Un filosofo che "turba i sonni degli scienziati"
RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
Anche della vita di Eraclito di Efeso (530/520-470/460 arca) non sappiamo quasi nulla, ad eccezione del fatto che molto probabilmente si ritirò dalla vita politica della sua città quando ne fu esiliato il suo amico Ermodoro, capo del partito aristocratico e filopersiano (479/8). Non sappiamo se dopo quest'episodio rimase nella sua città. Eraclito scrisse un libro, in prosa, per il quale la tradizione ci ha conservato il solito titolo - comune a tutte le opere dei presocratici - Sulla Natura, del quale a sono rimasti piú di cento frammenti. È molto difficile ricostruire il pensiero di Eraclito, non perché si abbiano dubbi sulla autenticità dei suoi frammenti, ma perché essi a sono pervenuti assolutamente privi di ogni contesto testuale e per di piú sono tutti molto brevi. A ciò si aggiunga il fatto che lo stile di Eraclito è uno stile di per sé difficile e non molto chiaro (già Aristotele chiamava Eraclito "l'oscuro"), fatto com'è di costrutti slegati e spezzati e fortemente influenzato dallo stile oracolare e dal linguaggio allusivo. Tutto ciò spiega come della filosofia di Eraclito si siano date - e si continuino ancor oggi a dare - interpretazioni le piú diverse e contrastanti e come sulla sua connotazione filosofica siano sorte ben presto delle vere e proprie "leggende". Una di queste è la sua contrapposizione a Parmenide mentre questi avrebbe sostenuto la tesi dell'immobilità della realtà (e abbiamo visto che non è così), Eraclito avrebbe sostenuto invece la tesi dell'etemo divenire della realtà: panta rèi, tutto scorre, come le acque di un fiume che non sono mai le stesse. La critica moderna ha fatto giustizia di questa tesi notando anzitutto che la dottrina del panta rèi non compare affatto nei frammenti autentici di Eraclito, bensí risale agli eraclitei del tempo di Platone (specialmente Cratilo), e poi che i frammenti cosiddetti "del fiume" vanno interpretati non alla luce di questa dottrina, ma come espressioni dell'altra dottrina - autenticamente eraclitea - della tensione dei contrari, come vedremo fra poco.
C'è un frammento di Eraclito nel quale compare per la prima volta il termine "filosofi" e si delinea il compito della filosofia:
E necessario infatti che i filosofi (letteralmente: gli uomini che amano la sapienza) siano certamente esperti di molte cose.
Senonché, questo "essere esperti" di molte cose non è semplicemente il sapere tante cose proprio di chi si ferma alle apparenze immediate senza penetrare il senso autentico della realtà, come fanno i poeti, che nelle loro opere trattano infatti di tutto, fanno professione di polymathìa (= multiscienza), ma ben poco comprendono: così Omero, Esiodo, Pitagora. Eraclito, come già Parmenide, ha delle parole molto dure nei confronti della moltitudine degli uomini, incapaci di comprendere la verità delle cose:
La maggior parte degli uomini non intendono tali cose, quanti in esse si imbattono, e neppure apprendendole le conoscono, pur se ad essi sembra;
Qual è infatti la loro mente e la loro intelligenza? danno retta agli aedi popolari e si valgono della folla come maestra, senza sapere che i molti non valgono nulla e solo i pochi sono buoni; e dichiara aristocraticamente che
Uno è per me diecimila, se è il migliore.
La maggioranza degli uomini, quindi, non comprende il mondo in cui vive, non comprende la verità delle cose che pure "usa" quotidianamente, non comprende il significato auténtico delle sue azioni e dei suoi discorsi d'ogni giorno; la maggioranza degli uomini vive dormendo: pur essendo sveglia ed agendo come se fosse sveglia, in effetti dorme, perché i suoi occhi sono chiusi alla verità. Ma qual è questo significato autentico, qual è questa verità? È il logos eterno che è al fondo delle cose, che si manifesta solo nel profondo e non alla superficie delle cose od alle menti superficiali.
Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole e opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com'è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo.
Da questo logos, con il quale soprattutto continuamente sono in rapporto e che governa tutte le cose, essi discordano e le cose in cui ogni giorno s'imbattono essi le considerano estranee.
