giovedì 10 dicembre 2009

l'arte degli Stati Uniti agli esordi costituì essenzialmente un trapianto provinciale delle tradizioni europee.


. A cura di Picchiotti Danilo
 
La colonizzazione spagnola
Il più antico insediamento urbano di origine europea è St Augustine in Florida, fondato dagli spagnoli nel 1565, con tipiche architetture spagnole (case a due piani, coperture a terrazza, portici, orti sul retro). La colonizzazione spagnola lungo le coste del golfo del Messico e nei territori del sud-ovest (S. Fe, 1610; S. Antonio, 1718) portò al sorgere di una cultura architettonica legata prevalentemente a insediamenti militari e religiosi, con impianto urbanistico regolare a scacchiera e piazza centrale circondata da portici, nelle cui chiese e palazzi di governatori ai motivi del barocco coloniale si uniscono altri (tecnici e stilistici) derivati dalle culture indigene.
 
La colonizzazione inglese
Nei secc. XVII e XVIII si andò configurando uno stile coloniale, che si suole suddividere in due periodi: Early Colonial (fino al 1700 ca) e Georgian o Late Colonial (fino al 1780 ca), i cui caratteri stilistici rivelano ancora la subordinazione culturale alla madrepatria. Nel primo periodo coloniale prevalsero al nord le case contadine in legno, a due piani di due stanze ciascuno con camino centrale, di grande semplicità strutturale e formale, e gli edifici pubblici (come le Meeting Houses anglicane, di cui è un tipico esempio la Old Ship di Hingham, Massachusetts), per lo più di forma quadrata, con tetto a capriata , struttura in legno, alto soffitto gotico. Diverse invece le case delle colonie del sud (Maryland, Virginia, Carolina ecc.), dette Plantation Houses, assai più vaste e complesse, costruite spesso in mattoni, con maggiori pretese di signorilità (colonnati in facciata, logge , balconi). Nel sec. XVIII si costruirono edifici più grandiosi e solenni; lo stile Georgian Colonial costituì infatti una variante vernacola del georgiano inglese. Ovunque il legno incominciò a essere soppiantato dal mattone, dal laterizio o dalla pietra. I maggiori edifici pubblici di questo periodo (Town House a Boston, Old Colony House a Newport, Independence Hall a Filadelfia), come pure quelli religiosi (Christ Church a Filadelfia e a Boston, St. Paul's Chapel a New York), sorsero sul modello delle realizzazioni londinesi di Christopher Wren; sensibile fu anche l'influsso del palladianesimo inglese (Inigo Jones) e, nella seconda metà del secolo, dell'architettura dei fratelli Adam, mentre non mancarono anche esempi di derivazione francese, soprattutto negli Stati del sud. Il primo vero architetto americano è considerato Peter Harrison , cui si deve la Classical Redwood Library di Newport.
 
L'affermazione del neoclassicismo
Dopo la guerra di indipendenza americana, si affermò il neoclassicismo per l'influsso della cultura francese e per l'ideale collegamento con la Grecia democratica e la Roma repubblicana. Il gusto neoclassico è rilevabile, oltre che nelle opere di ispirazione romaneggiante di Thomas Jefferson (il Campidoglio di Richmond, la casa di Monticello in Virginia, l'università di Charlottesville), in quelle di ispirazione ellenizzante dell'inglese John Benjamin Latrobe e nel piano urbanistico di Washington (1790), tracciato con criteri simmetrici dall'architetto francese Pierre-Charles L'Enfant. Tra i principali architetti di questo periodo, oltre al Latrobe, sono da ricordare il francese E.-S. Hallet, l'irlandese J. Hoban e gli statunitensi Robert Mills, William Strickland, Th.U. Walter, Charles Bulfinch.
 
L'architettura dell'Ottocento
All'inizio dell'Ottocento ebbero grande fortuna negli Stati Uniti i movimenti del greek revival e del gothic revival, che costituirono, nel loro ritorno al passato, un aspetto del movimento romantico. In particolare il neogotico (i cui principali esponenti furono Richard Upjohn, J. Renwick e A.J. Downing) finì per influenzare tutta l'architettura americana, sia domestica, sia religiosa (Trinity Church e St Patrick a New York), mescolandosi poi al risorgere di stili vari, dall'egizio al romanico al neorinascimentale, secondo un eclettismo che dominò per tutto il secolo. Il primo interprete della reazione all'eclettismo di importazione europea fu Henry Hobson Richardson, che vide nell'essenzialità e solidità del romanico il mezzo più adatto all'espressione dei caratteri della civiltà americana. Un altro grande interprete della rinnovata stagione architettonica statunitense fu Louis Henry Sullivan, ancor più avanzato nella ricerca di strutture funzionali, al quale si devono sia la qualificazione espressiva di quella costruzione tipicamente americana che è il grattacielo, sia l'avvio della scuola di Chicago, che fu un grande vivaio di personalità innovatrici (William Le Baron Jenney, Daniel Hudson Burnham, Martin Roche, William Holabird, John Wellborn Root), alle quali si deve tra l'altro la ricostruzione del centro di Chicago dopo l'incendio del 1871. Le esigenze di funzionalità di questa scuola furono poi riprese e continuate nell'ovest dalla scuola californiana.
 
L'architettura del Novecento
Nel sec. XX la ricerca architettonica ha continuato a essere determinata dai complessi problemi relativi all'espansione dei centri industrializzati. Figura di primissimo piano è quella di Franck Lloyd Wright, allievo di Sullivan, assimilatore della tradizione autoctona americana e assertore di un'architettura "organica", integrata con l'ambiente, umanamente qualificata, realizzata con materiali naturali. Il polo dialetticamente opposto all'idea wrightiana è costituito dal razionalismo europeo, affermatosi negli Stati Uniti per opera degli architetti europei emigrati in America: Richard Neutra, Walter Gropius, Ludwig Mies van der Rohe, Eero Saarinen, dai quali derivarono in gran parte gli sviluppi più notevoli dell'odierna civiltà architettonica americana. Dopo la II guerra mondiale lurbana, caratterizzata dal grattacielo, ha trovato un suo linguaggio definitivo nei volumi equilibrati, nelle superfici levigate, nell'impiego del vetro e dell'acciaio che alleggeriscono la massa enorme. Accanto al grattacielo si sono anche sviluppate forme rivoluzionarie, per l'impiego di nuovi materiali e di un'avanzata tecnologia, in edifici quali fabbriche, dighe, ponti, silos, aeroporti (palazzo delle Nazioni Unite di Le Corbusier e Oscar Niemeyer; Lever House di Louis Skidmore, Nathaniel Owings e John Merrill; Seagram Building di Ludwig Mies van der Rohe; terminal della TWA, di Eero Saarinen, tutti a New York; officine Olivetti di Louis Isadore Kahn, a Harrisburg).
 
La pittura e la scultura dal XVII al XVIII secolo
Nel primo periodo coloniale (sec. XVII) la pittura si espresse quasi esclusivamente nella ritrattistica. Solo nel secondo periodo coloniale si affermò un gruppo di professionisti, spesso richiamati dall'Europa per soddisfare le esigenze dei coloni che avevano raggiunto un'elevata posizione sociale. Nel campo della ritrattistica emerge il nome di J. Smilbert, attivo a Boston dal 1729, mentre iniziatori della pittura di storia possono essere considerati John Singleton Copley e Benjamin West . Durante il sec. XVIII la scultura si limitò a copiare i capolavori dell'arte classica, dei quali venivano importati dall'Europa copie o calchi di gesso. La personalità di maggior rilievo fu quella di W. Rush, autore di un famoso busto di Lafayette.
 
