venerdì 29 febbraio 2008

" Dal futurismo all'astrattismo"Sviluppi di Forma 1 anni cinquanta

A CURA DI D. PICCHIOTTI
 
Il movimento Forma 1 nasce nel 1947 e, fino alla sua conclusione avvenuta nel ’51, accoglierà diversi artisti, sia pittori che scultori, come Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Mino Guerrini, Maugeri, Perilli, Sanfilippo, Turcato.
Si tratterà di un gruppo che farà dell’arte astratta, dell’avanguardia e dell’impegno politico ad ampio raggio la sua bandiera.
Famosa è la frase all’apparenza assai contraddittoria che riassume il portato ideologico del movimento: essere allo stesso tempo “formalisti e marxisti”, il che voleva dire partecipare della realtà delle cose senza preconcetti né i tradizionali contrappesi che impediscono la libera espressione artistica ed umana in senso lato.
Nel panorama storico dell’arte astratta, sarà di estrema importanza la riscoperta e l’interesse operati dagli esponenti del gruppo per artisti come Magnelli o l’esplicito rifarsi alla tematica del dinamismo futurista delle forme sintetiche di Balla o in generale della pittura di Severini e Prampolini.
Il rapporto di Forma 1 col Futurismo è quindi fondamentale per poter dare all’arte astratta una energica spinta propulsiva tra gli anni ’40 e ’50 e recuperarne le radici storiche.
L’attività del gruppo si caratterizza anche e soprattutto per l’entusiasmo e le doti di infaticabili agitatori culturali di alcuni dei suoi esponenti e per l’organizzazione di importanti esposizioni e dibattiti sull’arte astratta, oltre che per la fondazione del Club L’Age D’Or.
Le opere che compongono questa sezione non rientrano strettamente negli anni di nascita e formazione del movimento ma mostrano gli approdi personali ad esiti di sintesi formalistiche e segniche che avrebbero costituito il tratto distintivo della loro poetica per il resto della loro attività, soprattutto nel caso della pelle pittorica di Accardi, qui ancora energica, espressiva ed in assestamento, dell’intreccio nervoso e calligrafico di Sanfilippo o della ricerca della bidimensionalità nella scultura di Consagra, concetto che mai abbandonerà. Di Dorazio viene esposta un’opera progressiva, estroversa e dinamica, di irruenza costruttiva e quasi meccanica.
Per Turcato, sempre alle radici del poetico pittorico, è impossibile individuare una linea stilistica vera e propria e per Perilli, presente con un’opera conflittuale di ispirazione prampoliniana, si devono registrare nel corso della sua attività originali sviluppi con cambiamenti radicali e complessi, di matrice addirittura dadaista.  
• Astratto Concreto anni cinquanta 
Il termine astratto-concreto fu coniato da Venturi nel 1952 a proposito di una serie di artisti, il cosiddetto Gruppo degli Otto (Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova).
Seppur non condividendo vere e proprie somiglianze stilistiche od ideologiche di alcun tipo, il loro comun denominatore fu una esplicita avversione per la pittura neorealista e figurativa ed un’ispirazione dettata da contenuti provenienti da un ambito naturalistico. Al limite si deve dichiarare una stessa sollecitazione neocubista che ha preparato il terreno per le ricerche più autonome e caratterizzanti di ogni singolo artista.
La traduzione in immagini astratte non ha impedito alle loro rappresentazioni di assumere una valenza reale, come fosse un punto di partenza concreto e non uno scopo trascendente o metafisico della loro pittura.
Se come definizione di un movimento il termine ebbe vita breve (gli Otto si scioglieranno nel 1954), come parametro interpretativo e storico-critico rafforzò una tendenza che affondava le sue radici nell’astrazione storica di Mondrian e del neoplasticismo, seppur di essa rifiutava decisamente la razionalità e la metafisica idealistica della geometria.
Per ogni artista raggruppato in questa area si dovrebbe fare perciò un discorso a parte. Lo stesso Venturi era consapevole di questa difficoltà: “Si tratta anche in Italia di accordarsi su un linguaggio comune, in cui ciascuna personalità metta il suo accento individuale. Costituire un linguaggio pittorico comune, ecco il problema essenziale del gusto odierno”.
E’ così che si passa da una pittura naturalistica, riflessiva ed architettonicamente strutturata come quella di Brunori ad una densa e corposa come quella di Corpora.
Birolli adotta un sintetismo energico che gli viene dall’osservazione di una realtà rude ma anche suggestiva come quella della vita dei pescatori, mentre Santomaso prende ispirazione dalle conformazioni asciutte e stilizzate di cantieri e di fabbriche.
Sadun trascolora l’emozione in una leggera e soffice impalcatura lirica di evocativa dinamica emozionale.
E’ Vedova ad esprimere una realtà energica ed impetuosa, di stampo futurista, che si situa su posizioni radicalmente opposte alle situazioni contemplative e legate allo stato fluido del ricordo di Afro, che dipinge ritmi lenti, galleggianti e confusi della memoria. 
• Spazialismo anni quaranta-cinquanta 
Il movimento dello Spazialismo inizia con il Manifesto blanco di Fontana nel 1946, a cui fino al 1952 succederanno altre sei dichiarazioni di intenti e di poetica. Il termine si riferisce ad un nuovo concetto di spazio immateriale collegato a presupposti cosmici, interstellari ed atomici. Il Futurismo, tra le altre cose, sarà, almeno a livello ideologico, una grande spinta propulsiva per gli Spazialisti, che guarderanno infatti con interesse alle scoperte tecnologiche e scientifiche, come televisione, viaggi nello spazio, luci al neon e laser, che questi artisti intendono assorbire nell’opera per poterla proiettare in una dimensione dinamica ed eterna in sintonia peraltro con le nuove tecnologie della comunicazione.
All’interno del movimento, in piena coerenza con il concetto di un’instabilità universale in continua mutazione e senza confini, ogni artista concepisce la sua concezione di spazio e non esiste un vero e proprio stile spazialista: piuttosto ci sono degli scatti d’energia e delle propulsioni dinamiche condivise che permettono  l’uscita dai limiti codificati dell’opera d’arte, pur se di fatto nessuno di loro (a parte qualche sperimentazione ambientale di Fontana) è riuscito nell’intento di superare i tradizionali limiti fisici delle arti.
Il segno di Crippa definisce vere e proprie traiettorie aeree ed atomiche, anche se, in certo modo, ancora descrittive ma di suggestiva ed ipnotica energia con le sue tipiche spirali mentre le leggere scalfitture ed incisioni di De Luigi danno vita a delle impalpabili rappresentazioni medianiche di presenze misteriose ed angeliche di luce; Dova entra in un mondo sotterraneo e subatomico (aderisce infatti anche al Nuclearismo) carico di oscuri rimandi psico-fisiologici e di mostruose ibridazioni; Finzi indaga “parascientificamente” i processi fotocromatici ed elettronici della luce ispirandosi ai ritmi della musica jazz.
Guidi si abbandona ad un senso “confuso” e puro del gesto pittorico, dove anche le tensioni ed i drammi diventano una possibilità per aver visione diretta di un’essenza spirituale dell’universo e dell’energia che lo anima.
E’ Fontana che getta uno sguardo diretto dentro la materia del cosmo saggiandone, attraverso la scultura, i processi interiori e magmatici ed andando al di là del piano pittorico con interventi che aprono la supeficie ad un’altra idea di spazio.
 A parte si situa il caso di Tancredi, che è spazialista non tanto per fascinazioni futuristiche o tecnologiche ma per esuberanza, vitalismo interiore e desiderio di riversare il suo impeto creativo ed irregolare nella natura circostante.  
• Informale anni cinquanta 
L’Informale italiano, a volerlo sezionare e ridurre analiticamente ai suoi elementi fondamentali, si presenta come un foresta fitta ed impenetrabile, dal momento che non ci sono intenti di poetica (soprattutto se si considerano gli artisti selezionati in questa occasione) riuniti in manifesti, gruppi o programmi, semmai di modalità espressive comuni come quelle segniche, gestuali, materiche, ecc.
A grandi linee, si potrebbe definire la poetica informale come una ricerca solitaria ed interiormente drammatica, pulsionale ed irrazionale, fatta di tempi interni, di vicoli ciechi, di stratificazioni e di sedimentazioni.
Si pensi ad esempio al caso di Burri, che utilizza esclusivamente materiali come sacchi ( e poi anche legni, plastiche, ferri, cretti) identificando il processo umano con quello inorganico.
Franchina presenta i resti di un incidente in cui, sotto quelle che erano le apparenze rifinite ed eleganti di un prodotto tecnologico, è andato a recuperare l’istinto primigenio dell’uomo.
Leoncillo in cui la creta stessa è metafora del proprio corpo e di un lento tormento naturalistico che diviene un intimo diario personale ed umano. 
Mannucci, con grande sapienza artigianale, trasforma gli sconvolgenti processi atomici, da cui è affascinato ed impaurito, in reperti di archeologia del futuro.
Mirko affronta il viaggio in luoghi fantastici ed esotici di cui raccoglie, come fossero stati trascinati a riva da terre lontane ed irraggiungibili, i manufatti tribali.
Moreni invece affronta d’impatto il momento violento della caduta e della lacerazione, come fosse uno squartamento disumano, un grido straziante.
Scanavino utilizza il segno come scandaglio dell’inconscio ma anche come punto di sutura delle sue ferite e di testimonianza di una sofferenza, di una difficoltà psichica e depressiva.
Rotella utilizza manifesti pubblicitari che raccoglie direttamente dal paesaggio metropolitano e che ricostruisce con nuovi strappi a studio, come si trattasse di enunciati sulla società e sul suo degrado consumistico.
Somaini trasforma scultura barocca e dinamismo futurista in una situazione organica e convulsa, in cui trauma e paura sono occasioni di resistenza e di scatto liberatorio.
Vacchi dipinge la corruzione ed il decadimento dell’uomo moderno, di cui presenta sontuosamente gli organi in via di decomposizione come fosse l’ultima fase della sua torbida storia.
Vedova dove la gestualità è sintomo di pittura priva di compromessi, ideologica, una forma di lotta e di rivolta contro le costrizioni e le trappole sociali.
 
 
• Segno e materia a Roma anni cinquanta 
Le definizioni di segno e materia non possono e non devono considerarsi storiche né definitive ma piuttosto intendersi in senso interpretativo e discorsivo. Neanche si può parlare di una vera e propria metodologia sulla quale i singoli artisti abbiamo costruito poetiche di contenuti similari.
A grandi linee si potrebbe affermare che segno e materia siano due sottoinsiemi della categoria definibile genericamente come “astrazione”, non propriamente informale né essenzialmente geometrica.
Il segno allora diventa una sorta di scrittura generativa e la materia un’oggettualità intrusiva e spesso invadente se non addirittura un’aspirazione cosmica che trascende il peso stesso della fisicità delle cose.
Sarebbe questo il caso di Prampolini, figura storica che attraversa tutta la prima metà del secolo con le sue audaci sperimentazioni ed un eclettico spirito avanguardista che è stato un importante riferimento per le generazioni a lui successive.
Tra Cagli e Capogrossi poi si è voluto sottolineare un particolare tipo di rapporto di influenza e di ispirazione. Il motivo cellulare e microscopico di Cagli, un altro importante stimolatore per l’apertura mentale dell’avanguardia del secondo dopoguerra italiano, è direttamente collegabile ai primi segni arcani e distintivi di Capogrossi, che, seppur variati per ritmi, frequenze, colori, dimensioni e disposizioni sulla tela, hanno caratterizzato la sua carriera per quasi trent’anni.
La pittura della Lazzari lavora sul segno come fosse un ricamo della memoria in cui lascia trasparire per emersioni e lontananze un intimo ricordo, elaborando il vissuto in una delicatissima tarsia.
Scialoja dispone di un potere evocativo ed umorale delle immagini energico e pulsionale, sottolineato con una gestualità veloce, accentuata ed apparentemente libera da qualsiasi schema.
Sul versante della materia invece Colla delinea forme aggressive e ascensionali in ferro, di cui non ripulisce la superficie per mostrarne la realtà del materiale e la sua bellezza di scarto industriale, mentre Guerrini identifica il processo della scultura con la pietra stessa, lasciando in vista i segni degli attrezzi con cui lo “scalpellino” sbozza, definisce e, appunto, scolpisce la materia, portandola alla sua nuda verità ed umanità.
 
 
• Futurismo primi anni dieci
L’anno della nascita del Futurismo in pittura è il 1910, quando fu firmato il testo La pittura futurista. Manifesto tecnico, in cui comparivano i nomi di Balla, Boccioni, Carrà, Russolo e Severini.
I concetti chiave del manifesto si incentravano sulla rapidità delle sensazioni del mondo contemporaneo, in cui lo sviluppo della tecnologia aveva potenziato la velocità dei mezzi di trasporto, delle telecomunicazioni e dei processi stessi dell’esperienza quotidiana e del pensiero. La pittura avrebbe dovuto saper cogliere questa nuova bellezza al di sotto della pelle dei fenomeni, collegando realtà in movimento e situazioni psicologiche accelerate e distanti tra di loro.
Nel 1914 Boccioni aveva pubblicato il suo saggio sulla Pittura e scultura futuriste, in cui affermava più volte la necessità di pervenire ad una visualizzazione “astratta” della realtà, che definiva come “una specie di concettualismo plastico che possa sostituire praticamente l’intuizione dell’artista”. In questo senso l’astrazione futurista si pone come un corrispettivo non formalistico ma simbolico ed efficace della realtà, in grado di riproporre sulla tela le nuove dinamiche fisiologiche e psichiche.
Boccioni indaga le trasformazioni che subiscono i corpi durante il loro movimento, ritenendo che non esista uno stato di quiete assoluta ma che anche gli oggetti subiscono modificazioni a livello interno, cioè atomico.
Balla riassume il movimento in schemi ottici e lineari, attraverso quelle che chiama le “linee forza”, associando il dinamismo ad un processo non tanto di simultaneità plastica ma di addizioni fotodinaliche di stati e di successioni nel tempo.
Depero considera l’astrazione come un modo divertito e comunicativo per ricreare artificialmente in laboratorio dei giocattoli meccanici che possano animare magicamente il gran teatro del mondo
Dudreville traduce graficamente l’essenza espressiva delle sensazioni visive e psicologiche eliminando gli arbitri della fantasia e condensando gli stati d’animo in sintesi di architetture emotive.
Prampolini intuisce inizialmente dell’astrazione le possibilità autonome di scomposizione e sostituzione della figura in costruzioni cromatiche in grado di poter essere tradotte, col tempo, in uno spazio teatrale.
Romani mostra gli aspetti più propriamente psicologici legati ai fenomeni naturali od ai sentimenti umani, ritenendo l’universo un unico grande sistema di cui il suo disegno ritrova i collegamenti cerebrali e ondulatori tra microcosmo e macrocosmo.
Severini applica il concetto di simultaneità di rumori, suoni, odori, impressioni visive, all’ambiente più mondano dei night o dei locali di grandi metropoli come Parigi o Londra, intendendo l’astrazione in rapporto analogico e di luce colorata con la realtà.
 