Il termine greco logos che usa Eraclito non può essere tradotto in italiano con una sola parola; esso infatti significa - ed Eraclito lo usa consapevolmente in questa pluralità di significati - "ragione", "discorso", "parola", ma anche "dottrina", perfino il "libro" stesso in cui questa dottrina è espressa; ma soprattutto significa la legge universale che regola l'accadere di tutte le cose.
Quest'ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura;
Un'unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto.
Sembra dunque che nella considerazione di questa legge eterna della realtà, che deve essere colta al di là delle apparenze immediate, Eraclito si muova nel solco degli interessi e dell'indirizzo propri della scuola ionica, ed infatti è stato considerato da alcuni studiosi come un seguace di questa scuola. Ma in effetti il logos di Eraclito non è la lineare e razionale (la non-contraddittoria) legge scientifica della realtà esso è piuttosto la contraddittorietà profonda che è al di sotto dell'apparente linearità, è una continua tensione di opposti che ci si rivela non appena ed ogni volta che andiamo al di là dell'apparenza; il logos è sí quindi la legge della realtà, ma è una legge che consiste nella continua presenza e lotta di elementi contrastanti. "Svegliarsi" alla verità significa quindi cogliere la contrarietà profonda di tutto ciò che appare semplice e lineare; ecco perché Eraclito assimila il logos al fuoco, perché il fuoco è e non è allo stesso tempo sempre lo stesso, ed ecco perché può dichiarare che
Pòlemos (la guerra) è padre di tutte le cose, di tutte re.
(Il dio) è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco;
Bisogna però sapere che la guerra è comune a tutte le cose, che la giustizia è contesa e che tutto accade secondo contesa e necessita.
Ed è proprio questa continua tensione dei contrari che si manifesta in ogni cosa, è proprio questa "guerra" profonda che costituisce la vera realtà di ciò che appare pacifico, che costituisce la vera "armonia nascosta " delle cose:
L'opposto concorde e dai discordi bellissima armonia.
Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell'arco e della lira;
L'armonia nascosta vale piú di quella che appare.
Anche i cosiddetti frammenti del fiume, piú che esprimere il perenne fluire di una realtà che non è mai la stessa perché cambia continuamente (concetto forse posteriore ad Eraclito di arca un secolo), esprimono proprio la dottrina della tensione degli opposti:
Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo;
Acque sempre diverse scorrono per coloro che s'immergono negli stessi fiumi.
Essere in grado di cogliere la natura profonda della realtà non è da tutti, come abbiamo visto: se Eraclito ha dure parole nei confronti degli uomini che non riescono a comprendere il logos, critica altrettanto fortemente la loro piatta morale e le loro quotidiane abitudini:
Se la felicità s'identifica con i piaceri del corpo, diremo felici i buoi quando trovano cicerchie da mangiare;
Rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono "i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche: i piú invece pensano solo a saziarsi come bestie.
Una forte tensione intellettuale, necessaria per cogliere la natura profonda delle cose, quella natura che "ama nascondersi" agli occhi dei più; un senso ed un atteggiamento aristocratici che caratterizzano sia la ricerca della verità sia una norma di condotta che non sia piatta e volgare; una mentalità che individua il complesso e l'ambiguo laddove in genere non si vede che il semplice ed il chiaro: sono queste le note salienti che emergono dalla dottrina dell' «oscuro» di Efeso e che fecero dire a Socrate, al quale fu chiesto un parere sul libro di Eraclito: "Ciò che ho capito è eccellente, e penso che lo sia anche ciò che non ho capito; ma forse bisognerebbe essere un tuffatore delio", cioè essere capaci di andare molto piú in profondità. Dal punto di vista del pensiero scientifico, come giustamente ha notato uno studioso contemporaneo, Eraclito "è e rimane un pensatore non scientifico. Però in ogni epoca egli torna a turbare i sonni degli scienziati. Ha richiamato l'attenzione su quanto siano in realtà misteriosi ed ambigui gli oggetti naturali, per quanto essi possano apparire familiari ed ovvi. Solo per mezzo del logos, egli dice, possiamo ricavarne un senso, che è assai profondo. Questa consapevolezza, da allora, non è mai andata perduta, se non in periodi di pensiero dogmatico e semplicista" (De Santillana).
