venerdì 20 febbraio 2009

A CURA DI D. PICCHIOTTI
Presentiamo qui il parere di Sigmund Freud sull'arte contemporanea, che sebbene curioso nel suo essere tradizionalmente orientato e radicato nella cultura tedesca, appare emblematico di quali reazioni hanno spesso provocato gli artisti delle avanguardie ai primi del Novecento. Questi artisti tra i loro contemporanei spesso non hanno avuto quei riconoscimenti che oggi invece ricevono, ma la critica si è sempre svolta civilmente sul piano della forza della ragione. Freud non ha certo affrontato l'arte contemporanea con la violenza invasiva delle censure naziste, preludio di quella maratona verso la catastrofe distruttiva che trovò nella Entartete Kunst un drammatico palcoscenico.
Quando Schiele e Kokoschka irrompono nel 1908 sulla scena artistica viennese, Sigmund Freud, che nel 1900 aveva già pubblicato la sua Interpretazione dei sogni, è ancora isolato e la rivoluzione psicoanalitica, con la messa in luce dei misteriosi labirinti dell’inconscio umano, non ha ancora prodotto concreti effetti sulla società.
E’ pertanto difficile istituire dei precisi rapporti tra gli espressionisti austriaci e Freud, se si esclude un generico riscontro di medesimi luoghi e analoghi tempi in cui sono vissuti. Parlavano la stessa lingua, vivevano nella stessa città, frequentavano comuni luoghi pubblici, dove circolavano discussioni incentrate soprattutto sulla sessualità e sul sogno.
In proposito basta ricordare il grande influsso che ebbero su Oskar Kokoschka le teorie sul matriarcato di Jakob Bachofen; il notevolissimo successo editoriale di "Sesso e Carattere" di Otto Weininger (1903), un vero e proprio "best seller" con le sue trenta edizioni e le numerose traduzioni in diverse lingue; per non parlare infine delle eterodosse pratiche terapeutiche che un certo Otto Gross andava proclamando come "vere" soluzioni ai disturbi psichici legati alla sessualità.
In questo ambiente è quasi automatico contestualizzare "la psicografia" che Alfred Kubin illustra nel suo romanzo "L’altra parte", pubblicato a Vienna proprio nel 1908. In questo lungo romanzo ancora simbolista, nel quale si racconta di Perla, capitale di un Regno del Sogno fondato dal misterioso Claus Patera, l’anonimo protagonista, un artista vero e proprio alter ego dell’autore, definisce la propria arte connotata da "uno stile frammentario, più scritto che disegnato, che esprimeva come un sensibile strumento meteorologico le minime oscillazioni del mio stato d’animo"(Alfred Kubin, L’altra parte, Milano Adelphi 1993, p. 147).
E’ una interessante definizione che ben si addice a quello stile espressionista che appare proprio nel 1908 a Vienna e di cui Kubin si rivela attento osservatore anche quando accenna al genere artistico "erotico" alquanto apprezzato forse come diretta conseguenza o riflesso del dibattito in atto. Nel suo romanzo Kubin crea inoltre un artista antagonista, quel Castringius le "cui opere pornografiche erano molto richieste" perché "alla moda. Disegni come: L’orchidea voluttuosa feconda l’embrione riscotevano moltissima ammirazione" (Alfred Kubin, L’altra parte, Milano Adelphi 1993,
Sappiamo quanto Freud si sia interessato all’arte in generale, come dimostrano il saggio su Leonardo, dove interpreta psicoanaliticamente il sogno dell’avvoltoio, e quello sulla statua del Mosè di Michelangelo per il mausoleo di Giulio II.
Ecco perché è quasi ovvio constatare come, alla luce delle teorie freudiane, alcuni critici abbiano spiegato l’espressionismo (da ex-pressio) quale risultato di un "pensiero inconscio" che turba "l’artista nel suo intimo e sia quindi espulso verso l’esterno per mezzo dell’arte, onde turbare anche la mente del pubblico. La forma …" così "… è poco più che un involucro per i contenuti inconsci che il consumatore a sua volta libera dall’involucro e scarta." Se si accettasse tale opinione l’opera d’arte risulterebbe il comune luogo di proiezione delle pulsioni profonde e inconsce dello spettatore e dell’artista: di Eros, l’istinto di vita, e di Thanatos, l’istinto di morte.
Ma per Freud l’arte non è un fatto meccanico e compito dell’artista dovrebbe essere quello di sublimare, ovvero portare nel livello preconscio, i meccanismi inconsci, rendendoli comunicabili e comprensibili allo spettatore. L’inconscio di per sé non ha alcun valore artistico e Freud cataloga espressionisti e surrealisti "come matti, perché sospetta che questi movimenti confondano" gli istinti primari con l’arte (da Ernst Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte, Torino Einaudi 1973, pp. 27 e 29).

