. L’importante è capire che al sentimento di colpa segue il pentimento, l’accettazione di sé, e poi ancora l’assoluzione, ovvero la personalità esce dagli angusti ambiti storici e si volge verso l’infinito.



Il momento del passaggio dalla modalità di esistenza estetica a quella etica può sovrapporsi a quel “mezzogiorno della vita” che rappresenta il punto di viraggio dall’atteggiamento estroverso a quello introverso o anche la silenziosa, costante oscillazione dialettica tra l’investimento sulla Persona e il contatto con la funzione dell’Anima.
‘Malattia Mortale’ può essere considerato il permanere nevrotico, sterile, nella disperazione, per eccesso di inconsapevolezza o mancanza di coraggio, in quanto la vita, quella vera, è solo per i coraggiosi. ‘Malattia Mortale’ è la nevrosi immobilizzante che impedisce lo sviluppo dalla forma estetica di esistenza a quella etica, da cui si deduce che scegliere di essere autenticamente se stessi costituisce l’unico antidoto valido contro la morte psicologica.
Il percorso filosofico proposto da Kierkegaard attraverso gli stadi estetico, etico e religioso e i relativi vissuti di disperazione, impegno e aspirazione può permettere un accostamento tra i concetti di esistenza e di individuazione specialmente se si utilizzano le funzioni dialettiche dell’Io e l’Ombra, della Persona e l’Anima, del Sé.
Base comune su cui si sviluppano gli ‘Stadi sul cammino della vita’ o, se vogliamo, i percorsi individuativi dei ‘singoli’ dato che per entrambi gli autori, l’uomo è un essere in continua via di compimento . 

Altro suggestivo accostamento è quello tra le funzioni del concetto di archetipo junghiano e quello di possibilità in Kierkegaard.
L’archetipo, la struttura strutturante, può anche essere visto come un concentrato di possibilità, la precondizione di tutte le dimensioni del possibile, lo snodo dal quale emergono le potenziali mutazioni di significato. E proprio in Kierkegaard l’esistenza può essere considerata il territorio entro cui circoscrivere tutte le dimensioni del possibile.
L’uomo è continuamente sottoposto all’oscillazione dialettica tra possibilità e necessità, ovvero il confronto tra l’inconscio e il principio di realtà, tra la libertà del possibile e la dittatura del reale.
Ed è proprio di fronte ad una situazione di crisi che può avvenire l’apertura al possibile, ovvero il disvelamento dell’archetipo.
L’esistenza, concatenazione concreta di possibilità e relative scelte, si dipana in continue fluttuazioni tra angoscia, diretta espressione della libertà di scegliere, e negazione di angoscia, ovvero l’appiattimento, il livellamento delle possibilità di scelta.
In altre parole, tra un approccio autentico ed uno in autentico all’esistenza.
Il paradosso consiste nel constatare che ‘Timore e Tremore’, il titolo di un’altra opera fondamentale di Kierkegaard, è proprio il sentimento di quei coraggiosi che si sentono in grado di sopportare il peso della responsabilità personale ed esclusiva della propria esistenza, mentre gli autentici pavidi vengono alleviati da tutto ciò.
È il costo umano di ogni percorso di individuazione, “il patire, la passione dell’Io”, come affermava Jung. http://www.centrostudipsicologiaeletteratura.org/czako.html