1. L'importanza del metodo di ricerca e la nascita della logica scientifica
Parmenide di Elea (520-440 circa a.C.) è il primo tra i presocratici del quale possediamo un po' di piú delle scheletriche notizie che avevamo invece dei pensatori precedenti. Non sappiamo molto di lui: partecipò attivamente alla vita politica della sua città (insieme 'al discepolo Zenone), alla quale dette probabiimente anche una legislazione. Nei suoi ultimi anni, secondo una testimonianza platonica, compí insieme a Zenone un viaggio ad Atene, dove incontrò Socrate allora giovanissimo. Di Parmenide ci sono stati trasmessi circa 160 versi di un poema intitolato Sulla Natura, e questo ci permette di' verificare ed in parte di correggere l'immagine della sua filosofia che la tradizione - molte volte polemica nei suoi confronti - ci ha tramandato, a partire da Platone. Questi, infatti, ha interpretato la filosofia di Parmenide come una conoscenza esclusivamente razionale, contrapponendo quindi un'astratta "verità" alle "opinioni" dei molti. Quest'interpretazione, chiaramente funzionale alla filosofia dello stesso Platone, ha tuttavia pesato per moltissimo tempo sulla tradizione parmenidea; essa oggi non è piú sostenibile, in base ad un riesame senza preconcetti dei frammenti di Parmenide.
Parmenide non si discosta infatti da quella intuizione fondamentale, propria già dei pensatori ionici, della realtà intesa come un tutto omogeneo, uno, eterno e continuo, all'interno della quale soltanto hanno un senso e una spiegazione i molteplici fenomeni col loro divenire e col loro cambiare. Questa intuizione viene però da Parmenide arricchita da una serie di considerazioni sul metodo della ricerca che ne fanno il padre del metodo e della ricerca scientifici ed insieme l'iniziatore delle indagini sulla logica. Da un lato, quindi, c'è la realtà intesa nella sua totalità, che Parmenide chiama tò eòn (= ciò che è):
Ciò che è, è ingenerato e indistruttibile. E infatti compatto nelle sue parti e immutabile e senza un fine a cui tendere non era né sarà, poiché è ora un tutto omogeneo, uno, continuo. E infatti quale origine gli cercheresti? Come e da dove potrebbe essere accresciuto? Da ciò che non è non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo: poiché esso non è né esprimibile né pensabile dal momento che non esiste... Come potrebbe, ciò che è, esistere nel futuro? Come potrebbe nascere? Se infatti era, non è; cosí pure, se ancora deve essere, non è. Cosi si eliminano i concetti incomprensibili di nascita e morte. (
"Ciò che è", quindi, non può né nascere né perire, non ha passato né futuro, perché è, esiste, nel senso piú pieno della parola, e al di fuori di esso non c'è né è possibile null'altro; "ciò che è" è la realtà intesa nella sua totalità. Con un rigore logico di cui non avevamo testimonianze prima di lui, Parmenide deduce e dimostra tutta la serie di sémata (= segni), cioè delle caratteristiche di ciò che è: esso e ingenerato e indistruttibile, esente da mutamento e fuori del tempo, omogeneo, uno, continuo, indivisibile. Questo tutto è anche qualcosa di finito e di omogeneo, simile ad una sfera
Poiché inoltre esiste un limite estremo, è definito da ogni parte, simile alla massa di una sfera ben rotonda, in eguale tensione dal centro in ogni sua parte: infatti è necessario che non sia piú denso o piú rado in una direzione o in un'altra.
Dall'altro, all'interno di questo tutto, c'è la serie dei fenomeni particolari, con sémata tutti diversi, la serie delle cose che sono oggetto dell'esperienza dell'uomo, la serie di tutto ciò che nasce, si sviluppa e muore.
E tu conoscerai la natura dell'etere e tutte le stelle che sono nell'etere, e della pura e chiara lampada del sole [opera distruttrice, e donde siano nate, e conoscerai il vagare errabondo della luna dall'occhio rotondo e la sua natura, e saprai del cielo che tutto avvolge e donde nacque... (
... come la terra e il sole e la luna... e la celeste galassia e l'olimpo estremo e l'ardente forza degli astri furono spinti a nascere...
Così dunque, secondo le esperienze degli uomini, queste cose nacquero e ora sono e poi cresceranno ed avranno una fine: ad esse gli uomini posero un nome che distingue ciascuna da tutte le altre. (
Altri brevissimi frammenti e diverse testimonianze ci dicono che in questa seconda parte del poema Parmenide ha trattato non solo dell'astronomia e della fisica, ma anche di problemi di biologia e di embriologia, indagando tra l'altro il problema della nascita delle specie viventi e quello della determinazione del sesso del nascituro.