 
• Concretismo anni trenta 
Il termine “concreto” identifica una ricerca astratta razionale, geometrica, matematica ed anti espressiva, che mira ad evitare qualsiasi sospetto di metafisica o di accentuazione soggettiva. A tal punto è stata avvertita la necessità di chiarire il rapporto tra arte astratta e trasparenza assoluta dei suoi significati, che diversi artisti presenti in questa sezione hanno per lo più realizzato applicazioni “concrete” in ambito architettonico o di design. Come tale questo tipo di linguaggio trovò nella Galleria Il Milione di Milano, a partire dal 1934, il suo centro di aggregazione e di diffusione, sostenuto dalle teorie di Carlo Belli, ma non tutti gli artisti qui presenti ne parteciparono alla stessa maniera, basti pensare al caso atipico e romantico di Licini o a quello di Radice e di Rho, che vi esposero in una sola occasione.
Proprio gli ultimi due possono inserirsi in quella sperimentazione di superficie e di moduli geometrici che ha trovato, a livello sia di progetto che di realizzazione pratica, un inserimento in contesti architettonici, sia sacri che profani, come anche urbanistici o addirittura tessili.
Le geometrie di Licini, pur se attente a modulazioni e schemi concretisti di ambito europeo, si pongono già come sospensioni leggere, evocative, musicali e poetiche.
Fontana devia con leggerezza dall’idealismo dell’astrazione concreta disegnando forme vive e scattanti, che anziché fissare una misura o mostrare la regola della loro costruzione preparano già la via per la fuga in uno spazio inconsistente ed immateriale.
Magnelli realizza in questo periodo delle opere che mostrano un aspetto monumentale ricco di asimmetrie, come la sua ricerca cercasse un equilibrio tra una fantasia priva di regole ed una costruzione di pure forme astratte.
L’astrazione di Melotti intende la geometria della forma come un modo per purificare la realtà da ogni disperazione ed immettere la fantasia poetica nella scultura, che si presenta come un gioco di armonie musicali.
Munari mira a confondere i confini tra arte e gioco, opera ed oggetto di design, realizzando sculture mobili, effimere e di impostazione surrealista che rimettono in gioco la creatività in maniera ironica ed infantile.
Nel caso di Reggiani siamo di fronte ad un pittore pienamente dentro i meccanismi di una liberazione graduale e approfondita dalla figurazione, ricca col tempo di sviluppi formali.
E’ Soldati che avvia in piena consapevolezza un discorso sul linguaggio pittorico che é interno al passaggio dalla figurazione alla forma astratta risolta interamente sul piano del dipinto. 
• Movimento arte concreta anni quaranta-cinquanta 
Oltre al concretismo storico degli anni ’30 o a quello costituitosi col Movimento Arte Concreta nel ’48, è possibile riunire sotto questa definizione una serie di artisti che hanno continuato ad indagare il rapporto tra astrazione e realtà, autonomia ottica del supporto pittorico o funzionalità costruttiva della scultura.
Alcuni di loro (come Munari e Soldati) hanno partecipato sia al concretismo degli anni ’30 che alla fondazione del M.A.C. Di essi si presentano dei significativi sviluppi mentre di Reggiani si mostra la sua capacità di saper adattare e rinnovare continuamente l’astrazione ai cambiamenti ed alle innovazioni della contemporaneità.
Il rapporto diretto con una realtà percettiva mutevole ed ansiosa come potrebbe essere quella politica ed umana in senso lato, l’hanno affrontato Berti con le sue architetture in via di costruzione o di inesausta ricomposizione e Nigro, che ha tentato di fissare le dinamiche dei processi psichici ed anche sociali in icone astratte, dove le mobilità è frutto di calibrate deviazioni e controllatissimi scarti ottico percettivi.
A questi due può essere affiancato Nativi (protagonista peraltro con Berti del gruppo dell’Astrattismo classico di Firenze), che ha sviluppato geometrie schizofreniche come metafore di scontri e di situazioni di lotta.
Bonfanti invece si è ritagliato uno spazio di intimità e di silenzio in cui, ragionando sui presupposti costruttivi della pittura antica, ha cercato di sintonizzare l’astrazione su una frequenza discreta e continua.
Su un versante più decisamente oggettuale ed assemblativo, quand’anche inseribile nel campo dell’industria e del design, si collocano le opere di Barisani, che fa della sperimentazione creativa ad ampio raggio e multidisciplinare un’espansione concreta del linguaggio astratto.
Conte delega il fatto artistico ad una funzionalità decorativa a cui unisce spesso e volentieri aspirazioni costruttive che possano interagire anche con spazi urbani o pareti di edifici.
Magnelli è ormai avviato ad una impostazione astratta che può dirsi a tutti gli effetti classica, sia rispetto al solido disegno di forme e di andamenti geometrici all’interno della sua opera, sia per l’importanza che ricopre l’artista nel panorama della nuova astrazione italiana dalla fine degli anni ’40.
Veronesi identifica la sua ricerca pittorica con la grammatica e la genetica fotografica, di cui gli interessano le pure condizioni di visione e di spazi, di efficienza ottica e di illuminazione senza alcuna interferenza da parte del soggetto né della macchina stessa. 
• Futurismo secondi anni dieci 
A partire dal 1915 il Futurismo attraversa una fase che può definirsi “sintetica”, in cui la resa simultanea dei processi dinamici è portata ad un grado maggiore di astrazione ed elaborazione di analogie formali di figure umane, paesaggi, sensazioni uditive ed ottiche o addirittura spirituali. E’ il segnale di uno sviluppo del linguaggio futurista verso forme ancor più riassuntive ed onnicomprensive, in cui il particolare viene perso in favore di forme generiche che possano appunto sintetizzare con maggior enfasi i fenomeni naturali. C’è di questo una consapevolezza maggiore da parte degli stessi artisti, se si pensa alla definizione che danno di sé Balla e Depero, nella Ricostruzione Futurista dell’Universo, in cui si definiscono “astrattisti futuristi”.
Balla trasforma le ricerche sulla durata e lo svolgimento di situazioni dinamiche in elementi di ritmo e di decorazione pura, tanto che alcune delle opere di questo periodo diventano motivi combinatori adattabili a stoffe e tessuti futuristi.
Depero semplifica in modo ancor più ingenuo e naife i volumi dei corpi, trasformando la composizione in una moltiplicazione di silhouette e di profili che mantengono il grado imitativo quel tanto che basta per poterne percepire la propensione alla parodia ed al gioco.
Dottori è affascinato da situazioni esplosive e di forte impatto emotivo, che risveglierebbero la coscienza ed aprirebbero le porte della percezione verso orizzonti sempre più aperti ed infiniti.
Evola, adesso nel periodo da lui definito di “idealismo sensoriale”, intende l’astrazione come un modo per intuire l’arbitrario ed il trascendente e presagire stati mentali fuori della realtà ordinaria.
Magnelli, che non prende parte di fatto ai manifesti od alle manifestazioni futuriste, percepisce del movimento la spinta avanguardistica e la distruzione dei vecchi linguaggi figurativi in favore di una autonoma ridefinizione della forma e del colore. 
Futurismo anni venti 
Gli anni ’20 del Futurismo possono essere contraddistinti dal manifesto L’arte meccanica, firmato nel 1922 da Paladini, Pannaggi e Prampolini. Col termine “meccanico” non si intendono più la dinamica eccitazione espressa da automobili o treni in corsa o la meccanica interna e fisiologica di cavalli al galoppo e di uomini in movimento, bensì una diversa facoltà di concepire la struttura razionale dell’universo, anche nel senso di un superamento delle geometrie terrestri. 
E’ la civiltà industriale ed architettonica ad interessare gli artisti in senso costruttivo e funzionale e non più semplicemente emotivo, al punto da riconnettere tutta l’enfasi del periodo eroico del movimento a dei principi di metafisica razionalità.
C’è però da precisare che non tutti gli artisti presenti in questa area problematica hanno inteso allo stesso modo il rinnovato senso meccanico e che in questo decennio, più che nei precedenti, le differenze emergono con ancora più chiarezza e definizione di forme.
Evola mette a punto la sua ricerca astratta arrivando a definire delle simbologie astrali, cosmologiche ed in particolar modo alchemiche, tanto da riconnettono la sua pittura agli interessi di tipo filosofico ed esoterico, senza ignorare tangenze con l’aleatorietà e la spersonalizzazione dadaista.
Fillia ritiene di poter trasformare l’umanità riducendo l’uomo alle sue sole necessità funzionali, dove sentimenti ed emozioni sono esclusi in favore di una moderna ed avveniristica idolatria per ingranaggi e congegni meccanici, capaci inoltre di animare spazi scenici teatrali e divenire ambiente.
Prampolini, ancor più di Fillia, perviene ad una ricerca che esalta in questi anni lo spazio scenico ed architettonico, ricchi entrambi di prospettive multidirezionali accordate ad un nuovo tipo di esperienza moderna che nasce a contatto con i prodigi e le strutture della tecnologia. 
• Futurismo anni trenta 
E’ il periodo definito Secondo futurismo, caratterizzato, tra le altre cose, dall’aeropittura a partire dal manifesto pubblicato nel 1929 con le firme di Balla, Benedetta, Depero, Dottori, Fillia, Marinetti, Prampolini, Somenzi e Tato. La visione aerea non garantisce sempre la soppressione di raffigurazioni imitative della realtà, che spesso e volentieri è osservata attraverso prospettive didascaliche ed illustrative, come si trattasse semplicemente di un paesaggio en plen air dipinto durante un’acrobazia aerea od una trasvolata. Svanite le utopie contestatarie e rivoluzionarie degli anni ‘10, è soltanto grazie all’impulso creativo di singoli artisti che viene evitato l’appiattimento dello stile futurista a fatto di gusto corrente, moda o consumo. A fianco della visione aerea descrittiva se ne aggiunge infatti una siderale, cosmica e addirittura divina, che guarda ai processi organici e mistici di una materia originaria.
Interessanti sono a proposito le corrispondenze con certa pittura surrealista, oltre che le contrapposizioni con l’astrattismo positivista del Milione o del Concretismo internazionale e la simpatia per il razionalismo architettonico opposto alla tradizione “novecentesca”.
Nello stretto ambito aeropittorico, Dottori dispiega il suo vocabolario di forme circolari ed a ventaglio che aprono la visione ad orizzonti di illimitata estensione, in cui suoni, luci, prospettive, sembrano fondersi in una ottimistica continuità ed indistinzione atmosferica.
Fillia traduce quelli che erano idoli meccanici in corpi trascendenti che sembrano galleggiare in uno spazio immaginario, aperto direttamente su altri mondi, altri sistemi stellari, come si trattasse di apparizioni divine.
Oriani sembra aver condensato la nuova umanità in enormi corpi amorfi provvisti di membra ed organi adatti per vivere in spazi siderali, proiettati al di là dell’orizzonte terrestre in un universo incantato privo di tensioni e drammi.
Prampolini condensa la sua passione per la danza ed il teatro in forme organiche che tracciano delle traiettorie di movimenti in uno spazio ambientale senza più confini ma immerso direttamente nella materia originaria del cosmo. 
• Scultura anni quaranta- cinquanta 
Per certi versi la scultura ha sempre richiesto tempi e modalità di lavorazione che, non potendo prescindere da una manualità di tipo artigianale, la rendono per necessità custode di una tecnica antica e sedimentata nei secoli. I tempi di adattamento rispetto a linguaggi e forme della contemporaneità si fanno pertanto più lenti ma questo esalta ancor di più il momento dello stacco e dell’abbandono della tradizione da parte di numerosi scultori tra gli anni quaranta e cinquanta.
C’è quindi da considerare, nel caso degli scultori, un forte senso viscerale della materia e degli stimoli dell’immaginario in maniera diversa che per la pratica della pittura. Di ciò i seguenti artisti sono soltanto alcuni degli innumerevoli esempi.
Franchina è un tipico esempio di come, pur guardando alla scultura arcaica o classica, proprio facendo leva sulla manualità, si possano adattare i materiali e i procedimenti dell’industria (in questo caso automobilistica) alle forme prive di funzione e ricche di slanci utopistici dell’arte.
Mastroianni in questa fase presenta ancora il versante più organico ed umano della scultura, di cui, ricollegandosi a Moore o Laurens ed intensificando il dinamismo della materia con riferimenti alla plastica concitata di Boccioni, arriva direttamente alla sofferenza dei suoi processi interni di crescita.
Viani invece mostra la possibilità di solidificare l’esperienza della scultura classica in forme pure in cui l’allusione al corpo umano, o biologico in senso lato, diviene una dolce carezza poetica, un candido reperto di un mondo di sogno.
 
 

Rappresentazione descrittiva e rappresentazione creativa, due modi diversi di esprimere una visione del mondo

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Rappresentazione descrittiva e rappresentazione creativa, due modi diversi di esprimere una visione del mondo: nascita della pittura informale, risposta alla crisi sociale e culturale del periodo dopo la II guerra mondiale.
Dall'inizio della storia dell'uomo, l'arte si è assunta il compito di rappresentare il mondo attraverso codici multipli, atti a spiegare la realtà all'uomo attraverso l'opera dell'uomo.
Come osserva Alessandro Tempi, le spiegazioni del mondo si possono dividere in quelle che egli definisce rappresentative di tipo descrittivo, derivate da dati empirici, sperimentali, provati, scientifici, e altre definite creative, che utilizzano mezzi non conformi, non convenzionali, inconsueti, creati appositamente per la rappresentazione specifica.
Storicamente si può vedere come, a seconda dei tempi e della cultura di un'epoca, del suo sviluppo scientifico, della sua dottrina filosofica, i due concetti di rappresentazione e creazione abbiano coinciso o meno, in varie misure, fino a che, nel tardo '600, l'arte si configura come un mondo a parte, soggetto ad una sua legge, l'estetica, territorio degli artisti, creatori di opere estetiche, confinata nel museo, staccata ed avulsa dal resto del mondo, depositaria della rappresentazione anche storica ed antropologica delle vicende umane.
Alla metà dell' '800, con la nascita prima della fotografia, poi del cinema, ha inizio quella che il filosofo Heidegger chiama "die Zeit des Weltbildes", l'epoca dell'immagine del mondo, nella quale il compito di rappresentare non viene più delegato all'arte, sussistendo mezzi e tecnologie più adatte, precise ed affidabili per farlo, e l'arte, estromessa dall'universo della rappresentazione, cessa di essere lo specchio della natura, di essere la depositaria di diversi saperi, di avere un ruolo storico nello svolgersi della vita dell'uomo: l'arte si trova nelle condizioni di dover ridefinire il suo ruolo, il suo territorio di apparteneza, il suo stesso, intrinseco significato.
Attraverso l'autoanalisi che l'arte compie su se stessa, la presa di coscienza della propria autonomia, l'identificazione di proprie peculiari specificità, dell'essenza estetica che le compete, nasce l'arte moderna.