La pittura e la scultura dell'Ottocento
Nella prima metà dell'Ottocento il passaggio dal neoclassicismo al romanticismo fu caratterizzato dall'affermazione della pittura di paesaggio, che trovò la sua migliore espressione nella Hudson River School. Tra i principali esponenti del gruppo sono Thomas Cole, che dipinse grandiose foreste caratterizzate da una visione quasi apocalittica, A.B. Durand e J. Inmann, volti a ritrarre invece immagini più serene degli sconfinati paesaggi del Nuovo Mondo. Vanno ricordati anche Winslow Homer e G. Catlin, quest'ultimo illustratore della vita degli Indiani delle praterie. Il passaggio all'impressionismo è segnato dalle personalità di James Abbott MacNeill Whistler, Mary Cassat, John Singer Sargent e T. Robinson; la loro esperienza però si svolse in gran parte nell'ambito europeo. L'opera di Albert Pinkham Ryder costituì nel suo empito visionario un singolare precedente del surrealismo. La scultura fu dominata per tutto l'Ottocento dagli influssi neoclassici, ma con esiti modesti; l'unica personalità dotata di una certa autonomia espressiva fu quella di Augustus Saint-Gaudens.
 
Le correnti moderne
Il gruppo degli Otto, formatosi agli inizi del Novecento sulla scia del postimpressionismo europeo, costituì un significativo avvicinamento della pittura americana alle più avanzate esperienze internazionali. Nel 1913 si tenne a New York la celebre mostra dell'Armory Show (così chiamata perché allestita in una caserma) che, presentando opere di Henri-Emile Matisse, Pablo Picasso, Georges Braque, Constantin Brancusi, aprì la cultura figurativa statunitense alla rivoluzione delle avanguardie europee e fu determinante per la formazione di un originale linguaggio artistico. Tra gli artisti più rappresentativi del nuovo clima culturale del primo ventennio del Novecento vanno ricordati John Marin, interprete di modi fauves e cubisti, Stanton MacDonald Wright e Morgan Russell, il cui nome è legato alla corrente del sincromismo, Joseph Stella, futurista, Lyonel Feininger, Man Ray, Georgia O'Keeffe, Stuart Davis, variamente legati a esperienze cubiste, espressioniste o astratte. Fu proprio negli Stati Uniti che Marcel Duchamp, Francis Picabia e Man Ray dettero vita alla prima rivista dada, "291", nel 1918.
 
L'arte tra le due guerre
Dopo la I guerra mondiale si verificò col gruppo degli Immacolati un ritorno a rappresentazioni figurative che, attraverso l'estrema semplificazione oggettuale, volevano riprodurre i caratteri della civiltà americana. Una tendenza figurativo-realistica, dovuta anche alla reazione contro l'invadenza culturale europea, prevalse anche negli anni della crisi e del New Deal, trovando l'adesione sia degli artisti dell'American Scene (tradizionalisti e sciovinisti), sia di quelli socialmente impegnati (Edward Hopper , Jack Levine, Ben Shahn, W. Gropper). La dittatura nazista in Germania e gli eventi della II guerra mondiale produssero l'esodo negli Stati Uniti di alcuni dei più importanti artisti europei, da Josef Albers a Làszlò Moholy-Nagy, da Max Beckmann a Fernand Léger a Piet Mondrian. Questo fu fondamentale per l'affermazione dell'astrattismo in America, dove già nel 1936 fu costituita la società degli American Abstract Artists e fu creato il Museo Solomon R. Guggenheim per l'arte non-figurativa.
 
Il secondo dopoguerra
Ma è soprattutto nel secondo dopoguerra che le arti figurative americane hanno raggiunto esiti di grandissima originalità: artisti come Arshile Gorky, Mark Tobey, Jackson Paul Pollock, Willem de Kooning, Mark Rothko, Alexander Calder, assimilate le avanguardie europee dall'espressionismo al surrealismo, hanno dato a loro volta apporti fondamentali alla cultura internazionale, influenzandola a loro volta.
 
Gli anni Cinquanta e Sessanta
Intorno agli anni Cinquanta ha dominato la corrente dell'action painting, rappresentata da Jackson Paul Pollock, Willem de Kooning, Franz Kline, Robert Motherwell, William Baziotes, mentre la personalità di Mark Rothko ha centrato la sua ricerca sul colore e sulla luce. Negli anni Sessanta, esauritasi la stagione dell'action painting, due tendenze sono emerse polarizzando attorno a sé le migliori espressioni artistiche: la Nuova astrazione (Kenneth Noland, Frank Stella, Robert Ryman), da cui hanno preso le mosse la minimal art (Robert Morris, Donald Judd, A. Smith) e la pop art (Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Jim Dine, Andy Warhol, George Segal, James Rosenquist ).
 
L'arte contemporanea
La risonanza mondiale della pop art ha conferito agli Stati Uniti grande prestigio culturale e un ruolo di primo piano negli sviluppi dell'arte contemporanea. Deriva dalla pop art, almeno per ciò che riguarda la tematica, la recente corrente dell'iperrealismo (Richard Estes, D. Eddy, D. Hanson, J. de Andrea). Nell'ambito della scultura vanno ricordati alcuni artisti, appartenenti alle più svariate tendenze astratto-costruttive o informali, quali David Smith, Seymour Lipton, Theodore Roszac, Louise Nevelson, John Chamberlain e soprattutto Alexander Calder . Importante infine il contributo statunitense alla definizione della cosiddetta arte concettuale, nel cui ambito di particolare interesse sono la body art (arte del corpo; J. Jonas, G. Pane) e la land art, o earth art (arte del territorio).