Ma la novità piú importante di Parmenide consiste, come abbiamo accennato, nell'aver stabilito la differenza di metodo con il quale l'uomo deve costruire il suo discorso, un metodo che è diverso a seconda che si parli di tò eòn o di tà eònta, cioè di "ciò che è" o delle "cose che sono". I sémata della prima via, infatti, non possono essere confusi con quelli della seconda nascita e morte, che sono "concetti incomprensibili" se si parla di ciò che è, sono invece i soli concetti pienamente adeguati a spiegare le cose che sono; il tempo, che non può essere applicato a ciò che è, è invece la sola misura possibile per le cose che sono; il concetto di unità, che è iI concetto fondamentale di ciò che è, dev'essere sostituito da quello della dualità degli elementi che compongono la struttura di tutte le cose che sono. Da un lato quindi c'è l'errore che consiste nel parlare di tò eòn col dargli
tutti quei nomi che gli uomini hanno stabilito credendoli veri, e cioè nascere e morire, esistere e non esistere; (
dall'altro lato c'è la necessità di considerare tà eònta come il risultato dell'incontro e del rapporto equilibrato tra i due elementi fondamentali, che Parmenide chiama luce e notte
ma poiché tutte le cose sono state chiamate come luce e notte e ciò che è conforme alle loro proprietà è attribuito a questa o a quella cosa tutto è egualmente pieno di luce e di notte oscura che si equilibrano entrambe, giacché ogni cosa risulta dall'insieme delle due.
E Parmenide ha delle parole molto dure nei confronti di coloro che non sanno operare questa distinzione e confondono i due metodi, chiamandoli "uomini sordi e ciechi, storditi, gente che non sa giudicare", "uomini con due teste", gente che usa vuote parole e non sa usare il proprio logos, la propria ragione. Ma critica anche coloro che non sanno trarre un senso dalle proprie esperienze, che si disperdono nella varietà e molteplicità delle esperienze senza riuscire a vedere il legame necessario che le unisce, la legge che governa il loro esistere e le connette logicamente le une alle altre:
Guarda come anche le cose lontane, per mezzo della mente, divengano sicuramente vicine. (
In questo consiste appunto il valore scientifico della posizione di Parmenide, nella convinzione cioè che la legge con la quale il pensiero opera nel costruire la sua organizzazione delle esperienze, la legge con cui connette le cose, la legge che regola la sua stessa struttura, è la stessa legge che opera nella realtà, che connette realmente le cose, che costituisce la struttura della stessa realtà:
infatti è la stessa cosa pensare ed essere;
bisogna dire e pensare che ciò che è esiste;
ed è la stessa cosa il pensare e ciò che è pensato. Giacché senza (essere, nei limiti del quale è espresso, non troverai il pensare.
Perché l'uomo è strettamente unito alla natura; se l'uomo è l'unico animale che "comprende", come diceva Alcmeone, mentre gli altri animali possono avere solo delle percezioni, è anche vero che il corpo e la mente dell'uomo sono strettamente collegati; lo stesso "pensare", che è caratteristica specifica dell'uomo, è allo stesso tempo l'espressione della costituzionalità organica dell'uomo: la mente - l'attività conoscitiva - è in rapporto a ciò che l'uomo
E infatti, a seconda del rapporto che in ciascuno si instaura tra le mobili parti che lo costituiscono, così negli uomini si determina la mente; perché è sempre lo stesso ciò che negli uomini pensa: la natura delle sue parti costituenti, in tutti e in ciascuno. Il pensiero è infatti l'insieme di tutti questi rapporti (
Non solo non c'è frattura quindi tra ragione e sensibilità, tra conoscenza razionale ed esperienza sensibile, ma il pensiero costituisce per Parmenide la coscienza del corpo, e cioè non solo la possibilità di conoscere se stessi, ma anche la possibilità - data la fondamentale omogeneità dell'uomo con la natura - di conoscere mondo tutto. Di fronte ad una cultura sapienziale, che si trasmette in circoli chiusi di privilegiati, che si tramanda e si accetta senza discussione, il programma ambizioso ed orgoglioso di Parmenide è il primo che rivendichi pienamente all'uomo la possibilità di "apprendere" ogni cosa, di indagare e conoscer "tutto in tutti i sensi".
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