Ciò che ho proposto è una lettura molto sintetica e semplificata delle origini dell'arte moderna, che ci porta subito in medias res, all'Impressionismo, il movimento culturale che dà l'avvio ad un profondo processo rinnovativo del concetto di arte: grande anticipatore del rinnovamento è Cezanne, padre di tutta la pittura moderna, impressionista all'origine, poi geniale anticipatore del Cubismo, movimento che destruttura e defigura l'immagine, preparando quella che sarà l'estetica dell'Astrattismo e dell'Informale del secondo dopoguerra.

Queste due correnti realizzano in modo definitivo l'emancipazione dell'arte da ogni aspirazione alla rappresentazione, l'arte diventa creazione della realtà, non raffigurazione di essa, risponde solo a sé stessa, depositaria di una conoscenza autoreferenziale che riconosce la sua essenza nell'atto creativo stesso.
L'Astrattismo ha varie anime, quella razionale e ascetica delle opere di Mondrian, dove assume un'impronta essenzialmente intellettuale, quella lirica e sognante dei dipinti di Kandinskij, dove prevale la componente emotiva, a seconda del rapporto in cui l'artista si pone nei confronti della realtà, in un caso ridotta ad immagine mentale, nell'altro talmente alterata e trasfigurata da renderne irriconoscibile la rappresentazione.
Ciò che va rilevato è che l'Astrattismo, nelle sue varie forme, compie in sostanza un'opera di allontanamento, di astrazione, di straniamento dalla realtà naturalistica, mutevole e fenomenica, entro la quale viviamo, il che implica, comunque, l'intenzione di rapportarsi con essa, se non altro per negarne o stravolgerne le forme, secondo la ricerca consapevole di una spiegazione filosofica, e in definitiva razionale, del legame referenziale fra immagine e realtà.

Sul tema dell'Astrattismo è particolarmente significativo un libro scritto nel 1908 da Wilhelm Worringer, fra i primi ad utilizzare tale termine, "Astrazione e Empatia", che analizza la posizione in cui si pone l'uomo nei confronti della natura, distinguendo un atteggiamento di einfuhlung (empatia), un sostanziale equilibrio, una comunione spirituale fra essere umano e mondo reale, da un atteggiamento di rifiuto, di angoscia e precarietà per la condizione dell'essere uomo: secondo Worringer, proprio da questo stato di estraneità fra essere umano e natura nasce il desiderio di allontanamento da essa, la volontà di astrarsi, e da questo rapporto non naturalistico deriva la rappresentazione non conforme di una realtà alla quale l'artista non riconosce di appartenere, dando quindi origine alla pittura astratta.

La seconda guerra mondiale, un'immane tragedia che sconvolge in profondità la coscienza storica e filosofica dell'umanità, incide in modo molto significativo sulla struttura culturale del tempo, e sull'arte in particolare.
La necessità di rifondare una società disgregata, il desiderio di rinnovamento e di rinascita, la necessità di esprimere liberamente tensioni e pulsioni interiori in modo immediato, spingono l'evoluzione del linguaggio artistico dei pittori dell'epoca verso posizioni trasgressive e antitradizionaliste, come sempre era avvenuto in passato quando si affermava il desiderio di cambiare (basti pensare al Dadaismo e ai movimenti avanguardisti in genere), di rompere i ponti con il passato, qualunque esso fosse: in questo caso, era anche l'Astrattismo.

In questo clima storico-culturale si afferma la pittura informale, che si configura subito come antagonista del passato, come rifiuto di qualsiasi legame culturale con esso, peraltro già reciso dalla guerra, come trionfo dell'irrazionale e negazione di quel substrato intellettuale e spirituale che caratterizzava la pittura astratta.
Come sempre, l'Informale ha relazioni e dipendenze dal passato che pure nega, collegandosi soprattutto ai recenti movimenti artistici europei, dall'Impressionismo in poi, a conferma che la storia dell'umanità, e con essa la storia dell'arte, si svolge senza soluzione di continuità e che ogni presente è figlio del suo passato: ha la carica emotiva dell'Impressionismo, l'anticonformismo dei dadaisti, l'aggressività dell'Espressionismo, il misticismo della pittura surreale.

Particolarmente significativa è, nell'ambito della pittura informale, l'opera dell'americano Jackson Pollock, il quale, forse perchè americano ed in un certo senso più avulso dalla cultura pittorica precedente, eminentemente europea, concretizza il suo linguaggio poetico in un gesto liberatorio che simbolicamente cancella ogni traccia del passato ed inventa un nuovo linguaggio formale, il dripping, sorprendente, trasgressivo, eppure così memore dell'empatia di tanta pittura europea data per superata.
L'arte informale nasce negli anni '50 a seguito di una serie di esperienze artistiche nell'ambito della ricerca sulla forma intesa come tutto ciò che ha un aspetto, un contorno che lo definisce, una connotazione visiva: questo termine, art informel, viene coniato nel '52 dal critico francese Michel Tapié, il maggior divulgatore di questa tendenza, in un suo testo, "Un art autre", in cui interpreta in termini di "art autre" l'opera di Dubuffet.
Negando il concetto di forma, che l'Astrattismo conserva nella accezione di essenza geometrica delle forme reali, di elaborazione immaginativa della realtà attraverso la creatività dell'artista, l'Informale amplia notevolmente il concetto di arte e l'ambito dell'azione artistica, dissolvendo le separazioni tra le varie tipologie di linguaggio, le differenze formali tra le varie categorie espressive, divenendo la matrice indifferenziata, e per certi versi ambigua, di pressoché tutta la produzione artistica moderna.
Trattandosi di una definizione molto ampia, ha lo svantaggio di favorire una eccessiva omologazione di espressioni artistiche anche molto distanti tra loro, annullando le significative diversità che fanno dell'arte moderna un fenomeno variegato e vivo, al ritmo con il divenire del mondo d'oggi.
Le due correnti principali che si identificano all'interno dell'Informale sono quella gestuale, esemplificata dall'opera di Jackson Pollock, e quella materica, che si afferma soprattutto in Europa (Dubuffet, Burri, Tapies), ma si possono collocare in questo movimento anche lo Spazialismo di Lucio Fontana, per certi versi egli stesso un action painter, e la pittura segnica, di cui in Europa Giuseppe Capogrossi è uno dei principali rappresentanti.

La pittura segnica in realtà pone verso la forma un rifiuto meno netto, soprattutto le attribuisce un nuovo significato, la trasforma in segno, un elemento grafico che non ha un significato semantico, ma solo formale, con valenza calligrafica in un alfabeto inventato dall'artista, con una sua riconoscibilità visiva convenzionale non contenutistica.
E' interessante notare come, parallelamente alla pittura segnica europea, si sviluppi in America una tendenza calligrafica lì derivata dall'elaborazione grafica dell'ideogramma cinese, con risultati di grande interesse in molti artisti appartenenti all'Espressionismo astratto, come Franz Kline, Adolf Gottlieb, Mark Tobey.

Si vede come l'Informale, che nasce in Francia e poi interessa tutta l'Europa, con riscontri oltre oceano, sia un campo non solo vasto, ma anche indefinito e come molti artisti informali si possano identificare contemporaneamente come gestuali e materici e segnici, cosicché appare più corretto analizzare separatamente la loro opera e ricercare per ognuno un profilo individuale, senza eccessive preoccupazioni di forzate classificazioni Di Vilma Torselli

giovedì 28 febbraio 2008

Il minimalismo nelle arti plastiche

DI D. PICCHIOTTI

Museo dell'arte di Bregenz, esempio di architettura minimalista. L'architetto è Peter Zumthor
Sono considerati come artisti fondamentali per l’affermazione di questa corrente Carl Andre, Dan Flavin, Donald Judd, Sol Lewitt, Robert Morris.
Le opere appartenenti a questa corrente hanno come caratteristica l'utilizzo di un lessico formale essenziale, le opere sono composte da pochi elementi, i materiali in alcuni casi derivano da produzioni industriali, alcune delle matrici formali sono la geometria, il rigore esecutivo, il cromatismo limitato, l'assenza di decorazione. Il risultato è oggettuale. Oggetti geometricamente definiti, formati dalla ripetizione e variazione di elementi primari, forme pure, semplici. La pittura dalla parete passa ad occupare lo spazio.
Spesso le opere sono realizzate attraverso procedimenti industriali. L'esecuzione è sottratta alla mano dell'artista e affidata alla precisione dello strumento meccanico. Esempi:
• Carl Andre utilizza 120 mattoni accostati in una matrice 5x12x2.
• Dan Flavin si serve di lampade fluorescenti utilizzando gli elementi luminosi in un duale gioco di presentazione compositiva oggettuale e ridefinizione dello spazio.
• Donald Judd dispone 6 parallelepipedi identici, realizzati industrialmente, sulla parete sovrapponendoli verticalmente e lasciando una misurata e identica distanza tra ogni elemento.
• Sol Lewitt sviluppa la sua ricerca partendo da una struttura cubica ripetuta modularmente.
• Robert Morris realizza geometrie perfette che dispone nello spazio espositivo instaurando un dialogo percettivo con l’osservatore.
Il contesto culturale in cui si poté sviluppare il minimalismo ha i suoi prodromi dell’emancipazione dall’arte europea nell’astrattismo americano del dopoguerra. Artisti come Jackson Pollock, Barnett Newman, Mark Rothko realizzarono in quel periodo opere astratte che segnarono un netto cambiamento nella produzione artistica statunitense e nel modo di concepire e percepire la pittura. Anche la critica dovette in quegli anni formarsi e sviluppare delle nuove categorie interpretative per l'analisi delle opere.
L'artista Frank Stella ebbe una rilevante importanza per lo sviluppo del minimalismo. Egli dipinse negli anni '50 i Black Paintings, dei quadri privi di cornice consistenti in strisce nere parallele divise da sottili linee bianche. Queste opere, la cui realizzazione era preceduta da una meticolosa preparazione in modo da limitare gli effetti personali della manualità, non hanno alcun rimando allusivo, ma si presentano all’osservatore come oggetti portatore di valore in quanto tali. La vernice impiegata dall'artista per la realizzazione di queste opere era di produzione industriale e di uso comune.
Anche le opere di Jasper Johns sono da considerare come influenti per la formazione culturale del minimalismo. Egli introdusse nei suoi dipinti degli oggetti per affermare la negazione della soggettività dell'artista e della sua vanità. Vi fu nelle intenzione dell'artista una tensione ad un arte impersonale espressa al limite tra pittura e scultura, tra pittura e oggetto. In ultimo, è degna di nota la produzione degli italiani Manzoni, capofila del movimento in Italia e massimo teorizzatore, e Piacentino, con le sue installazioni.

Il minimalismo nella musica [modifica]
Il minimalismo musicale, importante sorgente espressiva della musica della seconda metà del ’900, analogamente e parallelamente al minimalismo delle arti visive, è nato negli Stati Uniti, principalmente sull'onda creativa di Philip Glass, Steve Reich, La Monte Young e Terry Riley, il cui brano IN C del 1964 è da alcuni considerato la pietra miliare del movimento espressivo.
Da subito si è imposto con modalità e gesto musicale originali, che si affrancavano completamente dall’evoluzione delle scuole musicali europee, a partire dal cammino della scuola seriale di Vienna, fino a giungere allo sperimentalismo di musica elettronica, aleatoria e concreta maturate principalmente nelle scuole di Darmstadt e Parigi.
Il percorso è invece quello di una estrema semplificazione della struttura e delle modalità esecutive.
L’architettura della musica minimale si sviluppa su cellule melodiche brevi e semplici, e su figure ritmiche immediate, e dipana il discorso creativo sulla ripetizione, spesso ossessiva, di tali moduli, mentre il castello armonico e timbrico si evolve a formare la chiave espressiva dell’opera, utilizzando talvolta strumenti di raro utilizzo e sonorità inusuali, con la complicità dell’elettronica e della musica popolare.
Nella maturazione di questa modalità vi è un riferimento a formule musicali tipiche della musica etnica proveniente da aree sociali nelle quali il ritmo e il suono percussivo e ricorsivo erano caratteristiche strutturali, come nella musica della zona centrafricana. Ma lo spunto è soltanto una cellula intellettuale dalla quale generare forme che permettono chiavi espressive interessanti e diversificate.
Philip Glass, considerato l’autore di riferimento della corrente musicale, interpreta il minimalismo nel modo più puro, e le sue opere sono paradigmatiche nella ricerca espressiva della corrente.
Steve Reich utilizza la modalità minimale con grande fedeltà, per comporre però opere contaminate dall’interazione con diverse forme espressive, con l’influsso di spunti filosofici nel gesto creativo, e con un sensibile intento di ricerca ed innovazione. Steve Reich è inoltre l'autore di un breve saggio dal titolo "music as a gradual process" che ben sintetizza la prassi compositiva minimalista.
John Adams utilizza la modalità comune della corrente per comporre opere, spesso con il contributo vocale, il cui intento espressivo è spesso connesso a maglie strette con la realtà sociale e politica in cui è immersa la società a lui contemporanea.
Nelle creazioni dell’inglese Michael Nyman invece la modalità del minimalismo è stata abilmente utilizzata per la costruzione di forme di più semplice fruibilità. La sua musica ha riscontrato un maggiore impatto su un vasto pubblico, con una frequente interazione con il mondo del cinema per la realizzazione di colonne sonore.
Nell’ambito della musica europea della seconda metà del ‘900 e dei giorni nostri il minimalismo ha più o meno indirettamente influito sulla creazione di alcuni autori, prevalentemente di area slava o balcanica, e tendenzialmente orientati ad una creatività mistica. La musica del polacco Henryk Górecki è quella che maggiormente mostra i segni dell’influenza minimalista, ed alcune delle sue creazioni rispettano abbastanza fedelmente le modalità strutturali della corrente. L’estone Arvo Pärt mostra in molte sue opere un’affinità con il minimalismo, più nell’intento creativo che ne rigoroso rispetto dell’architettura musicale. L'olandese Louis Andriessen fa proprio il concetto di "ripetizione" tipico della musica minimalista, installandolo però su un tessuto musicale affatto personale, spesso molto cromatico (a differenza degli autori americani, prettamente diatonici).
In Italia negli anni '90 è stato significativo il connubio tra filosofia minimalista e monodia gregoriana attuato da Gianmartino Durighello in opere prevalentemente vocali, alla ricerca di una profonda suggestione mistico-religiosa.
Attualmente in Italia il minimalismo si esprime soprattutto con Ludovico Einaudi e Stefano Ianne. Il primo si esprime prevalentemente con melodie pianistiche minimali impreziosite da cenni elettronici (vedi album "Divenire" 2006 - Decca) pertanto affine alla scuola di stile europeo; il secondo è decisamente sinfonico (vedi album Variabili Armoniche" 2006 - Artesuono Fenice D.M.) nel quale infinite variazioni e microvariazioni rinnovano i temi musicali, più vicino alle posizioni americane. In questo ultimo caso potremmo parlare di un minimalismo come metafora dei tempi, logorati dalla ripetizione. Entrambi sono estremamente evocativi.