l mito a Venezia: pittura e produzione a stampa fra Quattrocento e Cinquecento


A cura di Picchiotti Danilo

A Venezia non è la corte il luogo dove si produce la cultura, sono piuttosto i circoli di studiosi, più spesso vicini ai primi editori, che già all’inizio del secolo portano avanti una ricerca di alto livello; così anche nell’ambito della cultura artistica si verifica una sorta di sperimentazione intellettuale che convive con una produzione artigianale meno elevata e più divulgativa e disimpegnata, che troverà espressione sia nelle illustrazioni dei testi a stampa sia nelle incisioni sia nella produzione e nella decorazione di oggetti d’uso, dai mobili ai manufatti del corredo domestico. Tale dialettica attraversa tutto il secolo implicando sia l’attività artistica di grossi personaggi come Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese, con la realizzazione di capolavori indiscutibili, documenti di una complessa problematica culturale, sia quella produzione spesso ancora artigianale, sicuramente più semplificata nei contenuti come nelle soluzioni formali, affidata ad artisti meno impegnati o alle maestranze di bottega, che sta a testimoniare una tendenza culturale di più ampia e facile fruizione.
La diffusione delle immagini mitologiche, a partire dall’edizione illustrata dell’Ovidio volgare nel 1497 , determina emblematicamente la divaricazione della produzione artistica a soggetto profano e segnatamente mitologico in due livelli: il primo continua anche attraverso le altre edizioni ovidiane e la produzione incisoria il nucleo illustrativo e divulgativo della favola mitologica narrata attraverso le varie fasi delle singole storie. Il secondo filone vede nella mitologia classica il tramite di determinati contenuti simbolici ricavabili dall’analisi delle fonti letterarie, alla luce della speculazione filosofica del tempo.
A Firenze alla corte di Lorenzo il Magnifico la mitologia era stata allegorizzata attraverso la filosofia platonica nell’interpretazione che ne aveva dato Marsilio Ficino a capo dell’Accademia di Careggi. La diffusione delle concezioni neoplatoniche, veicolate dalla mitologia in ambito veneto, viene recepita in termini diversi rispetto all’ermetico simbolismo fiorentino; negli Asolani di Pietro Bembo (stampato nel 1505), nel Libro de Natura de Amore di Mario Equicola (1525) come nei Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo i miti legati all’amore, alla bellezza, alla musica e alla poesia rivestiranno concetti complessi e profondi resi più facilmente comprensibili dalla lingua volgare adottata dai tre autori. In volgare viene anche stampato da Aldo Manuzio, a soli due anni di distanza dalle Metamorfosi di Ovidio, il romanzo di Francesco Colonna, l’Hypnerotomachia, Poliphili; al testo e alle illustrazioni dell’opera farà riferimento negli anni seguenti la cultura figurativa veneta.
Alle favole mitologiche Giorgione da Castelfranco, la cui identità biografica ed artistica rimane ancora avvolta dalle tenebre, dedicherà poca attenzione, più attratto dalle elaborazioni filosofiche nei suoi dipinti soggetti alle più complesse interpretazioni; ma al suo nome resta legata una produzione di facile consumo dove il mito viene semplicemente raccontato o illustrato a fini decorativi o per committenti interessati a quelle storie immerse nella natura umbratile resa attraverso quel colorismo che caratterizzerà le ricerche pittoriche degli artisti veneziani nel XVI secolo.
Il genere deputato a tale produzione artistica è per lo più la pittura di cassone per committenti privati che restano nell’anonimato come anche spesso gli stessi pittori. L’andamento narrativo di queste rappresentazioni è ispirato per la gran parte alle Metamorfosi di Ovidio sul modello delle illustrazioni xilografiche dell’edizione in volgare del poema augusteo. Fra queste i pannelli dei musei civici di Padova con la Leda e il cigno o il cosiddetto Idillio campestre, che sembra riproporre a livello compositivo la tematica della Tempesta dell’Accademia, restano in un totale anonimato anche per la fattura poco definita sebbene siano molto caratterizzate le ambientazioni naturalistiche e gli sfondi di città. Di discussa attribuzione invece sono i pannelli con la Nascita e la Morte di Adone nei Musei civici di Bergamo o quello con la storia di Apollo e Dafne del seminario patriarcale di Venezia, fedelmente mutuata dalla xilografia del poema ovidiano nella sequenza degli episodi: dall’uccisione del serpente Pitone per mano di Apollo, all’inseguimento della ninfa da parte della divinità solare che determinerà la metamorfosi in alloro; per questi i nomi di Tiziano giovane, Giorgione e Paris Bordon, per il pannello veneziano, continuano ad essere riproposti senza un approfondimento di questo tipo di produzione - che invece si registra in parte per l’area toscana - e dunque del lavoro di bottega da una parte e dello status dell’artista dall’altro in ambiente veneto all’inizio del Cinquecento. Più definiti, in termini stilistici, appaiono i tondi con il mito di Endimione e il Giudizio di Mida della Galleria Nazionale di Parma assegnati a Cima da Conegliano, al quale pure sono riferiti il Bacco e Arianna del Museo Poldi Pezzoli di Milano e i due frammenti con Sileno e tre Satiri e Fauno della Johnson Collection di Philadelphia e il Giudizio di Mida di Copenhagen. Più innovativa rispetto ai modelli illustrativi è la composizione del pannello dell’Accademia Carrara di Bergamo dove Euridice, morsa dal dragone, corre verso l’esterno del pannello, mentre al centro in secondo piano le fiamme dell’Inferno fanno da sfondo al momento cruciale del mito in cui Orfeo girandosi a guardare Euridice la perderà per sempre.
Ancora nell’ambito di questa produzione si pongono una serie di rappresentazioni dedicate a Venere o alla ninfa scoperta dal satiro, soggetti a sfondo ora erotico ora filosofico che caratterizzano la cultura veneta e nord-europea del primo Cinquecento. La matrice è forse da rintracciare nel romanzo di Francesco Colonna e nella xilografia che illustra appunto una ninfa scoperta da un satiro affiancata da due amorini che versano dell’acqua. Si tratta di una figurazione ecfrastica che decora la fontana della vita, come indica l’iscrizione dedicatoria P A N T W N T O K A D I , vale a dire "alla madre di tutte le cose ", dove Polifilo andrà a dissetarsi durante il suo lungo percorso iniziato alla ricerca dellla sapienza. Dalla Venere di Dresda alla Ninfa alla fonte di Lucas Cranach a Lipsia, alla Venere di Urbino il tema dell’amore viene assunto e finalizzato per contenuti ora matrimoniali ora erotici ora filosofici.
In questi dipinti si verifica un netto scarto dalla composizione narrativa a quella allegorica che caratterizza le opere attribuite a Giorgione, come già notava Giorgio Vasari nel ricordo dell’impressione avuta dei dipinti dell’artista in occasione del suo viaggio a Venezia: «Giorgione non pensò se non a farvi figure a sua fantasia per mostrar l’arte; poiché nel vero non si ritrovan storie che abbi ordine o che rappresentino i fatti di nessuna persona né antica o moderna».
Mentre gli Asolani di Pietro Bembo, nel recepire la tradizione platonica fiorentina, costituiscono la fonte primaria di quella produzione a soggetto amoroso e cortese, i Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo, scritti probabilmente fra il 1502 e il 1506 ma pubblicati solo nel 1535, si fanno interpreti di quella componente ermetica del neoplatonismo rinascimentale che è alla base di molte opere di paternità giorgionesca e di Tiziano giovane.
Il Concerto campestre del Louvre insieme all’Amor sacro e Amor profano della Borghese interpretano questa complessa problematica artistica tematica e culturale. La inusuale rappresentazione del dipinto parigino, dove figure nude e figure diversamente vestite creano un’atmosfera di intesa e di sospensione temporale, rivela la sua valenza allegorica in termini di allegoria musicale. Per la nuda alla fonte bisogna ricorrere all’immagine della poesia nella serie dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna, dove una figura femminile posta sul Parnaso si appresta a compiere un rito di purificazione lustrare. Così la contaminazione della nuda del dipinto del Louvre con la personificazione della Temperanza contribuisce, anche attraverso la dimensione temporale, a conferire al dipinto un significato filosofico musicale.
Un dipinto di quotidianità matrimoniale e di allegoria filosofica invece è stato da ultimo definito l’Amor sacro e profano ; il dipinto tizianesco, eseguito fra il 1514 e il 1515 in occasione del matrimonio fra Nicolò Aurelio e Laura Bagarotto, come rivelano gli stemmi dipinti nel quadro, verte sul tema dell’amore in antitesi ma in inevitabile dialogo con la morte. Così l’amore umano, rigenerazionale e matrimoniale convive e si contrappone all’amore sublimato, all’amore divino, spogliato di ogni ornamento, assimilabile anche a Psiche, all’anima, mentre l’elemento dell’acqua, assume un significato simbolico come nel romanzo d’amore di Francesco Colonna e nel Concerto campestre in quanto si fa tramite fra gli opposti e medium nell’azione del temperare da parte di Cupido.
Dopo la precoce morte di Giorgione la sopravvivenza della mitologia nella cultura artistica veneta del Rinascimento resta affidata essenzialmente a Tiziano e solo in parte ad altri artisti come Sebastiano del Piombo, autore della splendida Morte di Adone agli Uffizi , replicata da Baldassarre Peruzzi negli affreschi della sala delle Prospettive nella villa di Agostino Chigi a Paris Bordon e a Palma il Vecchio e solo più tardi a Tintoretto, seguito dalle solari composizioni di Veronese.