La posizione di Freud sull’arte moderna appare così di evidente disinteresse, se non addirittura di repulsione per il contemporaneo. Malgrado la loro brevità, alcune sue lettere ci aiutano a comprendere perché considerava l'espressionismo e il surrealismo come non-arte.
Il 21 giugno 1921, recensendo un opuscolo che il medico Oscar Psister gli aveva inviato, Freud scrive: Ho preso in mano il suo opuscolo sull’espressionismo con curiosità fervida e con altrettanta avversione, … questi … individui non possono pretendere al titolo di artisti.
Il 26 dicembre 1922, commentando un disegno di un artista espressionista che gli aveva inviato Karl Abraham, Freud è ancora più diretto: Caro amico, ho ricevuto il disegno che presumibilmente dovrebbe rappresentare la sua testa. È spaventoso. …Ho sentito dire …che l’artista sostiene di averla vista cosi. A persone come lui non si dovrebbe permettere di accedere ai circoli analitici perché essi illustrano in modo quanto mai sgradevole la teoria di Adler secondo cui sono precisamente gli individui con innati gravi difetti della vista che diventano pittori e disegnatori.
Nel 1938 Freud incontra a Londra il surrealista Salvator Dalì: Fino a ora ero incline a considerare i surrealisti, che sembra mi abbiano prescelto come loro santo patrono, dei puri folli, o diciamo puri al 95 per cento, come l'alcool... Sarebbe davvero assai interessante esplorare analiticamente le origini di una pittura del genere. Eppure come critico uno potrebbe… dire che il concetto di arte resiste al fatto di essere esteso oltre il punto in cui il rapporto quantitativo tra il materiale inconscio e l'elaborazione preconscia non è mantenuto entro certi limiti.
Freud sembra concludere che l’arte con il suo linguaggio "non verbale" e irrazionale, non consente l’emergere terapeutico di tutte le pulsioni nascoste. Solo alcune idee inconsce sono comunicabili: quelle che possono essere adeguate alla realtà delle strutture formali condivise nella concezione del mondo del tempo e che per questo offrono la possibilità di dare un preciso significato espressivo allo stile, alla forma, alla struttura (da Ernst Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte, Torino, Einaudi 1973, pp. 24–25).

mercoledì 18 febbraio 2009

Arte e guarigione nel mondo antico

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
I

L’arteterapia è una disciplina basata principalmente sui campi dell’arte e della psicologia che si uniscono evolvendosi in un’unica nuova entità. Ma è arduo dire che si tratti di una pratica del tutto moderna, poiché arte e guarigione si intrecciano già nel mondo antico.

In effetti lo sviluppo dell’arteterapia intesa come disciplina organizzata può essere vista come l’applicazione formale di tradizioni umane la cui origine si perde nella notte dei tempi, influenzate dalle tendenze intellettuali e sociali dei nostri giorni.

Il desiderio dell’uomo di lasciare la propria impronta e di esprimere le immagini mentali nasce con lui; basti pensare ai graffiti rupestri, alle prime forme in terracotta, all’arte della maschera, ai riti e misteri della musica e della danza.

