lunedì 18 febbraio 2008

BURRI. VIAGGIO AL TERMINE DELLA MATERIA

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
 
Figura tra le maggiori dell’arte mondiale del XX secolo, Alberto Burri (1915-1995) resta una presenza “latitante” sulla scena espositiva fiorentina. Gli unici riconoscimenti pubblici che gli sono stati attribuiti a Firenze risalgono rispettivamente al 1980, con il ciclo dei nove cellotex intitolato Orti realizzato per Orsanmichele, e al 1995 con una mostra di grafica agli Uffizi in occasione di un’importante donazione. Nient’altro. Con questa retrospettiva curata da Giuliano Serafini, uno dei più accreditati studiosi di Burri, Tornabuoni Arte nella ricorrenza del decennale della scomparsa del grande maestro umbro intende riempire un vuoto peraltro inspiegabile. Lo fa presentando circa sessanta selezionatissime opere che documentano tutte le fasi del suo percorso creativo, a cominciare dalle misconosciute tempere degli anni Quaranta, fino ai Cellotex e ai Nero e Oro dei Novanta. Tra questo intervallo cinquantennale si è compiuta una delle vicende artistiche più complesse e coerenti dell’arte contemporanea, grandiosamente solitaria e pur feconda di stimoli e suggestioni nei confronti di quelle correnti internazionali che hanno lavorato al rinnovamento estetico del nostro tempo: dalla Pop Art al Nouveau Réalisme, dal Minimalismo all’Arte Povera. Ma il viaggio di Burri “al termine della materia”, per citare il titolo della mostra, si è svolto in una sorta di superiore distacco rispetto a quegli eventi che pur stavano cambiando il corso dell’arte intorno alla metà del secolo passato. La sua straordinaria portata innovativa non ha permesso interferenze e complicità linguistiche tali da farlo rientrare in un contesto critico-esegetico storicamente attendibile. E questo perché l’opera di Burri nasce continuamente da se stessa, procede nel tempo secondo un ritmo interno che ha sempre provocato e perfino scandalizzato per l’audacia delle sue intuizioni – si pensi all’interpellanza parlamentare scatenata nel 1959 circa l’acquisto di Grande Sacco da parte della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma – fino a trovare, anche se a posteriori, l’inevitabile convalida, il riconoscimento di “norma”. Come ricorda Serafini nel testo in catalogo, Burri “sapeva di aver ragione” anche quando con i primi sacchi si era tirato contro la maggior parte della critica militante italiana. Se prima di lui il cubismo (Picasso) e il dada-surrealismo (Schwitters) avevano inserito nel quadro materiali extra-pittorici per trasgredire le convenzioni istituzionali dell’arte, Burri compie il passo estremo: spoglia la materia di ogni significato simbolico o concettuale e la propone come medium estetico in sé, aiutandoci a vederne l’implicita bellezza, le insospettabili prerogative formali, quello cioè che esisteva da sempre e di cui non ci eravamo accorti. In questo senso Burri si discosta anche da Rauschenberg con cui è stato a lungo confrontato, dal momento che per l’americano il materiale povero ha sempre ricoperto una funzione evocativa e aneddotica, esprimendo quella valenza di rifiuto che è propria della civiltà dei consumi, in linea con l’analisi ideologica fatta in quegli anni da Adorno e Marcuse All’inseguimento di un canone aureo da rintracciare nei materiali più miserabili e banali – dopo i sacchi e i gobbi ci saranno le combustioni, poi i legni, i ferri, le plastiche e i cretti – Burri costruisce la propria statura di artista “classico”, di chi agisce per la permanenza, per una definizione alta e aristocratica dell’arte. Se le motivazioni filosofiche del suo lavoro trovano il loro riscontro nell’esistenzialismo di Heidegger e nella fenomenologia di Husserl, l’opera non perderà mai di vista questo obiettivo supremo: neppure quando la materia sembrerà scomparire dal quadro, come nei grandi cellotex intonsi o nei neri dove l’assenza del colore non ci impedisce di leggerne “in profondità” gli infiniti valori cromatici e luminosi.
Tra i maggiori esegeti dell’opera di Burri ricordiamo J.J. Sweeney, Christian Zervos, Emilio Villa, Cesare Brandi, G. Carlo Argan, Maurizio Calvesi. Sue opere si trovano nei maggiori musei del mondo, quali il Centre Pompidou di Parigi, La Tate Gallery di Londra, Il Guggenheim Museum di New York, la Galleria d’Arte Moderna di Roma. Burri è stato anche scultore e autore di monumentali strutture sceniche e architettoniche. Oltre alla riproduzione di tutte le opere in mostra, il catalogo trilingue (italiano, inglese, francese), riporta le immagini di quest’“altro” Burri, insieme a una selezione di carattere biografico e una sui suoi musei di Città di Castello firmate da Aurelio Amendola.
Giuliano Serafini, critico d’arte, vive e opera a Firenze

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