Prima del post-umano
di Mario Costa
RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
L’avvento del post-umano, al quale lavorano tecno-scienze e tecnologie di vario tipo, è preceduto e preparato da una preliminare distruzione dell’umano che viene consumata nel corso dell’ultimo secolo, ed è come dire che prima del post-umano non c’è l’umano ma la sua liquidazione preventiva.
L’arte, innanzitutto, coglie e registra con precisione tutti i segni del tempo e vale come la testimonianza più attendibile di quanto si va epocalmente svolgendo o meglio come territorio di sperimentazione preventiva della dissoluzione dell’umano.
Ortega y Gasset, nel 1925, rileva per la prima volta la tendenza alla “disumanizzazione” nell’arte moderna e mette soprattutto in evidenza la totale e voluta inespressività delle opere d’arte e degli artisti; la categoria romantica dell’espressione, ripresa poi in vario modo nel ‘900 da numerose estetiche e punto di riferimento di un certo numero di “espressionismi” (da quello tedesco e nord-europeo dei primi decenni del ‘900 fino alle varie e successive declinazioni dell’ “espressionismo astratto”), viene liquidata da tutta una serie di movimenti che mettono invece variamente in atto una vera e propria desoggettivazione dell’arte e puntano dunque sulla sua inespressività : “non c’è dubbio – dice Ortega - che vige una tendenza alla purificazione dell’arte. Questa esigenza porterà a una progressiva eliminazione degli elementi umani […]. E in questo processo si arriverà a un momento in cui il contenuto umano dell’opera d’arte sarà tanto esiguo che quasi non si avvertirà più […]. L’importante è che esiste nel mondo l’indubitabile presenza d’una nuova sensibilità estetica […]. la tendenza a “disumanizzare” l’arte […] l’arte di cui parliamo non è soltanto “inumana” per non contenere cose umane, ma perché consiste principalmente in questa attività “disumanizzante” […]. Il piacere estetico per l’artista nuovo deriva da questo trionfo sull’umano […]. La prima conseguenza che porta con sé questo ripiegamento dell’arte sopra se stessa è quella di toglierle ogni carattere emotivo […]. Nello svuotarsi d’ogni emotività umana l’arte rimane priva d’alcuna trascendenza”1.
A Ortega, che giudica questo fatto in maniera un po’ incerta e dubbiosa2, interessava soprattutto il dato sociologico della conseguente formazione di un’arte per quelle “classi di privilegiati” che a lui tanto interessavano ma, a parte questo, le sue precoci osservazioni sono estremamente lucide e preziose.
Ciò che manca alla sua analisi è il tentativo di comprendere le cause del fenomeno che descrive o, il che è lo stesso, il non averlo saputo collegare, così come altri in malo modo faranno, con quanto era avvenuto e stava avvenendo nel campo delle tecnologie.
Perché, non c’è dubbio, “disumanizzazione” dell’arte e “tecnologizzazione” del mondo marciano di pari passo e sono due facce dello stesso fenomeno.
La tendenza alla disumanizzazione, intesa come rinuncia alla soggettività e all’espressione, si manifesta in ogni arte e la cosa viene rilevata e, spesso, stigmatizzata.
Ortega aveva indicato Mallarmé e Debussy come inizi della conversione del soggettivo nell’oggettivo, rispettivamente nella poesia e nella musica.
Muovendo ancora da Debussy, in un libro del 1961 interamente dedicato alla musica3, Jankélévitch
sottolinea ulteriormente la tendenza, nella musica moderna, a passare dal soggettivo all’oggettivo, e ne indica alcune direzioni fondamentali: l’impressionismo, dove l’ ”impressione” è considerata come una sorta di formazione intermedia tra la soggettività e l’oggettività4, la presenza della natura in quanto tale5, l’introduzione di rumori meccanici6 e, ancora, una certa attenzione formale per il suono in quanto tale7.