Sviluppare un sentimento sociale

a cura DI D. PICCHIOTTI

Più ci avviciniamo alla realtà dei fatti e più si svela l'enorme complessità dei meccanismi che creano e perpetuano la sofferenza degli uomini e gli enormi squilibri nello sfruttamento delle risorse del nostro pianeta
. Ad un'attenta analisi molta pseudo-solidarietà si rivela essere una specie di acting-out individuale o condiviso. Dunque l'azione solidale non può dirsi supportata automaticamente da un etica solidale e sostenibile a livello globale. L' etica dovrà essere cercata, studiata e concordata fra quelli che abbiamo definito gli agenti dei diritti dell'uomo dal singolo individuo alle istituzioni.
Se guardiamo alla squilibrata distribuzione delle ricchezze nel pianeta dobbiamo riconoscere che esiste un'etica dominante nel cosiddetto Mondo Occidentale. Qui Occidente sta ad indicare un tipo di mentalità piuttosto che una definizione geografica.
Nel 1929 Rabhindranath Tagore celebre poeta e premio Nobel per la Letteratura nel 1913 scriveva:
"Oggi il denaro è fonte di ogni potere, ed è apprezzato più di qualsiasi altra cosa. Persino la politica estera di uno Stato non si basa più sull'ingrandimento territoriale, ma si indirizza piuttosto verso l'espansione commerciale, che è il mezzo di aumentare la ricchezza. Nell'epoca in cui la civiltà non si articolava tanto variamente, il dotto e il saggio, l'eroe e il filantropo erano molto più rispettati del ricco. Onorandoli, si onorava l'umanità stessa, e la gente trattava con disprezzo coloro che si limitavano a far denaro. Oggi la civiltà non è altro che un parassita della ricchezza. [...]
Nel mondo occidentale vi è un continuo attrito tra coloro che guadagnano molto denaro e coloro che rappresentano il mezzo per guadagnarlo, e non si vede il modo di eliminare questo conflitto. Poiché l'avidità della classe lavoratrice è uguale a quella della classe capitalistica. [...] Quando nella vita sociale l'avidità e l'adorazione della potenza diventano irrefrenabili, l'uomo non può più dedicarsi a sviluppare la propria umanità. Egli brama il potere, non il pieno sviluppo dell'io. [...]"
Possiamo qui leggere un esempio dell'etica ancora dominante nel nostro mondo che "brama il potere non il pieno sviluppo dell'io".
Ora potrebbe esistere una commistione fra questa etica dominante ed l'ideologia individualistica che permea l'intera storia della cultura occidentale. Lo stesso progresso economico, nato durante la rivoluzione Industriale con l'utilizzo della tecnologia e l'invenzione della moderna economia capitalistica ha utilizzato un modello ideologico implicitamente individualistico. L'ideologia dominante, se possiamo chiamarla semplicisticamente così, si fonda su un concetto di libertà e di felicità che è stato totalmente alterato da concezioni materialistiche piuttosto che valoriali.
Il filosofo P.R.Sarkar sostiene che il movimento umano è ispirato principalmente da due idee:
il Principio del Piacere Egoistico ed il principio dell' Eguaglianza Sociale
Il piacere egoistico si basa sul dogma non ha alcuna giustificazione morale ed è scevro da ogni moralità
"Qualunque cosa facciano gli esseri umani motivati dal Piacere Egoistico è per cercare piacere. Gli esseri umani si arrendono a questo dogma con la sola intenzione di raggiungere il piacere egoistico; perfino persone colte si sottomettono consapevolmente al dogma. Essi sanno che stanno abbandonando il loro intelletto al dogma, e che il risultato sarà indesiderabile; essi sanno e comprendono tutto ciò — e allora perché si sottomettono consapevolmente ad esso? Sono tutti peccatori volontari e accettano intenzionalmente i dogmi come verità. Si rendono conto che questi dogmi sono basati sul Principio del Piacere Egoistico ma pensano: "Non mi importa se è buono o cattivo, se fa del bene o del male agli altri, perché almeno ho goduto del piacere". Essendo motivati da questa idea rendono schiavi sé stessi dei dogmi.
Nel mondo civilizzato perfino persone colte seguono deliberatamente i dogmi, perché hanno un desiderio, nei recessi delle loro menti, di godere del piacere mondano in questo mondo fisico. Perfino in questo mondo civilizzato, dove è stato fatto cosi tanto progresso nel campo della conoscenza, le persone seguono ancora questi dogmi come se fossero ciechi. Le trappole di questi dogmi devono essere fatte a pezzi. I cancelli di ferro delle prigioni del dogma devono essere ridotti in polvere."
( Sarkar 1988 pag.39-40)
Il secondo principio dell'Eguaglianza Sociale è un principio razionale dominato dalla consapevolezza di realizzare la propria felicità, ma che riconosce la stessa aspirazione alla felicità agli altri esseri umani. Per questo sentimento la felicità è una metà contemporaneamente individuale e collettiva
" non saremo capaci di muoverci in avanti se ci compromettiamo con tutte le disparità e le ineguaglianze della vita collettiva. Dovremmo sradicare tutte queste ineguaglianze mentre al tempo stesso ci muoviamo verso la nostra meta...
Esiste nella nostra cultura un'associazione di "Rivoluzionaria Memoria" fra il concetto di uguaglianza e quello di Libertà che nella realtà è alquanto problematico. E' stata confusa la libertà del volere con la legittimità del potere. Inoltre è stato confusa la materialità con la immaterialità, per cui un desiderio immateriale o spirituale non potrà mai essere placato da risorse materiali che sono, in quanto tali, limitate. Concezioni diverse di libertà non sono affatto intercambiabili. E' dunque necessario capire ,quando si parla di libertà, a quale libertà ci si sta riferendo.27-08-2006 Lorenzo Vecchi