Gli sciamani utilizzavano già queste forme per le loro pratiche di guarigione ed in qualche paese ancora i guaritori le attuano con modalità del tutto simili, come per esempio in Sudamerica.

Gli ospedali psichiatrici del XIX° e inizio XX° secolo

Nella nostra cultura l’arte entra agli inizi del XIX° secolo negli ospedali psichiatrici ed è ampiamente documentato il crescente interesse della psichiatria in quel periodo, per l’espressione delle forme date alle proprie immagini mentali, da parte dei malati. Gli strumenti erano quelli consueti del disegno, della pittura, della scultura, musica, danza, recitazione.

Da qui hanno origine il binomio “arte e follia” che rappresenta un vero e proprio stereotipo letterario, così come il termine “arte psicopatologica” che ha prodotto una fiorente letteratura sull’argomento. In effetti la ricerca andava allora nella direzione di trovare corrispondenze tra i sintomi tipici delle patologie psichiatriche ed i segni e figure prodotti dai malati nelle loro opere. Atteggiamento che oggi sappiamo discutibile ed artificioso.

Molti grandi autori che s’interessarono a questo tema criticarono comunque già allora tale approccio. Risale all’inizio degli anni ’20 il saggio “Bildnerei des Geisteskranken” dello psichiatra tedesco Hans Prinzhorn con il quale egli sfidò sia la psichiatria che le Belle Arti a riconsiderare le loro nozioni di malattia mentale ed arte, contribuendo ad orientare l’osservazione sul “mondo interno”, sulla necessità interiore di esprimere, sulla corrispondenza non tra sintomo e forma, ma tra forma ed affetti.

Tendenze del XX° secolo

Per gran parte della storia dell’uomo, la malattia mentale è stata guardata con paura e fraintendimento come manifestazione di forze sia divine che demoniache. Le tendenze della psicologia del XIX° e XX° secolo creano invece creano invece un contesto più umano per il malato psichiatrico. Freud e Kris, insieme ad altri autori contribuiscono a tale riumanizzazione teorizzando che la produzione di fantasie rivela significative informazioni sull’unicità del mondo interiore di chi le ha prodotte. Altri autori iniziano a riconoscere il potenziale dell’arte quale strumento da utilizzare nel trattamento riabilitativo.

Presto, il termine “arteterapia“ inizia ad essere utilizzato per descrivere una forma di psicoterapia che pone l’intervento a mediazione artistica, insieme a quello verbale, tra le modalità centrali di trattamento (Naumburg, 1950/1973).

Una delle tendenze che emergono con più forza in questo periodo all’interno della moderna psicologia è stata l’attenzione su metodi standardizzati di diagnosi e ricerca. Parlando dell’opera di un artista o di un individuo malato di mente, Kris (1952) pensa che entrambi mettano in atto lo stesso processo psichico e cioè “portare un’esperienza interiore, un’immagine interiore, nel mondo esterno”. Questo “metodo della proiezione” rappresenta la base concettuale per i test di disegno proiettivo che si sono evoluti in psicologia durante il XX° secolo.

Lo sviluppo dell’arteterapia

Tra i principali autori universalmente riconosciuti per aver contribuito allo sviluppo dell’arteterapia a partire in particolare dagli anni ’40 possiamo citare Margaret Naumburg ed Edith Kramer, i cui testi continuano ad essere usati quali fonti preziose nella letteratura sull’arteterapia contemporanea.

Margaret Naumburg, attraverso il suo lavoro pionieristico nell’innovativa scuola statunitense Walden ebbe modo di sviluppare le sue idee, iniziando negli anni ’40 a scriverne. A suo agio con il pensiero sia di Freud che di Jung, la Naumburg concepiva la sua “arteterapia dinamicamente orientata” come largamente analoga alla consuete pratiche psicoanalitiche. Le produzioni artistiche dei suoi clienti erano viste come comunicazioni simboliche di materiale inconscio poste in una forma diretta, concreta, senza censure, che lei pensava avrebbe aiutato nella risoluzione del transfert.