Godani, Paolo, L’informale. Arte e politica.


A CURA DI D. PICCHIOTTI

“Esiste un’affinità fondamentale tra l’opera d’arte e l’atto politico. Tale affinità tuttavia può venire intesa in due modi addirittura opposti: si può pensare che l’opera d’arte e l’atto politico presiedano alla costruzione di un tutto ben organizzato (la bella rappresentazione organica, il buon ordinamento statuale), oppure che essi siano affini in quanto affermazioni di molteplicità non organiche – definite dal fatto che le relazioni costitutive tra i loro elementi non sono legami. Si possono pensare l’opera d’arte e l’atto politico come eventi fondativi e unificanti, come rappresentativi di una comunità presupposta o postulata, oppure li si può intendere come accadimenti immediatamente universali (o addirittura cosmici) che, prescindendo […] le partizioni dominanti, liberano la potenza affermativa dell’informale” (p. 9). Alla declinazione di questa potenza, sulla scorta di Nietzsche, Bergson e Deleuze, Paolo Godani dedica questo interessante volume, tra i cui meriti spicca anzitutto la chiarezza concettuale ed espositiva, a riprova del rigore intrinseco che l’autore ascrive allo stesso argomento trattato, l’informale. Sin dalle pagine introduttive, fra gli intenti precipui di Godani vi è infatti quello di delineare non solo le fondamentali differenze tra forma e informale, bensì anche quelle esistenti tra il campo dell’informale e il fondo indifferenziato dell’informe. A partire da Bergson l’autore chiarisce immediatamente che solamente nell’ambito di un interesse del pensiero formale può darsi l’indistinzione tra piano dell’informale e fondo oscuro e indifferenziato dell’informe. Ma l’informale, di cui la forma non è che una sovradeterminazione selettiva, come precisamente Bergson ha dimostrato in Materia e memoria, è al tempo stesso un “di più” rispetto alla forma stessa, e un “di meno” rispetto all’informe, poiché l’informale non è energia indifferenziata ma la potenza determinata della vita e dell’essere, un campo di forze in equilibrio metastabile. È il piano d’immanenza, la superficie liscia, su cui tutto si gioca e si disloca continuamente. Esso non è né l’evento inaugurale di heideggeriana memoria né il potere costituente dell’atto rivoluzionario. Cosa dunque distingue propriamente la forma dall’informale? È possibile delineare (ed è questione di capitale  importanza) rigorosamente una filosofia dell’informale, un’arte e una politica che, pur distruggendo le forme non approdino all’informe?
La prima distinzione tra la “forma organica” (categoria generale che Godani utilizza per indicare tutte le possibili modalità di sovradeterminazione dell’informale) e l’insieme informale avviene in base al principio di rappresentazione, fondante per la forma, completamente assente nel caso dell’informale. La nozione di rappresentazione a sua volta, e veniamo a una ulteriore distinzione, implica la relazione tra il luogo privilegiato (che nell’informale, in quanto apertura totale, non si dà) e i luoghi sottostanti. Nel campo dell’informale, al contrario, la relazione non avviene tra entità pre-costituite e gerarchicamente organizzate, bensì tra singolarità in divenire che danno luogo a un tipo di relazione che Deleuze definisce relazione qualunque, ovvero “un atto singolare”, scrive Godani, “che precede e definisce il formarsi degli elementi della relazione: è nel loro carattere di attività o di attualità, di mobilità, di apertura e di identità che l’opera d’arte e l’atto politico risultano affermazioni esemplari dell’informale” (p. 11).
Attraverso l’analisi della logica rappresentativo-simbolica nei campi paralleli dell’arte e della politica, il testo di Godani ne enuclea i nodi problematici e pone le basi di un’ontologia dell’informale che va a costituire l’oggetto degli ultimi quattro capitoli del volume.
A partire dall’analisi schmittiana del politico, l’autore sottolinea come nell’età moderna la rappresentazione divenga, da necessità onto-teologica, necessità primariamente operativa, ed è precisamente a partire dal crollo (che genericamente definiamo nichilismo) dell’universo di valori medievale che la rappresentazione mostra chiaramente la propria logica selettiva nei confronti dell’informale e l’ambiguo rapporto che essa intrattiene con l’informe stesso. “Lo Stato moderno sembra fare a meno del presupposto che era fondamentale per la società medievale: l’esistenza e la presenza viva di una comunità organica. Ma proprio per questa ragione, per questa mancanza, esso si pone come potenza formativa, come potere che ha il compito apparentemente inaggirabile di ricostruire una forma (posta non più come archè, ma come telos), che viene pensata, in ultima istanza, secondo un modello analogo al sistema organico dell’ordine teologico” (p. 17). Mentre Nietzsche saluta il crollo dei valori come la condizione per l’affermazione del piano informale della volontà di potenza, Schmitt declina il nichilismo come caos informe, ed è su questa base che potrà parlare dello stato d’eccezione come fondamento del politico e di una teologia politica.
Come opera questa dialettica di nichilismo e organicismo sul piano della politica moderna?
È ancora in riferimento a Schmitt, lucido interprete dell’assenza di fondamenti, che Godani identifica la moderna volontà di forma nell’“unità politica di un popolo”. È il popolo  lo “spirito vivente” della macchina-Stato, e si identifica con l’idea simbolica di nazione: “La nazione è l’anima dello Stato, la sua essenza vitale, la sua unità vivente. Solo grazie ad essa lo Stato diviene un organismo. Ma questo accade non perché l’esistenza di una nazione implichi il costituirsi di differenze di natura rispetto alle altre nazioni […] quanto piuttosto per il fatto che l’identificazione nazionale realizza un’omogeneità superiore rispetto a quella che è in grado di produrre la macchina poliziesca. Le nazioni, pertanto, si differenzieranno non tanto per le loro specificità storiche e culturali quanto per il grado di identificazione che sono riuscite a produrre” (p. 49). La via d’uscita da questa dinamica non è tuttavia possibile né attraverso la logica del potere costituente (come hanno ipotizzato Negri e Hardt) né attraverso una politica liberale. Nel primo caso infatti, come sottolinea Benjamin nel saggio Per la critica della violenza, la violenza e il potere costituenti non possono sfuggire al circolo vizioso in base al quale il potere che pone il diritto è anche il potere che conserva il diritto. Ma anche nel caso del liberalismo l’organicismo risulta essere inevitabile. Infatti, qualsiasi politica liberale che fondi nel dialogo la propria capacità di risoluzione dei conflitti (si pensi a Kant, Arendt, Habermas) deve necessariamente presupporre una “ideale comunità organica”, un universalismo del logos, come pure, e necessariamente, una determinata forma politica che rimandi a quel logos. Un universalismo nel quale vi è, in conclusione, “sempre troppa sostanza spirituale (troppa storia, troppa cultura, troppa religione, etc.)” (p. 55). Una politica informale è possibile solamente là dove venga spezzata la logica, che oppone falsamente democrazia e autoritarismo, liberalismo e comunitarismo. Come il pensiero rappresentativo presuppone un universo strutturato gerarchicamente le cui parti siano riconoscibili per via analogica a partire dal Principio unificante e legislatore, similmente la relazione immanente tra ontologia e politica è imprescindibile anche nella proposta di una politica informale. È Deleuze a suggerire una via, in Differenza e ripetizione, riproponendo la tesi di Duns Scoto sull’univocità dell’essere, alternativa a qualsiasi teoria dell’analogia entis poiché se l’essere è univoco non si danno diversi piani (per esempio umano e divino) bensì un unico piano d’immanenza, quello dell’essere, al cui interno le differenze sono di natura puramente formale e non implicano alcuna divisione dell’essere. Solamente in uno spazio aperto e privo di ripartizioni fisse e predeterminate è possibile quella dislocazione, quella distribuzione nomade che Deleuze teorizza declinando diversamente da Schmitt il nomos della terra: non più distribuzione della terra a partire dalla conquista, dunque nomos come Ordnung e come Ortung, bensì nomos come luogo di distribuzione privo di confini; uno spazio liscio, illimitato, indefinito, contro lo spazio striato (segnato da muri e frontiere) della sedentarietà e del potere. I movimenti rivoluzionari, gli atti di disobbedienza, la guerriglia o la sommossa sono vere e proprie macchine da guerra che liberano il potenziale nomadico e inventano un nuovo spazio-tempo liscio, il luogo dell’uguaglianza e della relazione qualunque, quella “relazione tra due singolarità non identificabili al di fuori della relazione stessa” (p. 81). Uno spazio che sia il luogo di una universale comunicazione tra punti di vista eterogenei e del loro reciproco contagio.
È evidente tutta l’urgenza, e al tempo stesso l’inattualità, di una politica informale. Urgenza perché nel panorama post-nazionale agitato dalle questioni etnico-religiose, dai flussi di migranti, nonché dall’imperialismo occidentale, i linguaggi e le pratiche tradizionali mostrano tutta la loro debolezza; inattuale perché l’autoreferenzialità identitaria dei soggetti politici e la priorità della sicurezza (economica, politica, ecologica, sociale) rendono gli stessi soggetti tendenzialmente conservatori  e refrattari a una politica “nomadica”. In questo senso la riflessione di Godani rispecchia, anche in una certa astrattezza che la contraddistingue, il carattere non-definito, in-formale appunto, degli stessi soggetti politici coinvolti: “L’atto politico informale come affermazione dell’uguaglianza è un atto polemico che si oppone alle identificazioni e alle forme, che tende a disfarle, facendo passare la propria linea d’affermazione tra di esse, ma contemporaneamente è un atto che afferma l’universalità dell’uguaglianza come piano univoco dell’informale” (p. 154). Gli attori di una politica informale non sono i militanti e non sono parte di un partito sul modello di quello leninista, poiché centrale nell’informale non è il soggetto, ma sono, come afferma Rancière sulla scorta di Marx, i proletari, singolarità qualunque, dissolutori d’ogni classe e d’ogni figura, impropri, anonimi, anomali, unici soggetti d’uguaglianza che si collocano in quanto intervallo negli interstizi del politico e “tra i nomi, le identità o le culture” (p. 154). Sono la  singolarità qualunque che Deleuze indica con homo tantum e Agamben (riallacciandosi all’ultimo Foucault) con nuda vita, quella nuda vita sulla quale agisce la politica come bio-potere ma che è comunque ancora in grado di resistere e lottare, una nuda vita im-personale e pre-individuale, oltre-umana o indifferente all’umano in quanto tale, “una vita (come campo metastabile) [che] può determinare una delle sue singolarità entrando in relazione qualunque con una roccia, con un animale, con una macchina, con una molecola o con una stella; può divenire roccia, animale, macchina, molecola o stella; può comunicare con l’intero universo, perché essa stessa è sempre e solo un insieme di relazioni qualunque che quell’universo costituiscono”

martedì 26 febbraio 2008

L'espressionismo ricuperò le tendenze spiritualistiche e primitivistiche espresse nell'ultimo Ottocento,

A CURA DI D. PICCHIOTTI

movimento artistico sorto pressoché contemporaneamente in Francia e in Germania intorno al 1905 e così definito dal critico W.R. Worringer sulla rivista "Der Sturm".
  Le premesse e le caratteristiche
L'espressionismo ricuperò le tendenze spiritualistiche e primitivistiche espresse nell'ultimo Ottocento, specialmente dalla pittura di Vincent van Gog, indice
Le premesse e le caratteristiche
Le influenze dell'espressionismo
L'espressionismo in architettura
movimento artistico sorto pressoché contemporaneamente in Francia e in Germania intorno al 1905 e così definito dal critico W.R. Worringer sulla rivista "Der Sturm".
  Le premesse e le caratteristiche
L'espressionismo ricuperò le tendenze spiritualistiche e primitivistiche espresse nell'ultimo Ottocento, specialmente dalla pittura di Vincent van Gog, Paul Gauguin, Edvard Munch, James Ensor, Henri Toulouse-Lautrec; all'esperienza puramente visiva e sensoria della realtà, propria dell'impressionismo, l'espressionismo contrappose quella d'una realtà spirituale che si proietta sull'immagine pittorica piegandola, e talora deformandola, alla propria soggettività (alla propria "espressione"). Alla base di tale polemica antimpressionista c'era la contestazione della società borghese, giudicata inautentica e anticreativa, e l'anelito alla riconquista d'una verginità primitiva, affrancata da barriere sociali e razionali. Tecnicamente, la pittura espressionista si basava sulla semplificazione e sull'appiattimento intenzionalmente elementare delle forme, in nome d'un violento e talora esasperato cromatismo che diventava così il nucleo espressivo dell'immagine. Il gruppo Die Brücke in Germania e il fauvisme in Francia costituirono le due opposte e fondamentali polarità dell'espressionismo, quella nordica il primo, quella classica il secondo. Gravitante nell'orbita tedesca, ma con un'attitudine rinunciataria e spiccatamente introspettiva, è l'espressionismo austriaco di Egon Schiele, Alfred Kubin, Oskar Kokoschka (E. Schiele, L'abbraccio, 1917, Vienna, Österreichische Galerie).
 