Intelligenze multiple

a cura DI D. PICCHIOTTI

Lasciando da parte la suddetta teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner, poiché si può considerare alquanto opportunista o commerciale, pare ovvio che esistano intelligenze multiple o una intelligenza multipla.
Le intelligenze multiple verranno identificate non solo per i diversi tipi di relazioni elementari coinvolte (spaziale, auditiva, cromatica, ecc.), ma anche per i meccanismi utilizzati o qualsiasi altro criterio associabile.
La classificazione delle intelligenze multiple potrebbe estendersi il più possibile perché, in effetti, per qualsiasi fatto o concetto si possono identificare le relazioni presenti, tuttavia chiamare intelligenza qualsiasi cosa non farebbe altro che eliminare il proprio concetto differenziatore e quindi l'utilità stessa della parola intelligenza. In altre sezioni è stato trattato qualche concetto specifico di intelligenza, segnalo di seguito alcuni casi che mi sembrano particolarmente interessanti:
2.c.1. Intelligenza in senso stretto
Corrisponde a ciò che è stato detto nella sezione riguardante le risposte sicure del gestore della conoscenza. L'intelligenza in senso stretto verrà intesa come la capacità di relazione, ma con la condizione aggiunta di avere un alto grado di affidabilità.
In altri termini, coincide con l'intelligenza condizionale quando il requisito associato è il già citato alto grado di affidabilità. Nella maggioranza dei casi in cui faccio uso della parola “intelligenza” senza specificazioni mi riferisco a questo concetto in consonanza con ciò che penso faccia il linguaggio popolare e parte della dottrina.
La verifica delle risposte allo scopo di ottenere l'affidabilità desiderata implica dei meccanismi biologici specifici, spiegati in modo piuttosto dettagliato nel libro della TGECV - Teoria Generale dell'Evoluzione Condizionata della Vita, che fanno in modo che l'informazione genetica del progenitore con minor potenziale sia più significativa di quella dell'altro, essendo più vicina alle funzioni relazionali comuni in entrambe.
In termini generali, credo che i principali fattori della percezione dell'intelligenza sono la profondità e l'originalità delle idee, oltre all'assenza di errori nei ragionamenti. Da non confondere con coloro che non esprimono i propri ragionamenti per non commettere errori visibili!
2.c.2. Fattore "g" o intelligenza generale
All'interno delle intelligenze multiple, questo concetto sarà il risultato dell'aggiunta alle funzioni relazionali in senso stretto della condizione che siano comuni a una grande quantità di processi dell'intelletto umano.
La sua rilevanza è dovuta al fatto che la sua misurazione risulterà molto utile in rapporto all'intelligenza in senso stretto. È, inoltre, quello che si avvicina di più al concetto di intelligenza misurata dai test d'intelligenza classici o coefficiente intellettuale tipico (detto anche quoziente intellettivo).
Queste misure presentano il grande vantaggio di essere indipendenti da fattori culturali, in quanto basati su calcoli matriciali o test di figure.
Lo studio sul carattere ereditario dell'intelligenza utilizza dati sul quoziente intellettivo che rispondono in gran misura a questa categoria. In ogni caso, se determinate funzioni relazionali sono ereditarie è logico supporre che le altre lo saranno ugualmente, nonostante abbiano meccanismi di espressione diversi.
2.c.3. Quozienti di intelligenza moderni
In un unico coefficiente integrano serie di prove, ad esempio matriciali o linguistiche, e si avvicinano o rappresentano in gran misura il potenziale delle intelligenze multiple. Tuttavia, come ho detto prima, credo che è molto più corretto dire che questi quozienti di intelligenza moderni assomigliano più al concetto di intelligenza relazionale che a quello di intelligenze multiple.
Per determinare in senso ampio la capacità intellettuale di una persona risultano più completi, però a mio avviso comportano due problemi fondamentali: siccome includono prove linguistiche, incorporano aspetti differenti all'intelligenza in senso stretto e sono influenzati dalla cultura e dll'educazione dell'ambiente.