Centri culturali e movimenti"Il panorama culturale europeo nel XIII secolo"


A cura di Picchiotti Danilo
Il panorama culturale europeo nel XIII secolo è convulso, proprio di regioni che attraversano processi di espansione e riaccumulazione della ricchezza. La persecuzione degli Albigesi (1209\1229) e la nascita dell'Inquisizione (1233) segnarono la fine, nel sangue e nel genocidio, della produzione provenzale. Da allora, l'avvento della Francia settentrionale; mentre i trobadori sfuggiti alla guerra si disseminano nelle regioni limitrofe ovunque ispirando il sorgere di produzioni poetiche locali. In campo religioso riveste importanza, anche dal punto di vista dei risultati poetici, il movimento francescano. E' il momento in cui la chiesa cattolica raggiunge con Innocenzo III il massimo della potenza economica e politica. Sono attive le universitates, e alcuni centri culturali politici come la corte di Federico II e quella di Alfonso X a Toledo. In Italia proliferano realtà politiche e culturali indipendenti come i Comuni. E' una proliferazione che rende conto dell'estrema vivacità culturale ed economica di questa regione, che continuerà fino al XVI secolo. Nel XIII secolo centri trainanti sono Asti Milano Verona Venezia Genova Pisa Firenze Siena, ma molti altri dimostrano un attivismo e una intraprendenza notevoli. Manca un centro politico unitario, ma si afferma l'attività di una classe, quella mercantile borghese, e con essa una mentalità e una cultura.

Corti cavalleresche
Tra il 1170 e il 1250 la società feudale raggiunse il più alto grado di sviluppo. Ai valori della tradizione cristiana si affiancarono quelli dell'etica cavalleresca: la lealtà , la fedeltà al proprio signore e alla donna amata, la dedizione agli ideali religiosi e ai compiti sociali dell'aristocrazia.
Centri della vita letteraria diventarono le corti e i castelli, dove i sovrani e i grandi feudatari si atteggiavano a protettori di poeti e artisti. In tale cornice la poesia fu intesa essenzialmente come raffinato involucro formale di affascinanti storie d'amore e di cavalleria.

La Francia settentrionale
Nella Francia settentrionale, la lingua d'oil è usata anche in campo storiografico: efficace il resoconto degli eventi vissuti da Robert de Clari e Geoffroi de Villehardouin, combattenti e cronisti della quarta crociata; più tardi è Jean de Joinville.
In campo teatrale continuano le sacre rappresentazioni del secolo precedente; e ad Arras nel 1200 si rappresenta Il jeu di san Nicolas (Le jeu de saint Nicolas) di Jean Bodel, la più antica rappresentazione di "miracolo": i "miracoli" hanno come fonte la vita dei santi e saranno numerose per tutto il secolo. 
Dagli intermezzi profani del dramma sacro si sviluppa verso la metà del XIII secolo un teatro comico. Capostipite ne è Adam de la Halle; di queste rappresentazioni buffonesche è rimasto poco.
In campo poetico, dopo Chrétien de Troyes la tradizione cortese si afferma con i trovieri, spesso signori e cavalieri: Gace Bruléé, Conon de Béthune, Thibaut de Champagne.

Non appartiene a queste classi Colin Muset, autore di componimenti di gusto giullaresco e a volte con intenzioni ironiche nei confronti della tradizione cortese. Le convenzioni cortese sono del tutto superate nel maggiore poeta in lingua oïl della seconda metà del XIII secolo, Rutebeuf che per temperamento polemico e ispirazione realistica precorre Villon.

Tra le cose più importanti dal punto di vista letterario prodotte in questo secolo in territorio e ambiente culturale francesi, è il Roman della rosa, che ebbe una influenza determinante nei due secoli successivi in europa.
Una raccolta di racconti storici è I fatti dei romani (Li fait des Romains), composta da anonimo tra il 1213 e il 1214.

Il ciclo arturiano francese
Probabilmente nella Champagne, nel 1220-1235 fu costituita la trilogia in prosa relativa al ciclo arturiano, formato da "Lancelot", "Ricerca del graal" (Queste du Graal), e "Artu morto" (Mort Artu).

Movimenti religiosi
Il secolo si apre con l'espansione del movimento cristiano dei francescani, a cui sono legati alcuni dei vertici della lirica religiosa cristiana: il Cantico di Francesco da Assisi, il Dies irae attribuito a Tommaso da Celano, lo Stabat mater di Iacopone da Todi.
Si tratta di una produzione lirico-religiosa che ha molto a che fare con il sorgere e proliferare della civiltà comunale italica, che costituisce la faccia religiosa di un ambiente che produsse anche in campo laico. E se i maggiori risultati in campo laico sembrano prodursi in Toscana, in campo religioso le cose migliori provengono, nell'ambito della penisola italica, dall'Umbria. Intorno al 1260 si sviluppa una copiosa lirica religiosa in lingua locale postlatina, in connessione con il sorgere di compagnie di Disciplinati a Perugia. La produzione di laudi, in gran parte anonima, si diffonde dall'Umbria alle regioni vicine e in Italia settentrionale, raggiungendo dimensioni enormi nei due secoli successivi, evolvendosi anche nelle forme di laudi drammatiche.
A questo secolo appartiene il laudario, ad uso non di confraternita ma personale conventuale, di Iacopone da Todi. Il laudario urbinate segue la scuola iacoponiana.
Nella penisola iberica, in castigliano scrive Gonzalo da Berceo (morto verso il 1268), un prete autore di vite di santi e soprattutto dei Miracoli di nostra signora, in cui sono raccolte 25 narrazioni, semplici e appassionate, di prodigi compiuti da Maria. Si tratta del primo autore della futura letteratura spagnola-castigliana, di cui conosciamo il nome. Gonzalo usa quartine monorime, composte di versi simili agli alessandrini epici francesi, con una sillaba in più sulla cesura. E' una forma metrica diffusissima nella letteratura castigliana delle origini ("cuaderna vìa" o "mester de clerecìa"), in contrapposizione alle forme irregolari dell'epopea popolare, e con influenze latine e francesi. Le sue opere sono coeve ad altri testi di autori anonimi (Il libro di Apollonio, Il libro di Alessandro, Il poema di Fernàn Gonzalez ecc.). 
In campo teatrale è l'anonimo Auto dei re Magi (Auto de los Reyes Magos, c.1200), primo testo in versi della drammaturgia liturgica spagnolo-castigliana. Dal punto di vista contenutistico e macrostrutturale, l'auto non differisce molto dai contemporanei misteri e sacre rappresentazioni del resto dell'europa. Il breve frammento dell'"Auto dei re Magi" è l'unico superstite di questo periodo.
In tutta l'europa latina si producono omelie, artes praedicandi, raccolte di "miracula" e di "exempla". Alla metà del XIII secolo risale la Legenda aurea di Iacopo da Varazze, un domenicano; si tratta di una raccolta in latino di 182 vite di santi composta negli anni 1255-1266, e che ebbe una diffusione vastissima fino al XVIII secolo, un vero e proprio best seller, fu tradotta e volgarizzata, esercitando un notevole influsso sulla letteratura religiosa italica ed europea. Attraverso i racconti su Gesù e Maria e soprattutto i ritratti di eroi e eroine cristiane dei primi secoli, sviluppa una sequenza narrativa che si gradua attraverso il sogno, l'estasi, il realismo, il truculento e il macabro, il terrificante e il ridente. Una specie di 'Mille e una notte' dell'exemplum, tra spregio e curiosa attrazione per il peccato, con indicativi glissamenti su particolari "scabrosi", e con l'uso dell'io narrante che uniformizza stilisticamente i racconti all'interno di una succinta cornice (si veda il racconto della vita di santa Maria Egiziaca).
Tipico della cultura del tempo è un racconto edificante degli inizi del XIII secolo, cui si è dato il titolo convenzionale de Il cavaliere e l'eremita. In essa tutti i lavori profani del cavaliere (la forza, il lignaggio, il riso, la carne, la compagnia dei vassalli) entrano in contrasto con quelli dell'eremita che consuma le sue speranze nel recinto sacro della foresta, nell'interiorità , nella solitudine della preghiera. Operina minorissima, ma estremamente indicativa delle coordinate etiche che in certi ambienti culturali (tradizionalisti) si voleva presentare lo scontro tra cultura ascetica e cultura cittadina/cavalleresca.