Edith Kramer assunse invece un altro approccio adattando i concetti della teoria della personalità di Freud per spiegare il processo arteterapeutico. La sua “arte come terapia” enfatizzava il potenziale terapeutico insito nel processo creativo ed il ruolo centrale che il meccanismo di difesa della sublimazione gioca in tale esperienza.

Altri autori sono in seguito intervenuti a documentare le esperienze e le evoluzioni di tale disciplina, fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui l’arteterapia viene colorata da vari approcci che pongono l’attenzione su elementi di volta in volta differenti, che possono essere integrati anche a seconda degli obiettivi da raggiungere. Tra questi abbiamo quello psicodinamico, quello umanistico, quello dell’apprendimento e dello sviluppo, quello sistemico e della terapia familiare.
Attualmente l’arteterapia viene applicata all’interno di molteplici realtà e con molteplici finalità; per esempio con bambini, adolescenti, adulti, anziani, in contesti educativi, sociali, riabilitativi, legali, con finalità di recupero, superamento di traumi, sostegno emotivo ed affettivo, sviluppo delle facoltà creative.
(liberamente tratto da testi vari)

sabato 14 febbraio 2009

ILGIARDINO DI EPICURO - LIBERTA' E PASSIONE

A CURA DI D. PICCHIOTTI
nome stesso della scuola in cui Epicuro riuniva i suoi amici ed esponeva leEpicuro proprie dottrine, è sintomatico: si chiamava "il Giardino". Sicuramente ciò deriva dal fatto che queste riunioni avevano luogo in una dimora con un bel giardino, appunto. Che il nome dell'intera scuola fosse infine proprio questo, è un fatto assai eloquente; e ci fa venire in mente anche la celebre frase con cui Voltaire rispondeva a chi gli domandava che cosa pensasse del futuro, o di cose simili: "Lasciate che io vada a occuparmi del mio giardino!" (queste erano più o meno le sue parole).
Il giardino rappresenta già nella prima antichità qualcosa come… la sfera protetta della vita privata. Ma questo "giardino"… ha anche la peculiarità di dare il nome a una scuola, perché il suo fondatore, Epicuro, vi insegnava e rappresentava filosoficamente il mondo e la condotta di vita degli epicurei. Per capire il significato di ciò, dobbiamo per un momento liberarci da una certa immagine che ormai fa parte del nostro linguaggio, secondo la quale è epicureo un uomo dedito al piacere. Non è del tutto falso; va detto, però, che egli non è dedito al piacere perché ama il buon cibo, ama bere, desidera le belle donne o altro ancora,… bensì in quanto coltiva nei confronti di queste cose… anche una certa… cura spirituale e interiore, insomma una cultura dell'anima… in senso proprio. Vorrei peraltro ricordare che la parola "cultura" ha esattamente questo significato: il latino agricultura, la cura dei campi, conserva ancora oggi questa valenza di "coltivazione". E così, ad esempio, quando parliamo dei terreni in campagna, diciamo: "a che punto sono le colture?". Ebbene, una cosa è chiara: Epicuro… ha saputo concepire, in quest'epoca di decadenza politica… e della vita pubblica, una sorta di… rifugio, un atteggiamento… di serenità e di armonia dell'anima, in cui si riconoscevano persone molto dotate, spiritualmente aperte, giovani e non più giovani.