Danza moderna

a cura DI D. PICCHIOTTI

Quando si parla di DANZA MODERNA, si parla di un movimento assolutamente nuovo che nasce sulla scena occidentale durante gli ultimi anni del '900. E' un movimento contro le forme tradizionali del balletto classico-accademico che domina incontrastato la scena europea, soprattutto in Francia ed in Italia. La danza moderna nasce quasi contemporaneamente in due luoghi lontani ma alla ricerca di nuovi stimoli: l'America e la Germania. La modern dance che nasce negli Stati Uniti e si sviluppa sotto l'influenza di tre grandissime: Isadora Duncan, Loie Fuller, Ruth St.Denis. L'Ausdruckstanz, cioè la danz aespressiva tedesca, che continua tuttora nell'incredibile ascesa del tanztheater con Pina Bausch.
Il termine danza "moderna", è alquanto effimero e generalista; viene utilizzato per differenziarsi da l genere classico e romantico del balletto, ma racchiude un mondo intero dentro di sé. La danza moderna nasce quando il movimento diventa la caratteristica principale del ballo. Nella danza classica, più che movimento, esistevano delle pose, perfette ed artificiali, il più delle volte incuranti delle naturali tendenze del corpo. Il movimento era astratto, in secondo piano, anzi si faceva il possibile per nascondere lo sforzo, l'azione dei muscoli. Con la danza moderna il corpo viene liberato ed il movimento diventa l'esperienza di base. Diventa, al contrario del balletto classico, un punto di vista e non più un sistema terminato di mosse, pose ed atteggiamenti.
La modern dance americana.
Le giovani danzatrici americane alla fine dell'800, sono figlie di un ambiente estremamente diverso da quello europeo. Nel vecchio mondo, la donna veniva allevata come persona destinata alla sfera privata, al mantinemento della casa e all'allevamento dei figli, mentre in America la donna viveva già nella sfera pubblica, del sociale, addirittura stava emergendo allora nel mondo politico. La danza in quella società era quindi vista come simbolo di trasgressione, di sessualità, di potere femminile di esibire le proprie idee e la propria bellezza. L'America potè creare un genere completamente uovo di danza perché non fu mai influenzata fino in fondo dal balletto europeo, che veicolava dei valori legati al vecchio mondo. I coreografi europei operavano già da tempo nelle compagnie americane, ma il balletto non riusciva a svilupparsi o a raggiungere le punte di entusiasmo registrate in Europa.
Solo un maestro francese Francois Delsarte, che si era dedicato allo studio del movimento, dei gesti delle espressioni, riuscì ad incidere fortemente con il suo insegnamento e diede il via allo sviluppo della danza moderna. Effettivamente quello che oggi definiamo "delsartismo", è l'elaborazione successiva dei suoi discepoli, poiché egli non lasciò nulla di scritto sul suo insegnamento. Eppure il principio che Delsarte ha divulgato è stato fondamentale: il delitto più grande è un gesto senza significato. i racconta che egli studiò attentamente gli esseri umani in ogni stato di tensione fisica ed emotiva; andò addirittura negli ospedali per registrare le espressioni di sofferenza o disperazione dei malati!
Le grandi ballerine.
Quando si parla delle tre grandi ballerine dell'epoca, si parla di personalità di spicco nella cultura del tempo, donne assolutamente moderne, che hanno gestito la loro carriera da manager, coreografe che hanno fatto delle loro idee il manifesto di un'epoca. Amate da uomini di cultura, politici, poeti e filosofi, hanno segnato la fine dello schematismo del balletto classico ed hanno aperto gli orizzonti alla danza moderna.
Isadora Duncan, la ballerina scalza.
La Duncan rompe definitivamente ogni rapporto con il balletto classico e restituisce al corpo la sua fisicità, la sua bellezza. La ballerina si ispirò moltissimo alla grecia, alle sculture ed ai fregi del mondo antico, al movimento che era presente in essi. La sua danza è qualcosa che nasce internamente, è un sentimento che si sviluppa in sintonia con la musica ed il ritmo, quasi in uno stato di trance, dove lo spirito ed il corpo si liberano. La Duncan getterà tutti gli orpelli della ballerine (tutù, scarpette, ecc) e danzerà scalza e coperta di veli, proprio come una statua greca che improvvisamente prendesse vita.
Ruth St.Denis, la passione per l'oriente.
Ruth St. Denis parlò sempre di se stessa come una profetessa; la sua missione era quella di migliorare l'umanità attraverso la danza. Era una ballerina autodidatta, bellissima e con un temperamento creativo e deciso. Si appassionò fortemente alla cultura orientale, che nei primi anni del novecento aveva moltissimi sostenitori in America e creò delle coreografie che sembravano delle cerimonie rituali. In scena apparivano templi, sacerdoti, costumi esotici e lei era la bellissima sacerdotessa che con la sua danza evocava uno strano e sensuale piacere.
Loie Fuller, la dea della luce.
Fu attrice, manager, scrittrice teatrale, grandissima "esploratrice". Per la Fuller il movimento, tanto caro alla danza moderna, non era solo un corpo danzante, ma la luce, il colore, il fluttuare degli abiti. Danzava coperta di vestiti di seta con strascichi lunghissimi con cui giocava mettendoli in risalto tramite le luci del palcoscenico. Le sue coreografie consistevano in vortici di seta luminosa, il corpo quasi spariva per lacsiare spazio al movimento delle vesti e della luce. A sua venne chiamata la "danza serpentina" per le spirali che le si avvolgevano intorno creando un effetto magico e incantatorio.
La modern dance fu l'espressione più genuina della cultura americana del tempo, fu il "luogo" dove le personalità più disparate poterono emergere e dare il loro forte contributo artistico. "Vedo l'America danzare" aveva detto con spirito profetico Isadora Duncan.