Negli anni tra il 1220 e il 1240 scrive le sue Lettere, Poesie, Visioni una mistica come Hadewijch. Lei è la testimone di un ambiente, quello dei beghinaggi renano-fiamminghi fiorente nel XIII e nel XIV secolo.
In europa non esistono solo i cristiani cattolici. Anche la chiesa cristiana orientale ortodossa esprime mistici e autori degni di rispetto. Un caso particolare è il gruppo presente sul monte Athos. Era stato Kostantinos Monomaco nel 1060 che aveva autorizzato questa zona sacra come zona protetta, con il divieto d'accesso a donne, bambini, effeminati e eunuchi e «a tutte le facce lisce». Nel XIII secolo dai santuari del monte Athos provengono alcuni mistici dalla forte carica poetica. Si pensi a Teolepto di Filadelfia, che scrive ispirato sulle particolari virtù che il mistico raggiunge in quei luoghi dove «la ragione colpita dalla lancia del divino amore zampilla pensieri vivificanti e luminosi. L'amore, invece di una dolce conversazione, produce profondo silenzio e incanta la ragione con la variegata lucentezza dei pensieri». Ma si pensi anche allo Pseudo-Simone che nei suoi "Versi della santa e divina preghiera", che afferma come «in tutto ciò ha come inizio e fine il capo di tutte le virtù , la carità ». I mistici del monte Athos elaborano una religiosità monastica basata sul valore dell'hesychía, il silenzio e la solitudine. Attraverso l'esicasmo, sfuggire ai mali: golosità (gastrimaghia), avarizia (philarguria), fornicazione (porneia), collera (horghè), tristezza (lupè), disperazione (akedia), vanagloria (xenodoxia), orgoglio (huperefania).

Produzione letteraria germanica
Epica cortese
Anche in Germania, su modello francese, si ebbero romanzi in versi dell'epica cortese, ispirati al mondo classico e alle leggende bretoni così come le aveva elaborate Chrétien de Troyes. Spiccano i poemi di Hartmann von Aue, Tristan e Isotta di Gottfried von Strassburg, e soprattutto il Parzival di Wolfram von Eschenbach in cui sono maggiormente sottolineati i motivi etico-didascalici, rispetto ai modelli francesi. Egli attinge da Chrétien de Troyes, ma trasformando la vicenda romanzesca in una storia di purificazione e di elevazione spirituale.

Epica anonima
L'epica popolare, non soggetta a influssi esterni, si basa su una ripresa di antichi temi germanici: i testi maggiori sono dati dal Cantare dei Nibelunghi (inizi del XIII secolo), e da Kudrun (c.1230). Nel primo prevale una cupa drammaticità , nell'altro il gusto per l'avventura e la partecipazione agli affanni amorosi.

Minnesang
Concepito e teorizzato come la più nobile espressione umana, l'amore diventa il tema della contemporanea lirica cortese dei minnesänger. Il termine di minnesang deriva dalla combinazione dei due termini tedeschi: "sang" (canto) e "minne" (amore). La tradizione dei trovatori provenzali si associa a spunti locali di poesia erotica spontanea e popolareggiante. Questa del minnesang non fu un vero movimento, ma una tradizione sviluppatasi a partire dal XII secolo (fino al XIV) nella regione austro-bavarese. I minnesänger appartenevano spesso al ceto nobile, recitavano i loro componimenti davanti a un pubblico raffinato che frequentava le corti feudali, accompagnandosi a strumenti a corda: così come avveniva per i trovadori provenzali. Anche qui il tema principale, quello dell'amore, è concepito come rapporto spirituale che nobilita. Si esaltarono le virtù della vita cavalleresca e della società cortigiana, la lealtà , la fedeltà , la costanza, il coraggio. La donna venne idealizzata fino a diventare modello di perfezione, ma senza essere investita di significati mistici (come sarà nello stilnovismo). Nei più tardi minnesänger si accenteranno gli elementi sensuali e i vagheggiamenti sentimentali. L'amore però non era il tema esclusivo: si scrivevano anche componimenti politici, invettive e satire contro i potenti, canti religiosi e morali. In genere la scelta di un determinato argomento implicava l'adozione di un dato schema metrico e musicale:
• il lied (pl. lieder) era una canzone a più strofe, d'argomento in genere amoroso;
• il leich (pl. leiche) era una poesia bistrofica, amorosa e conviviale, o religiosa;
• lo spruch (pl. sprüche) era una poesia monostrofica, spesso sentenziosa e politica.
Legato a rigide strutture formali, il minnesang finì per cristallizzarsi.
Tra i minnesänger si affermò , al di fuori degli schemi, nel corso del XIII secolo, la personalità poetica di Walther von der Vogelweide cantore di amori giovanili sullo sfondo di teneri paesaggi stilizzati. Egli è veemente polemista politico e moralista; riporta il minnesang nella dimensione della realtà , piegandolo a nuovi e originali modi di espressione. 
Tra gli altri minnesänger contemporanei da non dimenticare Wolfram von Eschenbach , sensibile all'ispirazione morale. 
Già nel realismo satirico delle canzoni di Neidhart von Reuental , scritte nel 1210-1240, è avvertibile tuttavia la decadenza dei valori etici. I suoi versi descrivono sensuali amori campestri del poeta che "si reca presso i contadini". 
Siamo nel clima dei poeti dell'ultimo periodo del minnesang, in cui i vari autori, influenzati dalla produzione giullaresca, tracciano spigliate e salaci rappresentazioni dell'ambiente contadino: si tratta di toni e motivi sempre più estranei ai caratteri originari del minnesang, e preludono alla poesia borghese dei "maestri cantori".