Certamente non disponiamo delle opere di queste scuole filosofiche nella stessa misura in cui possediamo quelle di Platone e di Aristotele (casi fortunati, più unici che rari). Il fatto che ci rimangano tutti gli scritti di un filosofo come Platone, si spiega naturalmente con la straordinaria qualità poetica e letteraria dello stile platonico. Che poi di Aristotele, pur non possedendo nulla degli scritti da lui pubblicati, resti comunque la massa dei manoscritti e degli appunti sulla base dei quali costruiva le sue lezioni, è ancora una volta un bel colpo di fortuna. La storia ci lascia in eredità un'opera di grande valore, capace di enormi ripercussioni. Né di Epicuro, né della Stoà, né delle altre scuole di questa nuova era, ci sono pervenuti scritti in forma altrettanto completa.
LIBERTA' E PASSIONE
La scuola epicurea e la nozione stessa di "epicureo" hanno attraversato, come abbiamo visto, un arco temporale davvero ampio. Quando usiamo l'aggettivo "stoico", invece, ci riferiamo a una corrispondenza più diretta con la Stoà vera e propria. Si parla ad esempio di "impassibilità stoica"; in Orazio leggiamo queste parole: "Se anche la Terra, l'intero universo crollasse, impavidum ferient ruinae, le rovine seppellirebbero un impavido". Questa è la virtù stoica dell'impassibilità rispetto a tutte le passioni, e in particolare a tutte le paure, ed è anche il significato popolare che si attribuisce alla parola "stoico",… che non ha conosciuto la deformazione che ha invece interessato il concetto di "epicureo" in epoca moderna. Sarebbe opportuno riflettere sul motivo per cui questo atteggiamento stoico si sia conservato tale nelle diverse costellazioni culturali. Perciò, come è bene ricordare, nel caso della Stoà parliamo di una prima, antica Stoà (Zenone, Crisippo e altri),… di una Stoà media (Panezio e Posidonio), e… infine anche di una
Stoà romana, che poi è entrata nella coscienza popolare con Cicerone e, soprattutto, con Seneca. Chi conosce i quadri famosi, nei quali insigni pittori hanno descritto la morte di Seneca, ha ben presente la forte esemplarità che gli stoici ponevano nel loro modo di atteggiarsi. Seneca, un ministro di primo piano, se così si può dire, nell'epoca imperiale di Nerone, cadde in disgrazia e fu infine condannato a darsi la morte. In circostanze del genere, alle persone benemerite veniva offerta la possibilità di sottrarsi all'esecuzione pubblica, suicidandosi. Però, le cose sono ancora… più complesse, nel caso della Stoà, perché entra in gioco anche la consapevolezza della libertà umana. C'è un'unica forma di suicidio… che, possiamo immaginare, consenta all'uomo la libertà di pentirsi: chi magari… si spara, o si getta sotto un treno in corsa, si lancia dalla finestra di un palazzo, può agire anche per mancanza di libertà, per paura del futuro, in preda a uno stato d'animo. Invece chi si taglia le vene dei polsi… e lentamente… lentamente si dissangua, in qualunque istante può dire: "Basta, voglio continuare a vivere!". Questo tipo di suicidio, assieme alla morte per inedia (la rinuncia al cibo, la volontaria morte per fame), erano dunque le classiche forme di suicidio del mondo stoico,… poiché conservavano la libertà fino all'ultimo momento. Persino nell'immagine popolare dello stoicismo è presente l'idea che per essoI a libertà consista in tali forme di autocontrollo. Ciò che sta in noi - "tò ef'emîn" - questa è la parola d'ordine della tarda Stoà!

venerdì 13 febbraio 2009

IL POETA E IL REGISTA " Pier Paolo Pasolini "