martedì 16 settembre 2008

George G. Byron

a cura DI D. PICCHIOTTI

George Gordon Byron, nato a London nel 1788, figlio di un aristocratico stravagante e dissoluto, trascorse una infelice infanzia, tormentata tra l'altro da una deformità congenita a un piede, nella casa di famiglia in Scozia. Studiò alla 'public school' di Harrow e al Trinity College di Cambridge (1805-1808). Iniziò a pubblicare poesie. Insofferente dei ristretti orizzonti dell'alta società inglese, partì per un lungo viaggio in Spagna e in oriente. Tornò nel 1812 e si diede a pubblicare una serie di poemi che lo resero famoso. Il 27 febbraio 1812 (a 21 anni) fa il suo primo intervento alla Camera dei Pari: argomento, la sua opposizione alla legge voluta dai tories (dopo la protesta operaia del Nottinghamshire) che prevede la pena di morte per gli operai sabotatori; l'intervento gli guadagna l'inimicizia dei tories mentre i whigs lo accusano di demagogia. Nel 1815 si sposa, ma la moglie lo abbandona dopo un anno. Lo scandalo che ne seguì , con la voce tra l'altro che Byron avesse un rapporto incestuoso con la sorella, gli fecero perdere i favori dell'alta società londinese e lo costrinsero a lasciare l'Inghilterra. Si stabilì in Svizzera, a Venezia, a Ravenna, in un inquieto esilio fatto anche di molte donne conosciute, di varie classi sociali. Così a Ravenna incontra Teresa Guiccioli . Conquistato dalla causa dell'indipendenza ellenica, si recò in Grecia con una spedizione: voleva organizzare la rivolta contro i turchi. Morì di febbri a Missolungi, nel 1824.
Giovanissimo, Byron nel 1806 pubblicò il suo primo volume di poesie, Brani fugaci (Fugitive pieces), che fu immediatamente ritirato. Divenne noto come poeta satirico con il poema Bardi inglesi e critici scozzesi (English bards and scottish reviewers, 1809), sprezzante risposta alle critiche mosse dalla «Edinburgh review» alla sua precedente raccolta di poesie Ore d'ozio (Hours of idleness, 1807). Al periodo giovanile appartiene anche la lirica Lachin Y Ghair, dedicata alle Alpi Scozzesi, in cui appare già il motivo dell'esilio, innestato sulle radici culturali e mitologiche del ramo materno.
Dal ritorno dal viaggio in Spagna e oriente pubblicò i primi due canti del Pellegrinaggio del giovane Harold (Childe Harold's pilgrimage). Il poema lo rese celebre. Byron rappresentò un tipico "figlio del suo tempo", Harold-Byron misterioso dandy, uomo fatale a sé e agli altri. Nel 1816 e nel 1818 apparvero il terzo e il quarto volume. Harold, dopo una vita di piaceri, inizia un viaggio che lo porta dal Portogallo al Giura, dopo aver visitato Spagna Albania Belgio. Esule volontario e ribelle appassionato, medita sulle situazioni e le memorie che i vari luoghi gli sugge riscono: la triste condizione di schiavitù della Grecia, Napolé on a Waterloo, Rousseau e Julie. Nel quarto canto, dimessa la finzione del pellegrino, Byron parla in prima persona dell'italia e dei suoi grandi: Petrarca, Boccaccio, Tasso, Scipione, Rienzi, contrapponendo il passato storico e splendente al presente indegno.
In pochi anni seguirono numerosi poemi tra cui Il giaurro (The giaour, 1813), Il corsaro (The corsair, 1814), Parisina (1816). Diverse anche le poesie singole: Su di un cuore di corniola che fu spezzato è il rimpianto di un amore maschile (come del resto dedicò Thyrza al giovane Edleston).
Nel periodo dell'esilio scrisse il dramma Manfred (1817), Bep po (1818) che è il suo primo tentativo di poema burlesco, Mazeppa (1819), Don Juan (1819-1824) rimasto incompiuto. "Don Juan" è un poema satirico: ancora ragazzo, don Juan deve lasciare Sevilla e andare all'estero a causa di un intrigo amoroso. Un naufragio lo getta in un'isola. Lo salva Haidé e, la bella figlia di un pirata, che si innamora di lui. Il padre li sorprende, fa prigioniero don Juan imbarcandolo su una delle sue navi. Haidé e muore di dolore. Don Juan è venduto come schiavo a Gubelyaz sultana di Costantinopoli. Anche Gubelyaz si inna- mora di lui, ma don Juan riesce a evadere, si rifugia presso un esercito russo che assedia Ismailia. Si distingue per il suo valore, è inviato a San Pietroburgo dove si guadagna il favore della zarina Caterina che lo manda in Inghilterra per una missione politica. Gli ultimi canti rimasti sono una satira della società inglese. Incompiuti anche i drammi in versi Cain (1821) e Werner (1823). Tornò alla satira con Una visione di giudizio (A vision of judgment, 1822), violento attacco al poeta romanticista Southey
. La produzione poetica di Byron la si divide in due, prima e dopo gli avvenimenti del 1816. La prima fase romanticista è rappresentata soprattutto dal "Pellegrinaggio del giovane Harold": prevalgono il sentimento e i luoghi comuni del romanticismo.
Nella seconda fase Byron scrisse soprattutto poemi burleschi, a imitazione di quelli italiani (Pulci): la cosa migliore è il "Don Juan", poema eroicomico-satirico: all'interno di uno schema picaresco mescola satira, epica e romanzo. "Don Juan" incarna, oltre alle spinte tragiche dell'imperativo romanticista già pre senti nelle narrazioni orientaleggianti ("Manfred", "Cain"), lo spirito ironico di un eroe umanissimo, accondiscendente verso le contraddizioni terrene e la fallibilità del desiderio, sempre sospeso tra trasgressione e impatto con la caducità delle passioni umane. Attore e vittima della propria volontà, ma destinato a scoprire, ad ogni infatuazione amorosa, il senso dell'ingannevolezza come unico valore dell'esistenza, e a ricavarne una visione positiva del mondo, in cui sensualità e gioia di vivere riescono una volta tanto a contrastare i fantasmi della predestinazione al male. Nel "Don Juan" Byron usa un linguaggio antieroico, fatto di colloquialità, di momenti prosastici comici o semplicemente disarmanti (così come in "Beppo").
Tutti i personaggi di Byron, dal giovane Harold a Manfred, a Mazzeppa a Cain, sono accomunati dalla ricerca, sovrumana, che si nutre di una costante, distruttiva, struggente poetica dell'esilio. Un esilio che esalta l'io lirico attraverso la scelta della solitudine, che insegue dapertutto: nelle affollate calli veneziani come negli scenari orientali. Qui il suo senso, tipicamente romanticista, dell'esotismo, si sovrappone alla concreta esigenza di affrancamento dei Greci dall'oppressione ottomana. In questa poetica dell'esilio sta l'unità morale (e politica) di Byron.
Come poeta e come uomo Byron subì drammatiche contraddizioni, espresse nei toni del lirismo più delicato e nel più arrogante cinismo. Temperamento ambiguo, che si riflette nello stile: impetuoso, irrequieto e esuberante, con un ritmo che tende alla robustezza 'virile' oppure alla fluida eleganza.