Ed è questo punto che, in un libro che è del 1961, Jankélévitch avrebbe dovuto approfondire, anche perché avrebbe così meglio inteso tutto il resto: in realtà la tendenza all’oggettivismo da lui messa in evidenza non è in nulla dissociabile dalla nuova esistenza, già più che matura nel 1961, dei suoni tecnologici ed elettroacustici; ed è come dire che la “disumanizzazione” musicale non é altro che un aspetto di quella più estesa “disumanizzazione dell’arte”, a sua volta segno di una più generale liquidazione dell’umano, provocata dall’avvento delle tecnologie.
In realtà, per tornare alla musica, la rinuncia all’espressione ed alla soggettività da parte dei musicisti, già negli anni ’50, è un fatto acquisito e compiuto: Edgar Varèse alla fine degli anni ’40 adopera un registratore per raccogliere materiali sonori e nel 1958 realizza su nastro magnetico il Poème électronique; un po’ dovunque (Colonia, Parigi, Milano…) negli anni ’50 si aprono studi di “musica elettronica” e già nel dopoguerra, tanto per dirne uno, comincia ad operare John Cage.
Ma la musica, come si è detto, non è la sola ad attestare e a lavorare alla “disumanizzazione”.
In un libro del 19558, Hans Sedlmayr, riferendosi prevalentemente alle arti figurative, mette in evidenza, accanto ad altri aspetti della “disumanizzazione” operata dall’arte (l’estetismo, lo scientismo, il tecnicismo), quello che appare come il dato più nuovo e rilevante: la supremazia dello spirito inorganico, e, dopo aver collocato fuori dall’arte tutta l’ “arte moderna” non senza mostrare nostalgiche aspirazioni a una “vera arte moderna”, pone la questione in questi termini e si chiede: “se la supremazia dello spirito inorganico […] sia caratteristica del mondo moderno in generale, e se perdurerà, o se invece non sia che una prima, rozza fase introduttiva del mondo moderno […] se la supremazia dello spirito inorganico […] sia in generale accettabile da un punto di vista umano”9; aggiungendo e dichiarando subito dopo : “Noi affermiamo che questo spirito, se divenisse perenne, dissolverebbe non solo la natura e la cultura […] ma ogni esistenza degna dell’uomo”10.
Già, perché questo è il punto: la “supremazia dello spirito inorganico” è proprio, come egli temeva, “un fatto irrevocabile”; se questa supremazia sia o meno “accettabile dal punto di vista umano” è una questione del tutto indifferente, e le “forme più raffinate ed elevate di modernità” che egli temeva sono già pienamente realizzate. In sintesi: la “disumanizzazione dell’arte” da lui lucidamente rilevata, ma non altrettanto lucidamente stigmatizzata, era, come stiamo dicendo, uno dei segni di una più generale e operante liquidazione dell’umano.
Ma il nesso tra “disumanizzazione dell’arte”, “disumanizzazione” tout court e “tecnologizzazione del mondo”, non tarda ad esser colto.
Jacques Ellul viene a volte indicato come l’ “Heidegger francese” perché, pur ignorando la stessa esistenza del filosofo tedesco11, arriva sostanzialmente alle sue stesse conclusioni.
La conferenza su La questione della tecnica fu tenuta da Heidegger nel novembre del 1953 e pubblicata solo nel 1954. Nello stesso anno apparve il volume di Jacques Ellul su La tecnica12 .
Ellul muove da una netta separazione tra la storia passata della tecnica e il modo in cui essa modernamente si atteggia: “non c’è nessuna proporzione comune tra l’insieme tecnico attuale e i frammenti che si possono ritrovare sul filo della storia […] per dimostrare che c’è sempre stata una tecnica. C’è un cambiamento completo, non solo di proporzioni […] ma proprio di natura”13. E la “natura” della tecnica attuale è quella di essere un “sistema tecnologico”14 che si autoaccresce15 , che si presenta coi caratteri della unità16, dell’ universalismo17 e dell’autonomia18; essa inoltre non dà nessuna possibilità di scelta19 ed è destinata ad agire sulla vita stessa20 .
E tra le numerosissime opere che Ellul scrisse muovendo da questi principi e dedicate ai più vari argomenti, L’empire du non-sens del 1980 tratta dell’arte e della sua “disumanizzazione”21.