Le influenze dell'espressionismo
Esauritosi come movimento, l'espressionismo permase, commisto ad altre componenti, come atteggiamento prepotentemente volitivo di fronte alla realtà. In Germania il Blaue Reiter ne sviluppò le premesse spiritualistiche in senso mistico-simbolico e la Nuova oggettività ne riprese in modo più esplicito la polemica sociale. In Francia, la scuola di Parigi realizzò per opera di artisti come Georges Rouault, Chaim Soutine, Maurice de Vlaminck e Marc Chagall , la fusione tra il fauvisme e Die Brücke (G. Rouault, Testa di Cristo, 1905, New York, collezione Walter P. Chrysler jr). Tale fusione venne raccolta in Italia dai movimenti della scuola Romana, dei Sei di Torino, di Corrente. Nel secondo dopoguerra l'esasperazione di un'attitudine espressionista di matrice nordica sfociò negli Stati Uniti nell'espressionismo astratto ( action painting) e si protese oltre, nella pop art, nel realismo critico, mentre i paralleli fenomeni europei (informale, neorealismo, nuova figurazione ) riproponevano la sintesi tra le due componenti classica e anticlassica.
  L'espressionismo in architettura
Affermatosi soprattutto nel primo dopoguerra, l'espressionismo in architettura, in un momento storico di crisi e di delusioni, rappresentò, con la sua appassionata polemica sociale e antiborghese, una complessa fase di ricerca, destinata a sfociare nella sintesi tecnologica e formale attuata dal Bauhaus dopo il 1919. In Germania l'espressionismo trovò forma in un atteggiamento utopistico: i "progetti fantastici" (esposti nel 1919 alla mostra dell'Arbeistrat für Kunst, cui aderirono, tra gli altri, Bruno Taut, Eric Mendelsohn, Walter Gropius) elaboravano una ricerca informata a un profetico formalismo. I legami con lo Jugendstil (Peter Behrens, Joseph Maria Olbric) e con l'espressionismo pittorico sono evidenti nella tendenza alle forme "biomorfiche", a linee curve e dinamiche, che accentuino il valore di sintesi plastica dell'organismo architettonico (Mendelsohn, Einsteinturm a Potsdam, 1920-21; F. Höger, Chilehaus ad Amburgo, 1923), nell'intensificazione dei valori cromatici e luminosi e, in termini più generali, nella programmatica ricerca di una sintesi di tutte le arti nell'architettura. Tra gli altri rappresentanti, oltre ai citati, dell'espressionismo architettonico, sono da ricordare Hans Poelzig, Max Berg, Otto Bartning e per la "seconda generazione", che su un piano storico ben diverso riprende spunti della prima, Hans Scharoun  Edvard Munch, James Ensor, Henri Toulouse-Lautrec; all'esperienza puramente visiva e sensoria della realtà, propria dell'impressionismo, l'espressionismo contrappose quella d'una realtà spirituale che si proietta sull'immagine pittorica piegandola, e talora deformandola, alla propria soggettività (alla propria "espressione"). Alla base di tale polemica antimpressionista c'era la contestazione della società borghese, giudicata inautentica e anticreativa, e l'anelito alla riconquista d'una verginità primitiva, affrancata da barriere sociali e razionali. Tecnicamente, la pittura espressionista si basava sulla semplificazione e sull'appiattimento intenzionalmente elementare delle forme, in nome d'un violento e talora esasperato cromatismo che diventava così il nucleo espressivo dell'immagine. Il gruppo Die Brücke in Germania e il fauvisme in Francia costituirono le due opposte e fondamentali polarità dell'espressionismo, quella nordica il primo, quella classica il secondo. Gravitante nell'orbita tedesca, ma con un'attitudine rinunciataria e spiccatamente introspettiva, è l'espressionismo austriaco di Egon Schiele, Alfred Kubin, Oskar Kokoschka (E. Schiele, L'abbraccio, 1917, Vienna, Österreichische Galerie).
  Le influenze dell'espressionismo
Esauritosi come movimento, l'espressionismo permase, commisto ad altre componenti, come atteggiamento prepotentemente volitivo di fronte alla realtà. In Germania il Blaue Reiter ne sviluppò le premesse spiritualistiche in senso mistico-simbolico e la Nuova oggettività ne riprese in modo più esplicito la polemica sociale. In Francia, la scuola di Parigi realizzò per opera di artisti come Georges Rouault, Chaim Soutine, Maurice de Vlaminck e Marc Chagall , la fusione tra il fauvisme e Die Brücke (G. Rouault, Testa di Cristo, 1905, New York, collezione Walter P. Chrysler jr). Tale fusione venne raccolta in Italia dai movimenti della scuola Romana, dei Sei di Torino, di Corrente. Nel secondo dopoguerra l'esasperazione di un'attitudine espressionista di matrice nordica sfociò negli Stati Uniti nell'espressionismo astratto ( action painting) e si protese oltre, nella pop art, nel realismo critico, mentre i paralleli fenomeni europei (informale, neorealismo, nuova figurazione ) riproponevano la sintesi tra le due componenti classica e anticlassica.
  L'espressionismo in architettura
Affermatosi soprattutto nel primo dopoguerra, l'espressionismo in architettura, in un momento storico di crisi e di delusioni, rappresentò, con la sua appassionata polemica sociale e antiborghese, una complessa fase di ricerca, destinata a sfociare nella sintesi tecnologica e formale attuata dal Bauhaus dopo il 1919. In Germania l'espressionismo trovò forma in un atteggiamento utopistico: i "progetti fantastici" (esposti nel 1919 alla mostra dell'Arbeistrat für Kunst, cui aderirono, tra gli altri, Bruno Taut, Eric Mendelsohn, Walter Gropius) elaboravano una ricerca informata a un profetico formalismo. I legami con lo Jugendstil (Peter Behrens, Joseph Maria Olbric) e con l'espressionismo pittorico sono evidenti nella tendenza alle forme "biomorfiche", a linee curve e dinamiche, che accentuino il valore di sintesi plastica dell'organismo architettonico (Mendelsohn, Einsteinturm a Potsdam, 1920-21; F. Höger, Chilehaus ad Amburgo, 1923), nell'intensificazione dei valori cromatici e luminosi e, in termini più generali, nella programmatica ricerca di una sintesi di tutte le arti nell'architettura. Tra gli altri rappresentanti, oltre ai citati, dell'espressionismo architettonico, sono da ricordare Hans Poelzig, Max Berg, Otto Bartning e per la "seconda generazione", che su un piano storico ben diverso riprende spunti della prima, Hans Scharoun


La corrente contemplativa dell'Espressionismo Astratto

DI D. PICCHIOTTI

La grandezza della New York School consiste soprattutto nel fatto di essersi emancipata dalle influenze culturali dell'epoca e aver originato un'arte nuova e incisiva, in sintonia con la condizione psicologica e intellettuale dell'artista contemporaneo.
La maturazione dei suoi protagonisti si è svolta in un clima di grande libertà interpretativa. Ma proprio tale libertà ha permesso che, già alla fine degli anni '40, al suo interno si manifestassero concezioni e stili diversi tra loro.
Attorno al 1949, con le nuove opere di Mark Rothko, Clyfford Still e Barnett Newman, comincia a delinearsi una corrente cosiddetta "contemplativa", o "meditativa". La definizione pone in risalto tre qualità fondamentali che la distinguono dalla linea più aspra ed energetica dell' Espressionismo Astratto:
• l'esclusione dall'opera di tutti gli elementi che possono distrarre la concentrazione dell'osservatore
• l'enfasi sulla capacità della pittura di esprimere valori universali ed eterni
• l'attenuazione della componente motoria, gestuale.
La corrente "contemplativa" si manifesta attraverso un genere di pittura completamente astratto.
Le opere sono caratterizzate da vaste campiture monocromatiche più o meno regolari, disposte su sfondi omogenei. Il ruolo centrale dei "campi di colore" ha portato il critico americano Clemence Greenberg a denominare questa pittura Color Field Painting (pittura a campi di colore), anche se alcuni critici hanno in seguito assegnato il nome a un altro gruppo di artisti.
I "campi di colore" sono molto diversi da un artista all'altro. Nei quadri di Mark Rothko, si presentano sotto forma di bande rettangolari, fluttuanti su sfondi omogenei. Nel caso di Clyfford Still, assomigliano a giganteschi laghi di colori con margini frastagliati, interrotti da fenditure di colori contrastanti, simili a crateri. Nei quadri di Adolph Gottlieb assumono l'aspetto di due masse monocrome sovrapposte, quella superiore a forma di disco e quella inferiore di una matassa irregolare. In Barnett Newman si dilatano in enormi superfici rettangolari regolari e uniformi, interrotte solo da bande verticali.
Per quanto diverse, queste le opere di questi artisti presentano comunque alcune analogie fondamentali.
• L'esigenza di concentrare l'attenzione dell'osservatore fa sì che la pittura si riduca alla sua essenza, il colore.
• L'assenza degli accenti tipici dell'astrattismo gestuale (sgocciolature, sciabolate di colore, spazzolate gigantesche) esalta le qualità sensoriali dell'opera.
• Le grandi dimensioni e l'aspetto monumentale delle opere determinano effetti spaziali.
La concentrazione assorta e monumentale delle grandi tele di Rothko, Gottlieb, Still, Newman induce a una sorta di contemplazione intima e meditativa, che proietta l'osservatore in una dimensione spirituale.
È sintomatico rilevare come i principali esponenti di questa corrente siano partiti da premesse simili.
Nei primi anni '40, Rothko, Gottlieb e Newman affermano a più riprese la loro aspirazione a rappresentare valori universali, eterni. Approfondiscono le teorie psicanalitiche di Jung e le tematiche connesse al concetto di "inconscio collettivo". Scoprono così l'universalità di segni e simboli che si ritrovano in epoche e culture diverse. Il loro interesse si rivolge verso la mitologia classica, l'arte primitiva e la cultura degli indigeni americani, dai quali derivano i propri personali sistemi di forme e simboli.
Come tutti i giovani artisti americani, verso la metà degli anni '40 devono fare i conti con l'influenza del Surrealismo. Ma la rappresentazione dell'inconscio e dei suoi incubi non si accorda con l'esigenza di universalità. È sul finire degli anni '40 che, a partire dai quadri di Newman, scompaiono i residui di forme organiche, elementi totemici e spunti simbolici. Attraverso un processo di sintesi intellettuale e formale, si compie l'eliminazione di ogni elemento riconoscibile e la riduzione della pittura alla sola componente cromatica.
Nei primi anni '50, la corrente "contemplativa" è rappresentata principalmente da Mark Rothko, Clyfford Still, Adolph Gottlieb e Barnett Newman. Molto prossimo dal punto vista formale è Ad Reinhardt, che a differenza degli altri sottolinea soprattutto la componente percettiva della pittura, a svantaggio di quella più spirituale.
Nella seconda metà degli anni '50 si inseriscono in questo filone vari artisti che rifuggono la gestualità dell'Action Painting. Un primo gruppo, definito con il termine Post-painterly Abstraction, comprende alcuni pittori che praticano colature di colore direttamente sulla tela non preparata. Ne fanno parte Helen Frankenthaler, Morris Louis e Kenneth Noland.