domenica 14 settembre 2008

Il Pensiero Creativo


a cura DI D. PICCHIOTTI
La struttura del cervello e’ suddivisa in due sezioni "Destra e Sinistra", che sono particolarmente differenziate negli Emisferi Cerebrali Superiori. Tale suddivisione rispecchia il fatto che anche il nostro corpo e ha una articolazione binaria, abbiamo infatti due occhi due orecchie due buchi del naso una lingua che differenzia il dolce dal salato … due mani due gambe e cosi via dicendo.
Cio’ suggerisce che le funzionalita’del cervello, come espressione di una attivita’ pensante, sia anch’essa duplice, e cio’ vuol dire che possiamo significare cio’ che osserviamo mediante due modalita’ complementari: l’ una logico- razionale ( cioe’ :sequenziale, analitica ; deduttiva) ed l’ altra intuitiva-olistica ( cioe’ :sintetica, globalizzante, induttiva) le quali corrispondono fondamentalmente alle funzionalita’ differenziate dei due emisferi cerebrali.
Certamente e importante capire come queste due modalita’di pensare possano essere correttamente coordinate per acquisire differenti livelli e stili di pensiero, senza generare contraddizioni che interiormente conducono a pericolose scissioni della presa di coscienza nella costruzione di una propria personalita’ creativa.
Dagli studi di RMF ( Risonanza Magnetica Funzionale) si interpreta la differente funzionalità dei due emisferi cerebrali come duplice capacita’ di mettere in correlazione la "Memoria a Lungo Termine" (MLT) con i processi di "Memorizzazione a Breve Termine" (MBL) da cui consegue la maggiore o minore capacita e rapidita’ di azione/reazione del pensiero.
Il pensiero e’ infatti determinato dal flusso di attivita’ mnestiche che utilizzano differenti schemi di relazioni tra MLT e MBT,i quali si vanno ad interporre il vecchio ed il nuovo flusso di informazione circolante tra il mondo esterno e la nostra abilita cerebrale fisiologica d interpretazione e significazione della informazione complessiva.
* Emisfero sinistro: modalità logico formali per semplificare la complessita’ dell’ informazione.
La funzionalità logico-razionale dell’ emisfero Emisfero Sinistro si sviluppa attivando la capacità associativa della Area di Wernike che tende a facilitare una integrazione con la MLT. L’operazione logico significativa si basa sostanzialmente sulla combinazione di quattro operatori logico-formali che corrispondono nel linguaggio parlato a: . che servono per analizzare e combinare in termini di unita’ piu semplici la dinamica complessa del flusso della informazione. Il "SI" fa procedere il flusso del pensiero e la "E", permette di connettere una sezione o immagine acquisita con una successiva, mentre il "NO" interrompe il flusso del pensiero e lo devia verso una alternativa selezionalta da "O". Nella logica matematica tali operazioni vengono ulteriormente semplificate nelle quattro operazioni fondamentali Addizione, Sottrazione, Moltiplicazione e Divisione.
Questa Modalità dell’ Pensiero Logico attribuibile alla predominanza delle attivita’ dell’ Emisfero Sinistro del Cervello, indirizza l’ attenzione ed in confronto attuabile in termini di riconoscimento e di identita’, con la passata esperienza acquisita della MLT. Certamente il pensiero logico mediante i suoi operatori analitici, ha la capacita di scoprire il miglior modo di combinare sezioni del flusso di informazione separandolo selezionandolo e combinandone le sezioni prescelte ed infine generandone una estensione capace di determinare un pronostico sul da farsi; in questo modo diviene possibile risolvere i problemi complessi mediante una elaborazione significativa del flusso di informazione (PROBLEM-SOLVING).