Nel campo della prosa, documenti dell'evoluzione linguistica oltre che dell'organizzazione politico-sociale del mondo feudale sono lo Specchio dei sassoni (Sachsenspiegel, 1221-4) la più vasta e autorevole raccolta giuridica oltre che delle consuetudini sociali dell'area sassone, e la Cronaca universale sassone (Sächsische Weltchronik, c.1230) vasta compilazione storica che va dalle origini del mondo agli eventi della Germania del suo tempo, dovute a Eike von Repgow (c.1190\1233). Eike era un nobile sassone, originario della regione di Dessau: con queste due opere a lui attribuite creò la prosa letteraria tedesca, mentre con la "Cronaca" diede la prima importante opera della storiografia tedesca.

La Germania borghese
Nella seconda metà del XIII secolo si accentuò la potenza della borghesia cittadina, rivaleggiante con l'aristocrazia dei castelli. Mercanti e banchieri sviluppano nuove forme di produzione e distribuzione della ricchezza, mentre gli artigiani, riuniti in potenti corporazioni, sopravanzano i ceti legati all'agricoltura. Cominciarono così a declinare i miti della società cortese.
L'ambiente rustico è scelto da Wernher der Gartenaere per ambientare la sua novella in versi, Il massaro Helmbrecht (Meier Helmbrecht, c.1270), in cui domina l'esigenza di documentare l'apporto di tutte le classi, anche delle più umili, all'edificazione di una perfetta società . La novella è il più antico poema d'ambiente rurale in lingua tedesca che si possegga. Si tratta di un'opera di grande originalità e vigore. Nato in un'epoca in cui la cavalleria era degenerata nei misfatti dei "cavalieri predoni", Wernher non condanna direttamente i cavalieri decaduti ma i contadini traviati dal loro esempio: narra così la storia tragica di un contadino che rifiuta la propria condizione e, sotto il miraggio di diventare cavaliere, compie una serie di atroci misfatti. Alla fine, la terribile punizione. L'opera è simile a una ballata popolare, in gran parte occupata dai dialoghi tra i personaggi: il protagonista, il padre inflessibile nella condanna del figlio che rifiuta la propria condizione, la sorella, le vittime delle sue violenze che alla fine lo riconoscono e lo puniscono. Si tratta di personaggi complessi e psicologicamente molto elaborati. E' una parodia dei poemi cavallereschi, ma anche il poema che decreta la fine di quel genere, nel naufragio di quel mondo nella violenza.
La realtà sociale interessa ancora soprattutto per i suoi aspetti comici e grotteschi. Il mondo pittoresco dei poveri, lo spettacolo della stoltezza e dell'astuzia umana, sono materia letteraria per Stricker, ma anche per un poeta come Konrad von Würzburg (era nato a Würzburg nel 1220-30, morì a Basilea nel 1287) che, pur di estrazione borghese, risulta legato nelle sue novelle in versi alla tradizione cavalleresca, impegnato a realizzare uno stile "fiorito" decorativo e rarefatto quanto quello dell'arte gotica allora imperante. Konrad è l'ultimo esponente della letteratura tedesca cavalleresca. Riprende lo stile raffinato e dotto di Gottfried von Strassburg. La sua vasta opera comprende poemi cavallereschi (Engelhart), novelle (Heinrich von Kempten), vite di santi (Silvester, Pantaleon), liriche e poesie gnomiche. Il suo nome è rimasto famoso per il poema Il cavaliere del cigno (Der Schwanritter), sulla leggenda di Lohengrin, il cavaliere del santo graal, da cui Wagner ricavò un dramma musicale.

Anche nel teatro troviamo questo mutamento verso forme più realistiche. Ai drammi religiosi in latino del secolo precedente succedono sacre rappresentazioni in lingua locale, dedicate ai momenti principali dell'anno liturgico (Passionsspiele, Weihnachtsspiel). Ma mentre prima tali rappresentazioni posseggono situazioni e caratteri molto stilizzati, con l'avvento della nuova cultura borghese prevalgono, sui contenuti religiosi, l'interesse per l'ambientazione storica o pseudo-storica (Mistero della papessa Giovanna).
Nelle fastnachtsspiele, farse carnevalesche eseguite nelle piazze, il teatro indulge nei modi dell'umorismo più facile.
Intanto esiste uno sforzo per rinnovare il sistema ideologico laico, come si avverte nella poesia di contenuto gnomico e morale. Nella prima metà del secolo Freidank, nella raccolta poetica Saggezza (Bescheidenheit) detta precetti che dovrebbero servire non solo per la salvezza eterna ma anche per rapporti sociali più armoniosi.
La scuola dei "maestri cantori" (meistergesang), appoggiata dalle corporazioni artigianali, nella sua ampia parabola produttiva (dal '200 al '500), riafferma i princì pi di un'etica borghese idealizzata: l'equilibrio, il senso della misura, lo spirito d'adattamento, la laboriosità, la tenacia. Sono valori esaltati anche dalla grande letteratura religiosa del tempo, in cui si affermano le possibilità espressive della prosa tedesca: dalle prediche del francescano Berthold von Regensburg (c.1210\1272) ai successivi teologi Meister Eckhart, Taulero e Suso.

Altri centri: Inghilterra, Irlanda, Fiandre, Islanda, Finlandia, Serbia, Kijev
In middle-english circolano poemi del ciclo arturiano (nel c.1205 Layamon scrive il Brut, proprio in middle-english), mentre meno rilevanti risultano i contributi provenienti dai popolari cicli carolingio e classico, rispetto alle opere indipendenti come il Sir Orfeo e ai romanzi del ciclo isolano. A radici popolari, più che a moduli cortesi, risale la splendida lirica del Manoscritto Harley.

Menzione a parte merita la poesia irlandese che, con le sue formule magiche e incantatorie derivate dagli antichi sacerdoti druidi. Siamo qui alla preistoria della tradizione satirica britannica.

Nelle Fiandre la produzione letteraria subisce influssi soprattutto dalla Francia. Nella mistica si distingue la monaca Hadewijch. Sono diffuse canzoni di gesta e romanzi cortesi, ma quasi essenzialmente nelle province del sud che appartengono in quest'epoca alla Francia. Il genere cavalleresco non attecchisce nel contesto fiammingo, essenzialmente borghese. Grande successo ottengono un rimaneggiamento di alcune parti del Roman di Renard e l'opera di Jakob van Maerlant.
In gran numero sono le canzoni e i racconti popolari in versi, spesso d'argomento didascalico. Grande ruolo acquista, a partire dal 1250 la prosa sacra, sia per la profondità espressiva che per il suo rilievo linguistico.

Mentre il Finlandia continua la tradizione orale dei canti (runi) recitati al suono del kantele (un tipo di cetra), in Norvegia si ha un modesto processo di recupero di materiali nordici autoctoni, con una forte assimilazione di testi religiosi e profani (agiografie, moralità , poemi cortesi e cavallereschi) di provenienza continentale. 
Degni di nota il Konûngs skuggsja (o Speculum regale), un trattato sull'educazione degli aristocratici. Nel campo della produzione latina è l'Historia de antiquitate regum norvagiensium del monaco Thoudricus. Rilevante, tra XIII e XIV secolo, la produzione di ballate epico-liriche, su modello provenienti dalla Francia attraverso Germania e Danimarca.