lunedì 25 febbraio 2008

, Le avanguardie storiche

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Nei primi due decenni di questo secolo, Le avanguardie storiche hanno totalmente rivoluzionato il panorama artistico europeo. In nome di una sperimentazione continua, giungono con l’Astrattismo a un’arte che è totalmente agli antipodi con qualsiasi tradizione precedente. La rottura con il passato sembra definitiva, ma l’apice di questa parabola si esaurì già nel terzo decennio del secolo. Il riflusso a un’arte più tradizionale si compì soprattutto negli anni ’30. In questo decennio si incontrarono due opposte tendenze che ricondussero il panorama artistico a un ritorno alla figuratività.
Da un lato vi fu l’atteggiamento dei regimi totalitari che si instaurarono in Europa, alle arti d'avanguardia e alle implicite libertà che esse pretendevano, dall’altro vi fu il riflusso degli stessi protagonisti delle avanguardie (emblematico il caso di Picasso) che, inaspettatamente, ritornarono a modelli rappresentativi più tradizionali.
Quando nel 1937 Picasso compose la sua grande opera sul bombardamento di Guernica, il suo linguaggio figurativo tornò improvvisamente alle scomposizioni e sintesi cubiste. Tuutavia ciò passò quasi in secondo piano rispetto al grande significato extra-artistico dell’opera: ossia l’impegno che l’artista esplicava nel denunciare una grande tragedia dell’umanità. Il significato di Guernica fu quindi principalmente letto come monito per gli artisti a impegnarsi nella lotta ideologica e politica. Non bisogna dimenticare che il momento storico era dei più drammatici: la conquista del mondo, tentata dai nazisti, con l’immane conflitto bellico che scatenò, non consentiva l'estraniazione da un impegno attivo. Neppure agli artisti era consentita l’evasione dalla realtà che, in quel momento, si presentava così tragica.
Questo atteggiamento si protrasse anche negli anni immediatamente seguenti la fine della seconda guerra mondiale. I grandi problemi lasciati sul campo dal conflitto bellico, e l’inizio della guerra fredda, indussero molti artisti a mettere la propria arte al servizio delle idee politiche e sociali.
Questo atteggiamento segnò la situazione artistica italiana di quegli anni, determinando la comparsa di due opposti schieramenti: realisti e formalisti. I primi, capeggiati soprattutto da Guttuso, proponevano un’arte impegnata nella realtà sociale del tempo, i secondi (Pietro Consagra, Achille Perilli, Piero Dorazio) pretendevano una maggior autonomia, rivendicando il diritto alle ricerche formali e stilistiche. Questo tipo di polemica culturale ci dà comunque il senso di quell’idealismo ingenuo, tipicamente europeo, di credere che l’arte possa servire a cambiare la realtà e a costruire un mondo migliore. Rispetto a ciò, di tutt’altra portata e segno appare quindi la comparsa sulla scena artistica internazionale dell’Espressionismo Astratto americano. La sua grande carica rivoluzionaria fu proprio la dichiarata disillusione nelle possibilità dell’arte. Con l'Espressionismo Astratto si inaugurò un nuovo filone artistico, definito in seguito Informale, che costituisce di fatto la prima tendenza nuova del secondo dopoguerra. Con l’Espressionismo Aastratto abbiamo un’ulteriore novità: le tendenze innovative dell’arte contemporanea non si formano più solo in Europa, ma anche nel continente americano.
Il decennio degli anni ’30 fu infatti significativo per un altro fenomeno: la grande emigrazione di artisti europei verso gli Stati Uniti. Qui la loro presenza fornì grandi stimoli, innescando una serie di esperienze, che sul suolo americano avrebbero prodotto molte novità, soprattutto nel dopoguerra. In questi ultimi quarant’anni si è prodotto il netto fenomeno di uno spostamento dei baricentri artistici. Prima Parigi era considerata la capitale mondiale dell’arte moderna, dopo questo primato si è spostato verso New York. Tuttavia la rapida evoluzione dei sistemi di comunicazione e spostamenti, ha creato oggi anche nel mondo dell’arte quel senso di «villaggio globale» che caratterizza la cultura odierna, rendendo di fatto inattuale la definizione di capitale artistica.
L'informale
Con il termine «informale» definiamo una serie di esperienze artistiche, sviluppate soprattutto negli anni 1950, che hanno una fondamentale matrice astratta. La caratteristica dell’«Informale» è di essere contrario a qualsiasi forma. Cosa sono le «forme»? Nella realtà sensibile è forma tutto ciò che ha un contorno, con il quale un oggetto o un organismo si differenzia dalla realtà circostante, nel quale si definiscono le sue caratteristiche visive e tattili.
Anche l’arte astratta, soprattutto nelle sue correnti più geometriche, si costruisce per organizzazione di forme. Queste, non più imitate dalla natura, nascono solo nella visione (o immaginazione) dell’artista, rimanendo pur sempre forme. L’Informale, rifiutando il concetto di forma, si differenzia dalla stessa arte astratta, costituendone al contempo un ampliamento. Questo ampliamento è da intendersi sia come possibilità di creare immagini nuove sia come allargamento del concetto stesso di creatività artistica, in quanto l’Informale produrrà in seguito una notevole serie di tendenze che sconfineranno oltre pittura e scultura. L’Informale è una matrice fondamentale di tutta l’esperienza artistica contemporanea. Il termine «informale» fu coniato negli anni 1950 dal critico francese Tapié. A questa etichetta sono state variamente attribuite, poi negate, molte ricerche di quegli anni. Oggi s'individuano, nell’ambito dell’Informale, due correnti principali: l’informale gestuale e l’informale materico. A queste due tendenze devono essere uniti altri due segmenti: lo spazialismo e la pittura segnica.
Action painting
L’informale gestuale, anche definito «action painting», proviene soprattutto dagli Stati Uniti, e coincide di fatto con l’espressionismo astratto. Suo maggior rappresentante è Jackson Pollock. La sua tecnica pittorica consisteva nello spruzzare o far gocciolare (dripping) i colori sulla tela senza procedere ad alcun intervento manuale diretto sulla superficie pittorica. Le immagini così ottenute si presentano come un caotico intreccio di segni colorati, in cui non è possibile riconoscere alcuna forma. I quadri informali sono pertanto la negazione di una conoscenza razionale della realtà, ossia diventano la rappresentazione di un universo caotico in cui non è possibile porre alcun ordine razionale. In tal modo l’esperienza artistica diventa solo testimonianza dell’essere e dell’agire. In ciò si lega molto profondamente alle filosofie esistenzialistiche di quegli anni, che proponevano una visione di tipo pessimistico della reale possibilità dell’uomo di realizzarsi nel mondo.
Le premesse dell’Informale di gesto si legano in modo molto diretto a alcune esperienze delle avanguardie storiche. In particolare dal Dadaismo si può fa risalire il suo rifiuto per la cultura, dall’Espressionismo la violenza delle immagini proposte, dal Surrealismo l’Informale prende un principio fondamentale: la valorizzazione dell’inconscio. Nell’Informale di gesto il risultato che si ottiene è del tutto automatico: deriva da gesti compiuti secondo movenze in cui la gestualità parte dalla liberazione delle proprie energie interiori. In tal modo l’automatismo psichico dei surrealisti arriva alle sue estreme conseguenze. In esso non v'è alcun momento cosciente, che cerchi di razionalizzare o spiegare ciò che proviene dall’inconscio. Uno dei grandi fascini di quest’arte risiede proprio nel suo farsi. Da essa infatti possiamo far derivare tutte quelle esperienze successive, quali il comportamentismo, la body art o le performance, in cui il risultato estetico non risiede più nell’opera compiuta, ma solo nel vedere l’artista all’opera. Tra i principali artisti americani dell’action painting ricordiamo, oltre a Pollock, Willem de Kooning e Franz Kline.
L’informale di materia è la tendenza che maggiormente si manifesta in Europa. Deriva da un’antica dicotomia da Platone in poi: la polarità materia-forma. Il primo termine indica il magma informe delle energie primordiali, il secondo definisce l’organizzazione della materia in organismi superiori. Questo contrasto materia-forma diventò un termine problematico nella scultura di Michelangelo e da lì ha influenzato, attraverso la riscoperta di Rodin, la scultura moderna. Con l’Informale anche i pittori si appropriano di questa problematica, proponendo immagini in cui i valori estetici e espressivi sono quelli dei materiali utilizzati. L’informale di materia inizia nello stesso anno in cui Pollock inventa l’action painting: il 1943. Protagonista è il pittore francese Jean Fautrier, che, rifacendosi alle esperienze del Cubismo sintetico di Picasso e Braque e alle ricerche surrealiste di Max Ernst, inserisce nei suoi quadri materiali plastici che emergono dalla superficie del quadro. In tal modo rompe il confine tra immagine bidimensionale e immagine plastica, proponendo opere che non sono più classificabili nelle tradizionali categorie di pittura o scultura. Ai valori espressivi dei materiali si rivolgono altri artisti informali europei: tra essi emergono soprattutto il francese Jean Dubuffet, lo spagnolo Antoni Tápies e l’italiano Alberto Burri. Quest’ultimo, in particolare, propone opere dalla singolare forza espressiva, ricorrendo a materiali poveri: legni bruciati, vecchi sacchi di juta, lamiere, plastica...
Spazialismo
Lo Spazialismo è una corrente non uniforme, che può aggregarsi intorno a due artisti principali: il milanese Lucio Fontana e il russo (ma naturalizzato americano) Marc Rothko. Anche le loro ricerche possono ricondursi all’Informale per la comune assenza di «forme», così come sopra definite. Tuttavia la loro ricerca mira a altri risultati, diversi da quelle degli altri informali. Con le loro opere mirano a suggerire effetti spaziali del tutto inediti: Fontana ricorrendo a buchi e tagli prodotti nelle tele, Rothko ricorrendo alle stesure di colori secondo macchie di sottile variazione tonale. Entrambe queste ricerche hanno la capacità di suscitare atmosfere immateriali e non terrene, proponendo un'inedita visione di spazi che vanno al di là dello spazio percettivo naturale.
Pittura segnica
La pittura segnica è, infine, un’ultima versione dell’Informale, anche se da questa si differenzia per la mancanza di un netto rifiuto della forma. In queste ricerche la forma, benché non del tutto assente, tende a trasformarsi in «segno», cioè in un elemento grafico di riconoscibilità formale, ma non contenutistica. Le ricerche della pittura segnica tendono a costruire nuovi alfabeti visivi, non concettuali, in cui è evidente la componente calligrafica. Tra gli artisti più significativi di questa tendenza sono da citare l’italiano Giuseppe Capogrossi, il francese George Mathieu e i tedeschi Wols (pseudonimo di Wolfgang Schultze) e Hans Hartung.

L'Informale italiano, pittura di segno e di materia

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

"La condizione dell'informale, storicamente inteso come l'insieme delle ricerche segnico-materiche che occuparono la vicenda artistica degli anni Quaranta e Cinquanta ispirandosi ad una concezione esistenziale e ad un irrepresso moto di adesione nei confronti della "carne del mondo" (..) si colloca quasi in sospensione tra gli stadi della primarietà e dell'ultimità. Una sospensione fitta di spine, senza reti protettive, irta sul ciglio di una scelta totale: l'abbandono di ogni certezza mentale, di qualsiasi referente diretto e immediato, oltre allo scarto di sicurezze progettuali [*].
E su questo baratro, su questa vertigine angosciosa lontana da ogni medietas che Roberto Pasini avvia la rassegna dedicata all'informale italiano - surrogata dalla presenza di oltre una quarantina di artisti - allestita negli spazi della Galleria Niccoli, che con quest'ultimo impegno, dopo le esposizioni dedicate a Forma 1 e al Movimento Arte Concreta, rispettivamente nel 1994 e nel 1996, continua un importante lavoro di rivisitazione ed approfondimento dell'avventura artistica italiana nel secondo dopoguerra. Se affrontare le problematiche connesse ad un fenomeno storicoartistico implica, in primo luogo, collocarlo entro precise coordinate geografiche e temporali - spaziando, nel caso dell'informale, su territori per molti versi opposti e contraddittori, il nuovo ed il vecchio mondo, l'America e l'Europa densa di implicazioni appare anche la ricchezza terminologica che ha accompagnato la nuova poetica. Art autre, informel, tachisme, ma anche action painting o abstract espressionism: una pluralità di significanti, dunque. che si fa spia evidente della molteplicità di significati ad essa sottesi, chiaro segnale di un'articolazione interna non facilmente imbrigliabile, di scelte ed esperienze linguistiche diverse che occupano la scena artistica europea e statunitense tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.
In Italia, ai di là di singole vicende che si pongono in immediata sintonia con la nuova poetica - si pensi ai Burri delle Muffe, dei Catrami e dei Gobbi o al Fontana dei primi Concetti spaziali, entrambi ben documentati in mostra - la ventata informale si può dire pienamente diffusa solo alla metà degli anni Cinquanta. il referente primo dell'esperienza italiana è certamente rappresentato dalla vicenda francese, dalla quale viene mutuato anche quel termine, informel, coniato da Michel Tapié solo nel 1951, appena un anno prima dei suo scritto più importante, Un art autre, risalente al 1952.
L'arte "altra" a cui alludeva Tapié, è l'arte di quegli Otages che Fautrier aveva esposto nei 1945 a Parigi presso la Galleria di René Drouin, seguito a ruota da Wols e da Dubuffet, nel 1946, col ciclo Mirobolus, Macadam & Cie.
Nell'ambito di un esistenzialismo venato di pessimismo ed angoscia di cui sono testimoni Jean PauI Sartre, Maurice Merieau Ponty, Albert Camus, di un vuoto di certezze e di fiducia nella ragione umana conseguenti agli orrori e ai drammi della guerra, la pittura abbandona dunque ogni fine comunicativo e narrativo, ogni banale tentativo di rappresentazione. Ecco allora che la tela si carica di un magma denso di visceralità, il linguaggio si fa materia: plastica, malleabile, corruttibile, esistenza allo stato puro.
E' questa una delle linee che trova affermazione anche nei percorso dell'informale italiano; aII'action, all'hic et nunc immediato e veloce di matrice americana - probabilmente sorretto da un meno pressante senso della storia e del tempo il vecchio continente contrappone l'esistenza, la materia. E non solo. Accanto ad essa, infatti, un'altra sigla espressiva emerge vigorosamente, una grafia segnica insistente, ora ritmica, virtuosistica, ora quasi vorace, che si "srotola" sulla superficie dell'opera con fare invasivo. Com e ovvio, spesso le distinzioni non sono così nette e le due polarità, il segno e la materia, si compenetrano e si affiancano all'interno dei singoli universi poetici.
Ma non si procede solo per polarità. L'allestimento realizzato alla Niccoli testimonia anche un'articolazione di natura geografica di cui si seguono i risvolti e i percorsi: Roma, Milano, Bologna, Torino, Venezia ed il suo entroterra, costituiscono altrettanti momenti di una fenomenologia articolata e mossa che sviluppa autonome specificità.
Così, se da un lato il "ritmo" segnico di cui si diceva riceve particolare evidenza nelle opere degli artisti che gravitano su Roma, da Twombly a Perilli, Novelli, Sanfilippo, Capogrossi, certamente si rivela elemento chiave anche del linguaggio di alcuni artisti di area milanese, basti per tutti il richiamo a Scanavino.
Materia e segno sembrano invece avvinghiarsi nel lavoro di Vedova, accompagnati da una violenza dinamica non priva di drammaticità. Vedova "predilige il segno spezzato, corposo, ictico, più vicino a Kline che non a Pollock, mantenendosi su tonalità nere, luttuose, temporalesche (...). Mentre Tancredi e Deluigi sottraggono corpo al segno, Vedova tende costantemente ad affidarglielo (...) per condensare le proprie energie in una sorta di "guerrapittura" ininterrotta, tra fendenti senza tregua".
Nei torinese Ruggeri la tensione drammatica preferisce invece la via di un'inquietudine interna meno gridata, mentre la pasta materica riacquista corposità e più fumose cromie. Ma l'autonomia linguistica informale, in ambito torinese, annovera anche l'esperienza personalissima di Pinot Gallizio, coi suoi "rotoli di 'pittura industriale', nei quali abbiamo una prima intuizione di pittura-ambiente, concetto diverso da quello più specifico e diretto di arte ambientale come si esprime ad esempio in Fontana".
Al contrario la Padania, nell'analisi di Pasini, appare erede di una visceralità "pansessuale" di cui "Morlotti è il mentore (...): il cosmo non va visto con il telescopio o il microscopio, come nel caso, genericamente parlando, degli spaziali e dei nucleari, ma stretto in una morsa di terra, fango, sudore, sperma".
L'accenno alla Padania non può non richiamare istantaneamente alla memoria il pensiero critico di Francesco Arcangeli, che nel novembre del 1954 pubblica su "Paragone" il saggio Gli ultimi naturalisti. La religione della natura, in cui l"'uno" - cioè l'uomo si contrappone e si raffronta col "due" cioè la natura - è al centro dell'elaborazione del critico bolognese: forse, scorrendo i lavori degli artisti presi in esame in questa sezione, è proprio l'aggancio con la natura che a volte traspare a gettare una luce di speranza, un appiglio che altrove, si pensi per esempio ai già citati Wols e Fautrier, la crisi dei valori consacrata dall'esistenzialismo sembra avere definitivamente scardinato.di Francesca Turchetto