Certamente tale metodologia contiene il rischio di consolidare le proprie modalita di pensiero attivando sistematicamente le aree cerebrali che permettono di combinare nel miglior modo il risultato di una riflessione logica; ma di fatto cio’ non permette il cervello nella sua interezza funzionale consente di riorganizzare intuitivamente l’informazione complessiva mediante percorsi paralleli piu’ propri delle modalita’ di pensiero dell’ Emisfero Destro. Il "SE" rappresenta una modalità di perpetua saggezza che corrisponde a un atteggiamento di "Dubbio" tendente a favorire l’intuito ed anche la fantasia, cioe’ le attivita’ cerebrali che indubbiamente divengono necessarie proprio per la valutazione complessiva degli schemi logici applicati troppo rigidamente, i quali tendono ad impedire la capacita di delineare nuove significazioni sulla base di rinnovate aspettative, non facilmente prevedibili mediante la ripetitiva applicazione delle sequenze combinatorie degli operatori logico formali.
* Emisfero Destro e "Pensiero Laterale" per modificare gli schemi logico-interpretativi.
La natura del pensiero e anticipativa e quindi guarda verso il futuro e per cio’ utilizza la ricostruzione esperienze del passato. Comprendiamo infatti come non sia possibile direzionare il flusso di pensiero nella direzione giusta osservando con sempre maggior attenzione logico-analitica nella direzione sbagliata.Da cio consegue che utilizzazione del "SE" agisce come il pollice tra le dita di una mano che essendo capace di sovrapporsi alle altre dita permette di renderci coscienti dei limiti del pensiero logico-formale e quindi facilita la capacita di sviluppare le attivita parallele del "PENSIERO LATERALE " ("Lateral Thinking"), che sono piu’ proprie dell’elle modalita’ di significazione complementare attuate dall’ Emisfero Destro del cervello al fine di EVITARE GLI ERRORI ancor PRIMA di RISOLVERLI (PROBLEM-SAVING).
Il medico psicologo, Edward DeBono identifica quattro fattori importanti che suggeriscono una atteggiamento volto a utilizzare in modo sinergico e complementare il pensiero laterale : 1) al fine di riconoscere e modificare i criteri e le idee dominanti 2) le quali polarizzano la percezione di un problema, 3) ed impediscono di cercare modalita’ differenti di guardare le cose 4) e quindi di flessibilizzare il controllo rigido del pensiero logico-lineare per incoraggiare lo sviluppo della creativita’.
Ricordiamo infine che divenire creativi non significa solo inventare qualcosa di nuovo o essere originali per forza, ma essenzialmente significa invece trovare soddisfazione nell’ utilizzare al meglio entrambe le potenzialità di sviluppo del proprio cervello. PAOLO MANZELLI
Director of LRE/EGO-CreaNet – University of Florence
E-mail: LRE@unifi.it --- manzelli@invisibilmente.i