A CURA DI D. PICCHIOTTI

Un brevissimo e interessante punto di vista della vita culturale di Pier Paolo Pasolini scritta da Pasquale Jaccio dell'universita' di Napoli.
In questa tesi ho cercato di mettere a fuoco, in maniera via via più progressiva, lo stretto rapporto che esiste in Pasolini tra il suo fare cinema e la sua natura poetica. Per realizzare questo è stato necessario addentrarsi sia all’interno della sterminata bibliografia critica esistente su Pasolini, tra la gran mole di articoli, saggi, monografie, e contributi critici stralciati da Internet; e sia all’interno della vita dello stesso, analizzandone i grandi slanci e le pause di riflessione o di abiura.
E sempre di più, nell’avanzare, ho avuto la sensazione di addentrarmi all’interno di un imbuto; partito da una dimensione ampia ed estremamente dispersiva e costretto poi a procedere verso una zona finale, molto più stretta, nella quale tutte le ansie espressive di Pasolini sembrano aver trovato necessariamente una loro adeguata collocazione. E alla fine del quale si intravede un barlume di luce, quella luce finale che, secondo una definizione dello stesso Pasolini, è la morte essenziale, quella che permette di chiudere il cerchio ‘imperfetto’ di un’esistenza spesa a girare intorno agli stessi poli, attraverso un montaggio definitivo che pone fine al caos, assestandolo e tramandandolo ai posteri.
Ecco perchè l’ultimo capitolo ha quel titolo (La luce, alla fine), e perchè comincia dove era iniziato anche il primo, (La morte di Pasolini), nel tentativo di ricreare quella circolarità che solo la morte ha spezzato.
Ogni capitolo di questa tesi è una tappa all’interno dell’imbuto. Nel secondo (Tra cinema e poesia) si prendono in esame i rapporti esistenti fra i due linguaggi, quello del cinema e quello della poesia, utilizzati da Pasolini. Nel terzo (La realtà) viene esaminato quello che a detto di Pasolini fu il suo vero e unico idolo, dimostrando quanto il suo cinema e la sua poesia si influenzino a vicenda. Poi nel quarto e nel quinto (Cinema di Poesia e Teorema) viene descritta la crisi di Pasolini e i suoi tentativi di risolverla creando un’osmosi fra i due linguaggi. Il sesto capitolo (La civiltà dell’eros) ci vede incastrati nel punto più stretto del collo dell’imbuto, laddove è impossibile tornare indietro o semplicemente voltarsi. E’ la stagione dei corpi, della Trilogia della Vita, dell’abiura, dei viaggi frenetici, del moltiplicarsi della propria voce e della grande negazione.
E poi l’ultimo capitolo, quello dove la morte trova la sua consacrazione e, come già accaduto a molti, anzichè sconfiggerlo ne suggella il destino e la memoria.

lunedì 2 febbraio 2009

L'ARTE DI CESARE MONCELLI

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Il nome e l’arte di cesare moncelli sono strettamente collegati alla tradizione ed alla storia dell’evoluzione del disegno fiorentino negli ultimi anni . Pochi artisti, infatti, hanno avuto come lui il dono di poter e di saper contemperare, attraverso un indubitabile istinto ed una personalità pur nutrita di aspirazioni alla indipendenza espressiva, gli insegnamenti più vitali del passato , pur sempre polemici, nel tempo in cui egli s’è trovato ad operare. C’è una logica in tutto ciò: A firenze ha camminato col suo tempo; un viaggio arduo ed in un certo senso drammatico, che per i limiti stessi in cui si poneva era forzatamente legato alla situazione della partenza e influenzato sotto ogni aspetto da quelle che gli fiorivano intorno di tappa in tappa … fra La serie di disegni che durante tanti anni fu il frutto di di un intenso lavoro contano certamente le opere più importanti e le più persuasive ispirate ultimamente al cinema sono vedute con occhio particolare e con il quale hanno colto, nella "LINEA CONTINUA appunto " la continuita'" la suggestione la sintesi del racconto cinematografico ora La realtà è fissata, qui, come un termine di paragone tra l’immagine del film e l’immagine riflessa o trasposta dall’artista;
e l’una e l’altra si equivalgono nella malìa e nella suggestione che ne scaturiscono. Per apparire: frutto invece di una sintesi tra realtà e contemplazione, tra mondo visto e mondo liricamente interpretato. Ora voglio ripetere , ciò che Cezanne ebbe a dire di Monet: “E’ soltanto un occhio, ma che occhio!”. E io aggiungo "e' soltanto una linea ma che linea" pochi disegnatori del nostro tempo hanno un “ linea” simile Potete voi stessi verificare una sintesi tra realtà e contemplazione del disegno tra mondo visto e mondo liricamente interpretato.
COPIA E INCOLLA
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