domenica 24 febbraio 2008

Consulente d'arte

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Se non vi piace la materia e non avete la curiosità da appassionato pedante di confrontare i vostri gusti con quelli di altri, abbandonate subito la lettura: anche se mi sono inibito e ho contenuto le tentazioni a citare nomi, non ho potuto risparmiare un lungo elenco. Per di più, con dovizia di opinioni bizzarre.
Non pochi, dotati di quattrini, acquistano quadri di valore, non tanto per guardarseli, ma per “diversificare gli investimenti”. Con la golosità di guadagnare come in un affare, si rivolgono spesso all’arte contemporanea, più promettente in vista di forti rivalutazioni; e siccome si tratta di soldi – e nell’arte contemporanea è difficile orientarsi dentro la gran confusione di prezzi e qualità – pensano giusto rivolgersi a consulenti. Non di rado questi sono mercanti interessati, ma non si può escludere che esperti in buona fede siano felici di consigliare amici e conoscenti per il piacere di passare il tempo in un settore gradito e comprare per altri quello che non possono comprare per sé.
Se un amico ricco avesse la bontà e la suprema modestia di affidarsi a me per questo genere di consiglio, darei l’anima per aiutarlo, ma utilizzerei un principio elementare e assoluto: non la probabilità che il pezzo aumenti di valore, ma il puro apprezzamento estetico, il messaggio poetico che un artista mi trasferisce. Prenderei le opere che desidero per casa mia, questa volta senza limitazioni economiche. Aver visto molti dipinti in molti musei e molte mostre in molti anni, fornisce almeno una sicurezza consapevole di gusto e questo vorrei trasmettere a un amico meno informato, cercando magari di tener conto delle sue preferenze archetipiche.
Non occupiamoci di pittura antica, il discorso porterebbe troppo lontano. Inoltre, nei suoi valori maggiori, ha un mercato troppo ristretto, per veri Nababbi. Se non c’ è una disponibilità finanziaria enorme, che consenta di accedere ai grandi – e alle loro opere migliori, non a quelle di scarto – meglio rivolgersi alle bellissime stampe di Durer o di Rembrandt o di Goya; o a disegni, tuttora reperibili sul mercato (autentici o imitatii da Hebborn che siano) a prezzi decenti. Un bel disegno del Guardi (Venezia-acqua, non i capricci architettonici). Certo non mi negherei, se si trovasse, un dipinto di Piero di Cosimo o un piccolo Mantegna (una Madonnina come quella di Berlino o un’Adorazione con i pastori pieni di sentimento) o un olio fiammingo del Quattrocento, ma dovrebbe verificarsi il fallimento di un museo e bisognerebbe essere favoriti all’asta. O conoscere qualche tycoon in disarmo che svenda la sua collezione. Starei alla larga dai fondi oro, da sempre – e peggio da Berenson in poi – terreno preferito di mercanti voraci e abili falsari. Allora, meglio ripiegare su qualche fiammingo del Seicento, carretti a ruote grandi in un paesaggio a sfondo azzurrino, oppure una natura morta con i formaggi (non con i fiori o la frutta, troppo comuni); o, ancora, una bella veduta veneziana del Settecento: in questo ambito, sono ancora accessibili opere di qualità entusiasmante.
La pittura dell’ Ottocento non mi interessa, quella italiana ancor meno, per la cappa provinciale, i frequenti contenuti da melodramma e le intemperanze formali. Degli Italiani mi piacciono Carnovali – il Piccio – , qualche cosa della Scapigliatura, e, un po’ più avanti – Novecento per epoca, Ottocento per spirito – il post-macchiaiolo Ghiglia, compagno di scuola di Modigliani. A livello internazionale, trovo affascinanti i Preraffaelliti per la stranezza e la qualità vibrante dell’ esecuzione e, per altri versi – ma non lo comprerei anche se genio originalissimo –, il paesaggista tedesco Friedrich, oltre a qualche olandese. Degli impressionisti, ammiro i pastelli di Degas, (tanto deriso dal mordace Picasso, nella suite Vollard, per la sua inclinazione senile verso le ballerine) – ma, per la mia casa, di lui vorrei piuttosto certi dipinti con il verde degli ippodromi e i cavalli – e ammetto il valore di Monet – vero motore e punta del movimento – prima dell’esasperazione ripetitiva. Agli altri riconosco il ruolo storico, la rottura, ma Renoir è insopportabile e ha in più il demerito involontario di aver dato la stura ai peggiori quadri da bancarella, di essere responsabile del più sinistro pseudo-Impressionismo da piazza. Piuttosto, meglio l’ubriacone Utrillo, con le sue ingenue ma toccanti case grigie parigine, visioni fedeli della città che forse copiava da cartoline, nella sua stanza, vicino alla bottiglia, a dispetto del “plein air”.
Un olio di Cezanne è troppo anche per un ricco ambizioso e gli acquerelli mi sembrano molto meno attraenti. Abbandonerei l’idea di un Van Gogh, stratosferico nei prezzi e che parrebbe una riproduzione (a tal punto vediamo dappertutto copie o stampe dei suoi girasoli, degli iris e degli autoritratti), ma cercherei a costo di sacrifici un Gauguin, di soggetto non-tahitiano.
Spostandoci nel Novecento, in assoluto Klee, Schiele, Modigliani sono quelli che preferisco, i più emozionanti. Un riccone può includere nella collezione un Braque o due (Picasso è troppo scontato, fa ricco ma non fine); di Braque mi accontenterei addirittura di qualche litografia (prenderei una colomba). Sono particolarmente belle secondo me le opere degli anni quaranta e cinquanta, molto più tarde rispetto ai periodi importanti per la storia dell’Arte: equilibrio, gusto, bellezza prendono il sopravvento sulle istanze teoriche. E Matisse? Un collage degli ultimi anni, quando, infermo, ritagliava o faceva ritagliare dai collaboratori le carte stando nel letto o in carrozzella, prova che un certo impedimento, a volte, contenendo impulsi prometeici e dispersivi, libera meglio la fantasia in una sintesi più limpida. Poi, qualche espressionista tedesco. Schmidt Rottluff prima degli altri. O un Kirchner degli ultimi, un paesaggio verde scuro. I quadri degli espressionisti sono forti e raffinati e non rischiano mai di apparire banali, come è invece, oggi, per gli impressionisti, a causa del seguito popolare che hanno avuto. Vorrei anche (non è espressionista, è nei dintorni) un paio di disegni (almeno, se un olio anche meglio) di Feininger, uno dei miei preferiti assoluti. Un espressionista in casa vuol dire cultura (escluderei l’antesignano del movimento Munch, che mi sembra disarmonico e sgradevole nel disegno); un impressionista può significare seguire una moda, per di più superata, da vecchio. Se il mio amico ricco insiste e un impressionista lo vuole proprio, prendo un Pissarro con i tetti arancio o un Monet prima maniera, o aspetto sul mercato un Degas con cavalli, fantini e prato verde, e, scivolando negli epigoni, un bel Toulouse Lautrec, preferendo ancora cavalli e diligenze alle inflazionate prostitute. Se il connotato borghese dell’amico è incrollabile, posso concedere un piccolo Bonnard o un Vuillard, però mi sembra un’abbondanza inutile, una mania di completezza, una presunzione, una cosa fuori luogo.
Niente Dada, Man Ray, Duchamp, Arp (vanno bene visti sui libri di storia dell’Arte); quasi niente Surrealismo. Al massimo Max Ernst, scegliendo un’opera fra quelle meno stravaganti: lo metterei, con sommo snobismo, nella stanza da bagno, come Peggy Guggenheim, anche se per altri motivi. E Otto Dix, roba – si può pensare – adatta alla casa del barone Von Tyssen Bornemitza; ma cercherei ugualmente un suo lavoro, ammirandone la finezza di esecuzione e la satira raffinata, mai grossolana. Assolutamente no Magritte e Delvaux: mi infastidiscono. Sì, senza troppo entusiasmo, Schwitters, ma chi trova cose sue? Ho sempre dichiarato il mio scarso feeling per Kandinsy – ottimo teorico, pittore debole, nella mia ottica – come anche per Chagall nello stile tardo, col disegno sfatto (accettando dunque i primi quadri nostalgici, quelli di stile cubista addomesticato, con i verdi intensi) e il mio dispetto per Mirò con il suo finto-puerile. Ne impedirò dunque l’acquisto all’amico, caso mai gliene venisse la voglia.
Spostiamoci avanti e indietro nel tempo, troppo noioso e difficile andare in ordine: anche uno o due dei COBRA consiglierei; sono vigorosi e immediati, gustosi, vitali, senza smancerie, anche se troppo costosi rispetto alla sostanza . Fra loro, scelgo Karel Appel. Ma soprattutto, nell’ambito del contemporaneo europeo, ci vogliono Fautrier e Dubuffet. Fautrier è uno dei più alti pittori della seconda metà del Novecento, le sue opere sono nobilissime; ne acquisterei parecchie, potendo, anche della fase figurativa oltre che del periodo maturo, informale. Di Dubuffet un quadro o due di quelli materici, di gesso e catrame, con le figure incise, e un altro sul versante allegro, con le mucche nel prato verde del periodo successivo. Dubuffet è grandissimo, fresco, nuovo e denso di mistero, ricerca un ritorno alla spontaneità di ben altro spessore e fascino rispetto a Mirò e ha il merito di aver scoperto e imitato, con esplicita giustificazione critica, l’arte dei cosiddetti matti, che è spesso geniale e commovente e, sempre, sincera e genuina. Il suo teorizzare che l’Arte deve sbarazzarsi di tutte le teorie e le Accademie è una palese contraddizione per un raffinato e profondo intellettuale come lui, ma la densità del suo messaggio e il suo valore poetico sono evidenti. Tutto quello cha ha dipinto o scolpito è bello, non mi piacciono solo gli assemblaggi di ali di farfalle.
Arriviamo infine alle opere più accessibili o, almeno, più reperibili. Uno degli artisti da acquisire per un facoltoso è De Pisis, pittore istintivo e senza trucchi, sapido, poetico ma istruito, strutturato su un fondamento di cultura internazionale filtrata con sensibilità sottile. Evitando i quadri comuni, semplificati, che, forse, sono per gran parte falsi, cercando invece il dipinto veramente bello, quello che, a colpo d’occhio, affascina. Sceglierei paesaggi di atmosfera più ancora che nature morte, o, se nature morte, quelle scure con oggetti di vetro tratteggiati di pennellate bianche, trasparentissimi. Uno o due De Pisis di quelli buoni in casa si guardano volentieri. De Pisis ha meditato con intelligenza e originalità pittura antica e moderna, Impressionismo e correnti contemporanee, e con libero talento ha lasciato la sua impronta in una figurazione trasognata, nervosa e lirica che mi ricorda, nei paesaggi, soprattutto il vedutismo di Francesco Guardi.
Sebbene fuori dalla storia dell’Arte Contemporanea, perché classificabile formalmente come letargico nella forma, un altro grande è Arturo Tosi, più moderno di quanto non sembri a prima vista, influenzato dalla Scapigliatura e dal pittore francese Monticelli, materico e grumoso (un artista a parte, un isolato che ha influenzato anche Van Gogh).
Mi piacciono i pittori con personalità inconfondibile. Per fare un esempio in negativo, non mi interessa nulla Severini, tanto osannato e quotato: dopo un insignificante fase futurista, imita Braque e Picasso e, pur avendo l’onore di appartenere a un’avanguardia, per essere stato a Parigi nel momento cruciale, è un copiatore troppo scoperto, quasi spudorato, i cui limitati meriti sono aver capito in tempo reale il Cubismo e avere un passabile gusto decorativo. Preferisco di molto uno storicamente più modesto come Gentilini, che deriva sì la sua pittura dai modi di Paul Klee, ma ne dà una versione riconoscibile, personale e coinvolgente, dipinga prostitute di strada, gatti o cattedrali. Alcune sue visioni notturne surreali sono magnifiche.
Apprezzo Marino Marini, che certa critica accusa di manierismo: io vedo in lui raffinatezza non leziosa, spontanea eleganza, umorismo non caricaturale, ma anche tensione e ricerca, oltre a emozione e piacere di rinnovamento per sottili variazioni e un grande, moderno gusto per le belle immagini. Anche Fausto Pirandello mi piace, per la misura e il colore. Si può dire che nessuna opera di Marini o Pirandello mi disturbi, tutte le trovo degne. E mi piacciono le opere commosse, anche solo le incisioni originalissime e tenere, di Giuseppe Viviani, cui hanno contribuito ad affezionarmi i caldi articoli del suo amico Piero Chiara.
Tra gli informali, Vedova va bene, ma è un po’ troppo nero e un po’ troppo alla moda, enfatizzato dai mercanti. Ha prodotto negli ultimi anni una quantità di tele e soprattutto carte che invadono aste e vendite televisive e lo si può ben comprendere dati i costi elevatissimi e la rapidità di esecuzione che il suo tipo di pittura informale-segnica consente. Il gusto e la qualità sono sempre rispettabili, comunque, anche se io trovo poco convincenti certi rossi elettrici. Santomaso (più ordinato) e Celiberti (più selvaggio) sono notevoli, sebbene il secondo, tuttora attivo, ultimamente ceda, lusingato anch’egli dalle televendite, verso una produzione leggermente troppo abbondante, ripetuta e condiscendente. Burri e Afro sono grandi di livello internazionale. Fontana invece non mi attrae: è troppo freddo e troppo facile; il rigore di stile e la riconoscibilità sono pregi, ma non bastano. I quadri con i tagli sono tersi, ma quelli con i buchi sono sgraziati e il nitore dello sfondo è dissonante con lo sgradevole arbitrio dei fori. I titoli non aiutano, denotando l’ingenuità presuntuosa comune a molti pittori che hanno ambizioni letterarie e filosofiche esagerate e inopportune (“good painters, bad philosophers”). Basta un titolo come Concetto spaziale ad abbattere un quadro di Fontana, la prosopopea lo tradisce. Un pittore veramente colto, oltre che dotato di sentimento, è il meglio, però a un finto colto preferisco un naïf di talento.
Di Crippa può andare bene un sughero ben scelto, non un quadro con le spirali. Di Dova uno smalto può essere gradevole. Nessuno di questi è entusiasmante. Agli stessi prezzi, si acquista un maestro antico di pregio. Se si trova, per il mio gusto è sicuramente da prendere – finanze permettendo – Licini, fuori da ogni gruppo e classificazione, ma di notevole fascino. Anche un buon Birolli è una scelta giusta, non sfigurerà in casa del ricco amante di arte, sebbene tenda all’eccesso di intellettualismo. E anche qualche opera riuscita (sono di vario livello) di Corpora o di Saetti.
Tadini, ammirevole per la cultura sostanziale che mostra nelle opere pittoriche come negli scritti, è elegante ma algido. Considerazioni analoghe valgono per Adami. Anche Emilio Scanavino, raffinato in modo diverso, è però quasi sempre troppo cerebrale. Gi astrattisti geometrici (Veronesi, Soldati, Dorazio), non mi dicono niente. Magnelli: un po’ meglio.
Fra i più recenti, i migliori sono Mattioli – a patto di scegliere bene i soggetti, perché qualche noia viene dagli alberi solitari e dai bianchi e rossi troppo vivi – e Forgioli – che invece si può acquistare alla cieca, perché la qualità è omogenea nella sua controllata produzione. Mi piace, poi, Franco Rognoni, che ha appreso con garbo da Klee e da Feininger, sempre restando su terreno di poesia pura, specialmente nei paesaggi e nei notturni (vorrei una Venezia o un panorama azzurro con il classico campanile illuminato e la luna, vecchio simbolo lirico immortale). Dico di sì anche a Paietta, quasi introvabile, pittore rimasto nascosto, del quale si può vedere un’idea sulla scala di “Peck” a Milano.