Intorno al XIII secolo è in Islanda la massima fioritura della tradizione degli scaldi, i poeti epico-encomiastici che operavano presso le corti feudali e che dall'isola emigrarono nelle altre aree scandinave. Nella prima metà del secolo, alla vigilia della dominazione danese, è un periodo di vita culturale eccezionalmente intenso. Nasce la letteratura in prosa, con le saghe, narrazioni che erano fatte risalire a veri fatto storici. In quegli anni è l'attività del massimo erudito islandese antico, Snorri Sturluson.

Dal principato kijeviano, prezioso documento del sostrato popolare che sottende la letteratura erudito-ecclesiastica, manifestandosi per lo più con particolari clausole ritmiche, è la Supplica risalente attorno alla metà del XIII secolo, che un ignoto Daniil detto "Zatocnik" (il prigioniero), rivolge al principe della sua città affinché lo accolga a corte e gli dia una libera occupazione. 
Nel 1240, travolta dai mongoli dell'Orda d'oro, cade Kijev. I prìncipi russi sono ridotti a vassalli. Per la letteratura comincia un periodo di decadenza in cui i vecchi generi ereditati da Bisanzio sopravvivono in forme irrigidite attraverso degli epigoni. La tolleranza religiosa dei tatari (dopo il primo impatto devastante) però , lasciò intatte le basi della cultura slavo-ortodossa e permise il perpetuarsi di una tradizione che conoscerà una nuova fase di sviluppo alla fine del XIV secolo.

Nel XIII secolo inizia un processo di germanizzazione dei popoli baltici, che impedisce l'evolversi delle culture di quei popoli verso una autonoma produzione scritta.

In Serbia la produzione letteraria ha inizio per influsso dell'attività di Cirillo e Metodio; a differenza delle regioni croate, nelle regioni serbe lo slavo ecclesiastico mantenne prerogative di lingua letteraria oltre che liturgica, fino al XVIII secolo. 
Favorita dall'ascesa dello stato serbo, la letteratura ebbe vigoroso sviluppo proprio a partire dal XIII secolo, pervenendo a un alto grado di maturità continuato per due secoli. Essa ebbe i suoi centri nei monasteri, fondati fuori del territorio che sarà nazionale - celeberrimo quello di Hilandar - nei quali gli stessi sovrani si rifugiavano negli ultimi anni di vita. Il modello rimase a lungo la letteratura bizantina, dalla quale si assimilavano con fervore spiriti e forme. Il genere più fortunato fu quello agiografico e biografico, in cui venivano consacrati i regnanti fondatori di monasteri. Iniziatore ne fu Sava (1169\1236) figlio del primo re serbo, da lui celebrato in una pregevole Vita di san Simeone. Sul suo esempio, suo fratello, il re Stefano (1165\1227) scrisse una più ampia biografia del genitore. Alla metà del XIII secolo i monaci Domenziano (1210\1264) e Teodosio (seconda metà del XIII secolo) scrissero una Vita di san Sava.

La cultura ebraica
In Spagna continua la fioritura ebraica. Accanto alla produzione delle scuole filosofiche, si ha una ripresa della mistica con Mosheh de León (c.1240\c.1305), l'autore più probabile de Lo splendore (Sèfer Zohar, Libro dello splendore), che ebbe una grande influenza nella mistica ebraica successiva. Secondo la tradizione, lo "Zohar" fu attribuita a Shim'on bar Jochaj, erudito palestinese del II secolo (+). Sulla base di un'accurata indagine critica storico-religiosa, si ritiene invece che sia stato scritto almeno in gran parte da Mosheh de León. Lo "Zohar" è un midrash omiletico al Pentateuco e ad altre parti della Bibbia. E' scritto in un aramaico artificiale. Comprende 21 trattati, in cui si sviluppano le dottrine caballistiche su dio, i suoi nomi, la cosmologia, la mistica dei numeri e delle lettere dell'alfabeto ecc. La forma usata è spesso quella delle rivelazioni fatte da Shim'on bar Jochaj. Considerato un libro sacro dai caballisti, ebbe un'influenza anche sui "caballisti cristiani" nel XV-XVII secolo.
Figura importante nella mistica è quella di Abraham Abulafia.
Accanto a questi, a fare da sottofondo, il lavoro di tutta una serie di autori minori e minimi, e soprattutto di eruditi, cui si deve un lavoro notevole di accumulo di informazioni e materiali: di cultura. Tra questi eruditi minori è Shem Tob ibn Falaquera, poligrafo, si occupò di poesia di corte, di studi medici, di psicologia (scrisse un "sefer ha-nefesh" cioè un "libro dell'anima"), scrisse un glossario filosofico a introduzione di un florilegio di "Opinioni dei filosofi" (Deot ha-filosofim), una specie di enciclopedia di 600 pagine manoscritte, in ebraico.

martedì 10 novembre 2009

Una risposta nella mostra sui cento capolavori dell'Ermitage.