giovedì 4 settembre 2008

Cage, il musicista che esplorò il silenzio

a cura DI D. PICCHIOTTI

“Mi è sempre parso che la musica dovrebbe essere soltanto silenzio”, ha scritto Marguerite Yourcenar. L'affermazione potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è affatto, perché il silenzio è una condizione del suono, anzi, è il più sublime dei suoni (troppo spesso lo si dimenticano!). E' materia sonora a tutti gli effetti, sottolinea e amplifica i suoni, li rende più vibranti, ne preannuncia l'entrata, crea suggestivi effetti di attesa e sospensione, può addirittura invadere il linguaggio. In una lettera indirizzata al compositore Ernest Chausson, datata 2 ottobre 1893, Claude Debussy scriveva un po' timidamente: “Mi sono servito di un mezzo che mi sembra assai raro, del tutto spontaneamente; cioè (non ride) del silenzio, come mezzo espressivo e forse come modo per fare risultare l'espressione di una frase”.
Il silenzio, il non detto, sono dunque pieni di potenziale significato, e non soltanto in musica: basti pensare alla psicoanalisi (nel momento in cui Webern scopriva il silenzio in musica, Freud lo scopriva in analisi), o alla filosofia, che, secondo Ludwig Wittgenstein, finisce proprio con il silenzio (“Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, si legge nel suo Tractatus). Purtroppo però, almeno nella maggior parte del mondo occidentale, il silenzio viene utilizzato assai raramente, perché ha un valore negativo e viene generalmente associato alla morte. I suoni, i rumori, ci ricordano invece di non essere soli, di essere vivi: rimuoviamo la morte facendoci sommergere dal rumore. Abbiamo paura della mancanza di suoni così come abbiamo paura della mancanza di vita. In realtà potremmo usare il silenzio per difenderci da tante di quelle cose, dall'inquinamento acustico, dal martellante “tunz-tunz” della techno, dalle fastidiose musichette che ci vengono propinate senza pietà in treno e in aereo, ultimamente anche negli autobus.
Per fortuna però, periodicamente, nel corso del Novecento da Claude Debussy (lui, come abbiamo visto, anche prima dello scoccare del secolo) e Anton Webern (il suo utilizzo sublime delle pause!) arrivando fino a Salvatore Sciarrino (si pensi al suo splendido Cantare in silenzio), e senza dimenticare naturalmente Gian Francesco Malipiero (Le pause del silenzio del 1917), Helmut Oehring (figlio di genitori sordomuti, che, con la sua Dokumentation I, ha scelto di rappresentate musicalmente la dimensione comunicativa del mondo silenzioso dei sordomuti), Luigi Nono, György Ligeti (il suo Nouvelles Aventures per esempio, che termina con un lungo silenzio che è parte integrante dell'opera), Karl Heinz Stockhausen, Giacinto Scelsi, Pierre Boulez, e nemmeno gli est-europei Arvo Paert (la sua poetica del Tintinnabulum: attesa solitaria di fronte al silenzio), Giya Kancheli e compagni, la musica si è spinta, con motivazioni estetiche spesso diverse (è importante sottolineare la diversità degli approcci), fino ai limiti del silenzio. Mai prima di John Cage però la “musica silenziosa” aveva osato tanto. Esattamente cinquant'anni fa, nel 1952, il geniale compositore – del quale ricorre anche il decennale della morte – presentò la sua rivoluzionaria partitura 4.33, che racchiude in sé molti aspetti dell'estetica cageana, e che egli stesso definì il suo pezzo migliore.
“Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore 4.33 come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”. Chiunque di noi, compresi tutti coloro che non hanno mai preso uno strumento in mano, lo può eseguire magistralmente. Perché? La domanda è più che legittima. Basta indossare un abito da concerto (giusto per entrare meglio nella parte dell'esecutore) e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché. L'esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica” che viene creata dai rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse, scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall'esterno. Cage ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una stanza anecoica, e cioè totalmente insonorizzata, perché anche lì uno sente almeno il proprio battito cardiaco). Il silenzio sarebbe da intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4.33 si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene.
“Sentivo e speravo – diceva Cage – di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell'ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero e ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora. Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo, radicalmente l'atteggiamento nei confronti del sonoro, invitando ad ascoltare il mondo: io decido che ciò che ascolto è musica. O, altrimenti detto: è l'intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un'altra definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica”. Un virtuoso “rumoroso” come Yehudi Menuhin, quando era presidente dell'International Music Council dell'Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio.
Una rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione nel porre la musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò venisse motivato da alcun genere di idealismo. La poetica di Cage si può inserire in quel filone dell'arte figurativa dell'astrattismo gestuale di Pollock, Kline, De Kooning. E se 4.33 non contiene alcun suono, Robert Rauschemberg ha realizzato dei dipinti, semplicissime tele bianche, che non contengono alcuna immagine (“questi dipinti diventano aeroporti per le particelle di polvere e le ombre che sono presenti nell'ambiente), mentre il compositore coreano Nam June Paik ha girato un film della durata di un'ora, che non contiene immagini, e Dieter Schnebel ha concepito la Muzik zum Lesen (musica da leggere), partiture che non sono destinate all'ascolto o all'esecuzione, ma alla lettura. Tutto ciò, da diversi punti di vista dunque, ci riporta alla concezione del silenzio di Cage: “Per me il significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione”, una rinuncia alla centralità dell'Uomo, il che implica l'eliminazione totale del gusto, del ricordo, e del desiderio, una regressione e una rinascita all'innocenza.
Il silenzio (“i suoni se ne stanno nella musica per rendersi conto del silenzio che li separa”), la filosofia zen, l'identificazione dell'arte con la vita (“la mia opera è intesa come dimostrazione della vita”), il ricorso alle tecniche aleatorie e casuali (con l'antico metodo cinese dell'I-Ching) volte a eliminare l'aspetto soggettivo del processo compositivo, l'apertura totale nei confronti del sonoro (“ora non ho più bisogno di un pianoforte: ho la 6th Avenue con tutti i suoi suoni”), la passione per Marcel Duchamp (“gli scacchi non erano altro che un pretesto per stare con lui”), per i funghi (partecipò anche a un quiz di Mike Bongiorno), per l'astronomia (per la stesura della partitura di Atlas Eclipticalis, ha usato un atlante astronomico, traducendo la posizione delle stelle in note), per la Finnegan's Wake di James Joyce, ne fanno una delle figure creative più originali ed aperte, ancora da scoprire sotto certi aspetti, del secolo appena trascorso.
Helmut Failoni – L'UNITA' – 08/04/2002