Nella sua analisi, così come il titolo del libro già recita, l’arte contemporanea è niente altro che un territorio privo di “senso”, un territorio cioè nel quale la funzione fondamentale svolta dall’arte, quella di simbolizzare e di attribuire significato, è completamente venuta meno: siamo passati “da un mondo organico in cui la simbolizzazione era una funzione adeguata e rispondente all’ambiente, ad un sistema tecnologico in cui la creazione di simboli non ha né luogo né senso”22: “La simbolizzazione era nelle società tradizionali il modo migliore per l’uomo di apprendere il suo ambiente […] La funzione di simbolizzazione era diventata una delle vie maggiori per l’azione. E quello che chiamiamo arte era una delle forme essenziali di questa simbolizzazione. Ed ecco che ci troviamo collocati in un ambiente refrattario ad ogni simbolizzazione”23.
Ma è tempo ormai di lasciare l’arte e di considerare più concretamente la base e le radici tecnologiche più attuali di quella liquidazione dell’umano di cui stiamo parlando.
Accenno soltanto a due nozioni , la “solubilità tecno-planetaria” ed il “blocco comunicante”, perché già esse, da sole, sono in grado di indicare e descrivere quello svuotamento del soggetto e quel galleggiamento della coscienza che hanno sostituito ogni interiorità ed ogni possibilità di senso.
La nozione di “solubilità” è intrinsecamente e fin dal principio legata alle tecnologie della comunicazione a distanza: “La civiltà del telefono è insopportabile. Una caricatura della presenza prende il posto della vera presenza. Si passa dall’una all’altra così come, schiacciando il bottone di una radio, si passa in un istante da Johann Sebastian Bach a ‘Avanti popolo’. Non ci si trattiene più in alcun luogo, non si è più da nessuna parte. Odio questa umanità solubile”24.
La solubilità tecno-planetaria indotta e provocata ora da Internet è tutta un’altra cosa e ben più profonda. Di essa ho messo in evidenza altrove25 alcuni caratteri fondamentali che qui appena riassumo:
1. su Internet non si tratta tanto di “navigare”, così come si dice, ma piuttosto di “naufragare” nella infinità delle connessioni che si aprono ad ogni tentativo di delimitare e arrestare un campo, ciò che provoca una radicale “perdita del centro” o di ogni possibile punto di riferimento con conseguente svilimento della coscienza;
2. l’esperienza della rete apre ad una sorta di sciamanismo o di “doppia coscienza”26 perché permette di essere ad un tempo in un luogo e in infiniti altri e ciò non è senza conseguenze per l’unità e l’identità del soggetto;
3. su Internet il soggetto è “solubile” perché si apre e si dissolve in un iper-soggetto che è il vero soggetto occulto della rete e la sua finale destinazione27.
Ho definito poi il blocco comunicante nel modo seguente: “il ‘blocco’ si va sempre meglio differenziando e articolando, e va crescendo sempre di più su se stesso: telefonate radiofoniche, trasmissioni televisive che interagiscono col telefono e con trasmissioni radiofoniche e viceversa, televisione e radio in rete, software di telefonia in rete, web-cam e teleconferenze, messaggi SMS in transito dappertutto, cellulari che si collegano alla televisione e ad Internet, e così via e in maniera sempre più intricata. Il “blocco comunicante” è insomma costituito da un complesso di strumenti che comunicano continuamente l’un l’altro e che per farlo hanno bisogno degli affanni degli uomini; il ruolo che attualmente ci è dato è quello di far funzionare tutto questo, mentre l’ “astuzia” che essi manifestano consiste nel farci credere che essi rispondono ai nostri bisogni sociali di comunicazione”28, ed è come dire che la comunicazione non può più in alcun modo essere radicata alla profondità della coscienza29 e che essa è diventata soltanto “una mera pulsione, tecnologicamente indotta e priva di scopo e di contenuto”30.
“La situazione antropologica attuale è caratterizzata insomma da un irrealistico galleggiamento della “coscienza”, della “comunicazione” e del “corpo”31, su un universo tecnologico che continua ad intricarsi e ad infuriare”32.