Degli stranieri, Sutherland, “british”, moderno, di classe. Tra gli altri, del gruppo di Londra, il super-materico Auerbach (origini tedesche) più di Bacon (grande, espressivo e originale, ma non incontra del tutto il mio gradimento) e di Lucien Freud con il suo personale realismo. Cercherei anche Ben Nicholson, che mi dà piacere anche nelle più semplici matite. Un bel colpo snobistico (sono costosi ed esclusivi ma poco noti fuori del Regno Unito) sarebbe trovare qualche opera dei raffinati paesaggisti neoromantici inglesi della prima metà del Novecento (di stile sostanzialmente post-impressionista, però con un’inconfondibile nota britannica, trasversale nei secoli di arte inglese, come la musica di Purcell o di Elgar): specialmente un acquerello di David Jones, sintetico e squisito. Niente David Hokney – prezzi esagerati e poca sostanza – che sfrutta la moda e l’ignoranza dei più con sfacciata ruffianeria, oltre che in virtù di ammiccamenti omofili intenzionali alla cattura di un certo pubblico. Gioca con l’iperrealismo e il "sofisticated" formale (anche il suo libro sull’uso degli espedienti ottici dagli antichi maestri è superficiale e non dice nulla di significativo al di là delle belle fotografie, in un’imponente presentazione per un modesto contenuto). I grandi americani – Pollock, Rotchko – sono inavvicinabili per i costi spropositati, e, a causa delle dimensioni, richiedono pareti di castelli o loft a New York. Stanno meglio negli States che da noi, e così i loro emuli (mi piace Motherwell). Però farei un’ eccezione, per mia personalissima simpatia: prenderei un bel De Kooning, di formato piccolo per limitare – pur con il pagatore alle spalle – la spesa e trovargli posto in una casa normale. Lascerei agli americani la Pop Art, importante quale movimento di idee ma poco godibile per un europeo della mia età.
Tornando agli italici, gli altri nomi noti non mi interessano, inclusi quelli roboanti e storicizzati. Savinio è preferibile, per me, al fratello Giorgio De Chirico, rispetto al quale è più spiritoso e meno retorico, ironico pur restando solenne. Carrà mi è sempre sembrato mediocre, povero: vedendo gli affreschi del Quattrocento italiano affumicati e sporchi di vernici gialle e grigiastre da secoli (l’epoca dei grandi restauri filologici, discussi per la reintegrazione dei colori vivi, doveva ancora venire), ne ha riprodotto il sapore nelle sue marine tirreniche. Ė vero che ha partecipato come teorico attivo ai movimenti italiani importanti: Futurismo, Metafisica, Novecento (dunque Avanguardie e tutto il contrario), ma come pittore futurista era a rimorchio di Boccioni, inclinando verso il brutto (orribile lo sfigurato cavallo in corsa tutto rosso, con il muso corto e i dentoni), come rappresentante della metafisica era meno ispirato di De Chirico, sostituendo cromatismi ora smaltati e chiari ora fumosi e un disegno insicuro alle oniriche figurazioni di fuoco crepuscolare, grevi ma profonde e nostalgiche, di DeChirico. Quanto ai suoi meriti come teorico, sono persuaso che, sebbene sia rispettabile l’istanza di teorizzare, la pochezza logica delle dottrine alla base di tutti questi movimenti li abbia immeschiniti: la pittura da sola sarebbe stata più suggestiva, e rendere esplicite le idee sottese la ha sminuita, prosaicizzandone la poesia visiva.
Morandi è fine e personale ma, alla lunga, così ripetitivo da diventare noioso, danneggiato poi dall’essere proposto ed esaltato in ogni occasione. Mafai è apprezzabile e più raro. Ancor più vorrei avere un’opera della moglie Antonietta Raphaël, di spirito e formazione internazionale e spregiudicata, ben al di fuori della cappa provinciale e retorica del novecentismo con cui ha avuto rapporti (bellissimo il suo quadretto a Brera).
Morlotti ha una buona formula, ma à stato troppo ripetitivo. Music è tenue e la sua delicatezza finisce in manierismo ingiustificato. Turcato è serio, elegante ma poco sanguigno: scade nel decorativo. Farei anche un elenco di quelli da evitare. Partendo dai più recenti, Schifano: grande bluff e forse falsificato per i quattro quinti (o i nove decimi? O i diciannove ventesimi?) – ammesso che ci sia qualcosa da falsificare per opere così ordinarie – con i correligionari Tano Festa e Franco Angeli. Lasciamo perdere anche Transavanguardia, Nespolo (che ha voluto conferire dignità ai puzzle, se non altro con qualche originalità), Baj, intelligente ma troppo caricaturale e, andando indietro, per citare autori all’apogeo tre decenni fa, Fiume Cantatore Sassu Cascella Brindisi e Migneco, il quale ultimo ha confuso l’espressionismo con le rughe sui volti e la pittura a sfondo sociale con la bruttezza fisica dei personaggi; gli italianizzati Lam e Matta, che mi sembrano vuoti, Guttuso con le sue Vuccirie, le ruvide nature morte e i suoi nudi (deretano largo e piatto per fedeltà alla modella titolare), comunista frequentatore di salotti alla moda, pittore, a mio modo di vedere, pesante, insignificante dietro l’affettata solennità, spesso volgare nel colore. Che cosa significa Guttuso, quale è il suo messaggio? Per rifarsi a un famoso racconto: nada y pues nada y nada y pues nada. Una propaggine fuori sede di realismo socialista lo ha giustificato e promosso, con la collaborazione della diffusa ignoranza che permette ai critici di prosperare meglio e con il sostegno di una cultura egemonica che mescolava Arte e Politica.
Da escludere i manierismi insipidi: Tozzi delle teste di manichino (non è ridicola la loro moltiplicazione all’infinito?) e Guidi delle isole di S.Giorgio, una presa in giro. Guidi è terribile in tutte le fasi, anche nel periodo giovanile novecentista, quello più raro. Nei prodotti peggiori, poi (le lagune con gli angoli inferiori segnati di un altro colore, certi volti e occhi con il verde: le Baronesse!), tocca lo sgradevole irritante: può darsi che i quadri più brutti (molto numerosi) siano copie o imitazioni, dilatazioni mercantili favorite dalla facilità tecnica irrisoria con cui si presta alla falsificazione. C’è da sperarlo, per salvare in parte la sua dignità artistica. Goffe a loro volta, pur se di qualità migliore, le faccine di Antonio Bueno, che ha trovato pascolo nel nostro paese con l’espediente della ripetizione micro-variata di un soggetto grazioso e puerile (mentre sono degni di nota i primi quadri iperrealisti). Stesso deterioramento commerciale, su versante patetico, nelle piagnucolose figure grigie del fratello Xavier. Fra gli artisti ormai “storici”, mi innervosisce Campigli con il tanto elogiato arcaismo e gli occhioni cerulei tutti uguali, buona trovata per un quadro o due, non per una serie interminabile. Quelle donne tutte con gli occhi teneri di ispirazione egizia, sui toni ocra, dal corpiciattolo deformato secondo uno stereotipo privo di variazioni, non fanno ridere alla fine? Che qualcuno sia disposto a comprare un quadro grande di Campigli per oltre un miliardo di lire desta stupore davvero. Peggio ancora Rosai, specialmente i famigerati Omini all’osteria. Ben più articolato e sottile Casorati, che pecca, però, di accademismo accomodato, difettando di spontaneità. Lasciamo stare Funi Borra Oppi e novecentisti vari, con un’eccezione positiva per Marussig, più nitido e meno greve, e Sironi, di altra levatura grazie all’originalità dei soggetti e all’ispirazione moderna (Tosi è collocato insieme ai novecentisti, ma, per la sensibilità diversa, è tutt’altra cosa). Se piace proprio il genere – “Novecento” e novecentisti a tutti i costi – cercate Cagnaccio di S.Pietro, asciutto e singolare rappresentante dell’Art Decò italiana in pittura, severo, ricercato e poco conosciuto alla massa di cacciatori di affari.
L’elenco, quasi alla rinfusa, arbitrario nell’ordine e nella logica delle opzioni, considera pittori storicamente importanti e altri che sono semplicemente best seller nelle mostre mercato, in alto sulla lista delle preferenze e della propaganda commerciale. Non ho citato importanti artisti internazionali di oggi, come Kiefer o gli altri tedeschi: sono ormai troppo vecchio. Penck, nonostante io abbia un debole per i graffiti, mi sembra un Dubuffet troppo male in arnese, Baselitz e i suoi personaggi rovesciati mi pare poco serio. Desidero quadri dipinti o giù di lì; installazioni, neon, video o costruzioni da camera non mi comunicano niente o non li considero parte dell’arte di cui parliamo.
All’amico ricco procurerei insomma un Afro o due, un Licini (una Amalasunta), un Santomaso, un paesaggio di De Pisis, qualche inglese – Sutherland e Ben Nicholson in particolare – Tosi, Paietta, un bel dipinto colorato di Marino Marini (oltre a una sua scultura per il giardino, magari), un quadro di Cagnaccio di S. Pietro per dare un tocco di diversità elegante, uno o due Mattioli ben scelti, Forgioli (più di uno) e, se si trovassero, Dubuffet e Fautrier. Se vuole strafare all’americana, un Motherwell in una parete del salone. Gli cercherei qualche disegno di area Rembrandt, qualche incisione di Mantegna e Dürer, due o tre dipinti antichi solo di gran livello, secondo le occasioni del mercato. Vorrei uno o due quadri di un vedutista veneziano, Venezia-“acqua”. Infine uno Schiele, almeno un acquerello, meglio però un olio. Un Feininger.
Personalmente, tuttavia, mi dedicherei, nell’ambito dell’Arte Contemporanea, in prevalenza a pittori non ancora affermati. Se il ricco amico che si fa consigliare è davvero libero da preconcetti, se non ha bisogno che tutti i suoi artisti siano noti e quotati sul mercato nazionale o internazionale, mescolerei a quelli celebri altri ignorati, che non sono usciti dal loro ambito. È una soluzione disinvolta, meno parruccona, che dimostra gusti non timidi. Troppo facile acquistare i pittori già consacrati dalla critica e dal pubblico: basta avere le possibilità economiche. Uno qualunque dei seguenti, se prescindiamo dal ruolo storico, se non teniamo conto del merito di appartenenza a correnti o movimenti innovatori, secondo me è molto meglio, nella propria casa, del gruppo di titolati che ho definito“da evitare”. Inoltre, pittori ignoti ai più sono espressione di una vera scelta e non di un atteggiamento pedissequo. Se vedo un Renoir in casa di un conoscente, magari il nudo grasso di una rosea panettiera bionda, che cosa penso? Che gusti scontati, per essere così ricco. E un Rosai? Che banalità, non poteva scegliere meglio? Oltre che dall’autore, dipende naturalmente dalle opere: di Lilloni, altro è il solito bosco azzurrato, altro è una veduta di Stoccolma. Ci sono opere di Cascella degnissime, prima che si mettesse a dipingere Portofino e campi di papaveri (ma se uno conosce i papaveri corrivi, allora accetta male tutto Cascella).
Nell’area milanese, grande artista è Gianfranco Testagrossa, meritevole di riscontro ben più ampio, che ha il dono superiore del disegno assoluto e traccia graffiti dalla linea perfetta, aspirando a risalire ai primordi della figurazione: così nelle opere informali su carta, come negli oli figurativo-simbolici o nelle sculture di terracotta colorata, è di altissimo livello. Una mistura di orgoglio, cocciutaggine, paura che le pressioni commerciali snaturino la sua arte, lo rende diffidente verso mercanti e televendite, un approdo che gli renderebbe più facile la vita, dato il sicuro successo cui sarebbe destinata la sua arte elegantissima e di forte impatto. Notevoli sono anche la senese Battaglini, residente a Sesto San Giovanni, che richiama i fondi oro prerinascimentali inserendovi immagini di mura merlate medioevali – memore dei paesaggi urbani del conterraneo Ambrogio Lorenzetti – in un timbro oscuro e una materia di gran gusto, e il “fauve” Licos, istintivo ma sapiente, di stile pittografico e con frequente uso di un“dripping”personale, che espone le sue tavole sui Navigli. Monticoni, che abita nel cremasco, è geniale e poliedrico, un artista informale di statura internazionale. I suoi dipinti e le sue sculture non sfigurano in nessun contesto, sono opere contemporanee di classe. Nell’ambito parmense trovo gradevolissimo Stefano Spagnoli, eclettico e, nella produzione migliore, di grande qualità: pittore di genere colto, utilizza spesso come supporto, traendone fascino, vecchie carte o tavole grezze; anche per lui la fonte principale è Klee, in un’elaborazione originale e commista con altre suggestioni culturali e un frequente connotato Art Noveau; ma, come artista libero e inventivo, non disdegna escursioni nel collage più sbrigliato con carte e stoffe colorate o in figurazioni geometriche solide e volumetriche. Sempre, con un risultato brillante. Mi piace acquistare i quadri di Spagnoli da Giovati, straordinario personaggio di Parma, corniciaio d’eccezione e gallerista per amici, capace di trovarvi le cornici vecchie più giuste o costruirne di nuove, patinandovele con gusto superlativo e suggerendo accostamenti da vero maestro, per i dipinti di Spagnoli come di ogni altro pittore. Da Giovati potrete imparare un mucchio di cose.
Con una escursione indebita nella scultura, prenderei anche le piccole ceramiche ispirate di Tonino Negri, giramondo con abitazione a Lodi che ha applicato nuovi modi tecnici a una creatività davvero brillante e originale.
Ultima scoperta, un senegalese simpatico, Lamine Seck, che vi piacerà se amate lo spontaneismo primitivo: abita vicino a Zingonia e dipinge con individualità e freschezza; la sua opera è un incrocio fra Art Brut e graffiti da strada: chine e pastelli a olio o tecniche più complesse, che sposano un segno ruvido a uno sfumato elaborato e si ispirano per lo più a ricordi di villaggio. Di lui sono curiosi ( si ripetono in tanti quadri) gli animali uno sulla groppa dell’altro, un’illustrazione sui generis (genere africano) dei Musicanti di Brema.
Se fossi consulente d’arte di un riccone, non potrei esimermi dal controllare e scegliere le cornici. Sono fondamentali. Alcuni artisti se le preparano loro stessi (fra i grandi Schwitters e Klee, oltre a Gustav Klimt che ne faceva sbalzare alcune in argento dal fratello Georg dopo averle disegnate di persona). Vediamo spesso in case, esposizioni, perfino musei quadri importanti rovinati da cornici triviali. Avere un corniciaio capace, sensibile, collaborante e possibilmente fantasioso di suo è essenziale per valorizzare i dipinti. Sulla qualità delle cornici bisogna essere tassativi. Io sarei esigente, inflessibile nella verifiche.
Può sembrare incongruo accostare Paul Klee e Modigliani a uno sconosciuto senegalese di Zingonia quasi dilettante (e irriverente per Klee); ma è il bello delle conversazioni senza freni su questo argomento: si corre con la fantasia e le associazioni mentali, si parla a ruota libera, per voli pindarici. E un sito web offre il massimo di libertà, perché gli interlocutori non sono concreti e condizionanti, ma immaginari e senza alcuna verifica, con un contraddittorio soltanto ipotetico. Dato ma non concesso, poi, che qualcuno spinga la lettura fino in fondo; il che anche, per fortuna, non è verificabile.