Le reazioni allo stato di fatto qui descritto sono di due tipi fondamentali: o pateticamente nostalgiche33, o prematuramente aperte alla palingenesi tecnologica34.
Noi crediamo che la disumanizzazione sia un fatto ormai in via di compimento e che nulla al mondo potrà fermarla, ma consideriamo il post-umano come una meta ancora troppo lontana per poterla in qualche modo immaginare.
Preferiamo dunque adottare una certa realistica cautela e, ancora una volta, rivolgerci agli artisti non solo per cogliere l’attuale “stato dell’arte” ma, soprattutto, per avere indicazioni più generalmente antropologiche.
Le indicazioni provenienti dagli artisti, si capisce da quelli che non credono di poter far finta di niente, muovono dal dato di fatto della disumanizzazione, che considerano come uno stato ormai irreversibile, e procedono oltre l’umano; ma vediamo in che senso.
Un atteggiamento fortemente “disumanizzante” compare già in artisti ancora “tradizionali” come Fernad Léger, Jean Dubuffet, Mark Tobey: “Non ci sono più paesaggi, nature morte, volti. C’è il quadro, l’oggetto, l’oggetto-immagine, l’immagine oggetto - scrive Léger – […] Nella moderna pittura l’oggetto dovrebbe divenire il personaggio principale […] Se dunque le persone, le figure, il corpo umano divengono da parte loro oggetti, si offre una grandissima libertà […] Ma se il corpo umano nella pittura continua a essere considerato come valore sentimentale o espressivo, nessuno sviluppo è possibile […] Tutto il corpo umano visto come oggetto”35; in quanto a Dubuffet , per lui si trattò sempre di fare una pittura “basata sulla disumanizzazione dei soggetti, dell’uomo e del suo sguardo”36, e l’ art brut fu la conseguenza estrema di questo atteggiamento; e Tobey si addestrò alla disumanizzazione praticando lo Zen: “Quando viveno nel monastero Zen mi fu dato per la meditazione un disegno sumi : un ampio cerchio tracciato a mano libera con un grosso pennello. Cosa era? Giorno per giorno lo andavo osservando. Era l’annullamento dell’ego? Era l’universo in cui potevo perdere il mio io? […] ‘Lascia che la natura prenda il sopravvento nella tua opera’ : queste parole del mio vecchio amico Takizaki mi apparvero dapprima oscure, ma si chiarirono poi in questo concetto: ‘togliti di mezzo’ ”37.
Ma per Duchamp la “disumanizzazione” è tutta un’altra cosa: egli lavora ad essa38, poi la dà per scontata, capisce che ogni arte non può veramente essere disumanizzante fino a quando continua, come in Leger, Dubuffet e Tobey, ad essere in qualche modo arte, e si regola di conseguenza.
In realtà già le avanguardie storiche tracciano il percorso della disumanizzazione: si tratta di accantonare l’umano, o almeno quella forma dell’umano considerata da millenni la sola possibile (la personalità, l’espressione, il significato, il sentimento, il simbolico, la metafora…) e di esercitare, in senso estetico, il solo pensiero astratto radicandolo al divenire della scienza e della tecnologia39.
Tutta la vicenda può essere riassunta in tre nomi: Duchamp, Gabo e Moholy-Nagy.
Duchamp dissolve la nozione di “arte” introducendo in essa la riflessione e il pensiero; tutte le sue operazioni sono pensiero astratto oggettivato40; Gabo e Moholy-Nagy precisano la natura e il punto di applicazione di questo pensiero: Gabo opera uno sfondamento della dimensione artistica fondendola con quella della scienza e della tecnologia, Moholy-Nagy coglie il carattere di fondamento dei materiali e delle tecniche e li attiva in senso estetico depurandoli da ogni contenuto simbolico o immaginario.
Il punto d’arrivo di questo percorso è rappresentato dalle teorie del “sublime tecnologico”41 che ho cominciato a sviluppare dalla metà degli anni ’80 e che molto ci dicono sull’ “opera d’arte” e sulla situazione antropologica, appena appena post-umana, dell’avvenire.
1 commento:
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