Chiedere a un matematico di commentare dei quadri è come chiedere a un pittore di dipingere dei numeri: un evento a prima vista piuttosto improbabile, che a uno sguardo approfondito risulta però possibile. Anzi, tanto possibile da essersi già verificato più volte. Basta ricordare l'esoterica Malinconia di Albrecht Dürer (1514), in cui di numeri ne compaiono addirittura sedici, disposti in forma di quadrato magico: un'opera sulla quale il professor Nanni Moretti espresse tutta la sua sorpresa in un'imbarazzante lezione del film Bianca (1976).
Altri esempi sono i telescopici Numeri innamorati di Giacomo Balla (1925), in cui vengono raffigurati i primi termini della misteriosa successione di Fibonacci che descrive le simmetrie della natura, e il Cinque dorato di Charles Demuth (1949), che rappresenta appunto ciò che dichiara: un enorme e luccicante cinque. Quest'ultimo fu tanto influente da essere stato ripetutamente citato e ripreso, per esempio nel Cinque di Demuth di Robert Indiana (1963): un artista che deve la sua fama al celeberrimo Love (1967), di cui si appropriarono i Beatles per la copertina di un loro disco. Per quanto riguarda noi e oggi, basta citare Ugo Nespolo, che ha fatto dei numeri il soggetto preferito della propria ispirazione e dei propri acrilici su legno. Se i pittori si permettono di dipingere numeri, i matematici potranno dunque ben azzardarsi a commentare quadri.
Avviamoci quindi a curiosare insieme nella mostra dei cento capolavori dell'Ermitage, alla ricerca di elementi di riflessione scientifica più che artistica. Il gioco è difficile, perché i quadri in esibizione alle Scuderie Papali del Quirinale appartengono a un periodo e a pittori non particolarmente sensibili al razionalismo matematizzante che ci interessa in questa sede. Poiché però i giochi facili divertono poco, di questo saremo più felici che preoccupati.
Quasi all'inizio della mostra, il primo dipinto ad attirare la nostra attenzione è il numero 23: La Chiesa di Santa Maria degli Angeli di Henry Edmond Cross (1909), un tipico esempio di "puntillismo". Questa tecnica, scoperta o inventata da Georges Seurat nel corso dei suoi studi sui colori e da lui chiamata "divisionismo", rappresentò una vera e propria rivoluzione euclidea nell'arte: il riconoscimento, cioè, che come lo spazio geometrico è costituito di punti immateriali e senza dimensione, così lo spazio pittorico si compone di punti colorati ai quali è possibile ridurre ogni figura.
Oggi siamo tutti puntillisti senza neppure accorgercene, perché sappiamo benissimo che le immagini degli schermi televisivi o informatici sono appunto composte di cosiddetti pixel colorati: più grande è il numero dei pixel usati, maggiore è la risoluzione dello schermo e delle relative immagini. I puntillisti non erano invece interessati alla risoluzione, ma al suo esatto contrario: il loro obiettivo non era nascondere la natura atomica dello spazio visivo, ma esibirla.
Proprio negli stessi anni in cui gli artisti decostruivano le immagini pittoriche in punti colorati, i matematici e i fisici decostruivano le curve geometriche in funzioni sinusoidali e gli atomi materiali in particelle elementari. In tutti i casi si trattò di una medesima riduzione della realtà a fenomeni ondulatori (ottici, trigonometrici o quantistici) rimasti fino ad allora nascosti: come disse Einstein, si era finalmente "sollevato un lembo del grande velo" che cela la dinamica essenza del divenire dietro la statica apparenza dell'essere.
La parte centrale della mostra riguarda artisti, da Gauguin a Matisse, alla cui opera poco si addice un'analisi matematica.
La cosa cambia invece quando ci imbattiamo, verso la fine, in una serie di quadri cubisti di Pablo Picasso (1907-1917).
Se il puntillismo atomizzava le figure in singoli punti, il cubismo decompone i contorni in tratti rettilinei e gli interni in tasselli triangolari, che nella geometria euclidea sono rispettivamente determinati da coppie o terne di punti.
Si tratta di un duplice processo di approssimazione, di curve mediante segmenti e di superfici mediante triangoli, che ammette illustri precursori matematici. Già i Greci sapevano infatti che un cerchio si può approssimare a piacere con poligoni regolari, e ne La dotta ignoranza (1440) il cardinal Cusano arrivò all'ardita concezione del cerchio come poligono a infiniti lati di lunghezza infinitesima.
Quanto alla possibilità di approssimare superfici curve mediante poligoni, l'architettura moderna ci ha assuefatti all'idea mediante le famose cupole geodesiche di Buckminster Fuller, e il pallone da calcio ci ricorda che una sfera non è troppo diversa da una combinazione di dodici pentagoni e venti esagoni. I due esempi convergono nel cosiddetto buckminsterfullerene, un composto superstabile le cui molecole sono appunto costituite da sessanta atomi di carbonio disposti nei vertici dei poligoni che formano il pallone da calcio.
Per tornare all'arte, puntillismo e cubismo effettuarono una rivoluzione linguistica della pittura, ma non ne mutarono il soggetto: i dipinti di Cross e di Picasso in esibizione rappresentano ancora i soliti paesaggi e personaggi, sia pure raffigurati con una tecnica diversa. E questo destino accomuna non solo l'arte, ma anche la letteratura, la filosofia, la scienza e la matematica. Anzi, è proprio perché ogni epoca narra spesso le stesse storie, sia pure raccontandole con un suo linguaggio diverso, che noi possiamo continuare a godere anche oggi delle opere del passato.
A ricordarci che a volte però le cose cambiano non solo nella forma ma anche nella sostanza, è il dipinto numero 99 al termine della mostra: il Violino e chitarra di Ferdinand Léger (1924). Nonostante il titolo, di violini e chitarra qui non c'è l'ombra. O meglio, rimane soltanto una letterale ombra, cioè un'astrazione: sulla tela non si vedono infatti altro che figure geometriche, ossia le forme astratte degli oggetti concreti.
Il quadro di Léger non è certo rappresentativo né dell'artista, né della mostra, e all'interno della collezione dei capolavori dell'Ermitage è forse uno dei meno interessanti.
Svolge però il ruolo essenziale di puntatore verso l'esterno, verso quella forma intellettuale e sofisticata dell'arte moderna che è l'astrattismo di gruppi quali il Bauhaus o il De Stijl, e di artisti quali Mondrian o Kandinskij.
Siamo qui finalmente approdati a ciò che i Greci chiamavano "idee", e che noi faremmo meglio a tradurre con "forme". La teoria platonica delle idee, sfrondata della metafisica di cui si è ammantata nei secoli, si riduce infatti alla constatazione che la vera essenza di questo imperfetto mondo è la perfetta geometria. E l'arte moderna, nel suo percorso alla ricerca della forma pura ed essenziale, non poteva che approdare alla stessa conclusione e diventare matematica. Scopriamo dunque che le attività del matematico e dell'artista non sono poi così diverse, perché comuni sono gli oggetti delle loro ricerche, e le forme delle loro rappresentazioni: la prossima volta si potrà allora chiedere a un artista di commentare delle formule.


SCI - L'uso degli sci sembra sia stato il più antico mezzo di locomozione inventato dall'uomo,




> SCI - L'uso degli sci sembra sia stato il più antico mezzo di locomozione inventato dall'uomo, prima ancora della ruota. Un'incisione rupestre all'isola di Rodoy in Norvegia databile nel 3000 a.C. raffigura uomini che hanno ai piedi degli sci. A confermare questa scoperta, in una torbiera di Hoting in Svezia, ne sono stati rinvenuti un paio in ottime condizioni di conservazione databili 2500 a.C.Ma sembra che l'invenzione dello sci e insieme della slitta, affonda nella preistoria e che perfino la prima e originaria colonizzazione dell'America sia avvenuta proprio con gli sci ai piedi. Alcuni grandi esploratori e storici (Luther, Nansen) studiando le origini degli sci, fanno risalire questa invenzione nella zona della Siberia e della Mongolia. Precisamente nella zona degli Altai. Fu qui che si formarono - prima della fine dell'ultima era glaciale - due correnti migratorie: una verso la Manciuria e proseguendo attraverso lo stretto di Bering ghiacciato entrarono nell'Alaska poi in Canadà colonizzando il continente; mentre l'altra dirigendosi a ovest attraverso la Siberia sarebbe pervenuta nei paesi scandinavi sul Baltico. (Non dimentichiamo che si possono percorrere con gli sci ai piedi dai 300 ai 400 chilometri al giorno. Il record é del finlandese Rantenen con 401,28 km. Quello femminile detenuto da Kainulaisen é invece di 330 chilometri. Poi non dimentichiamo l'impresa dello stesso Nansen (direttore del museo di Bergen) che nel 1888 in 39 giorni raggiunse la Groenlandia, la attraversò interamente e raggiunse la baia di Baffin (America). La teoria di Luther e di Nansen è avvalorata dal rinvenimento di questi attrezzi (sci e racchette) nelle tribù athabasca del Canadà che hanno una straordinaria somiglianza a quelle in uso nelle popolazioni arcaiche in Islanda, in Finlandia, in Lapponia ed infine dopo aver fatto mezzo giro del mondo rinvenute proprio nel nord-est asiatico in Manciuria e nella punta estrema della Siberia.Una saga norvegese narra che il paese venne occupato circa 8000 anni fa da un popolo di sciatori venuti dal nord-est. Mentre una cronaca della Cina Manciù, nella regione di Mukden (nello Shen-Yang)  narra l'incontro di un gruppo di cacciatori con delle assicelle di legno con la punta ricurva fissate ai piedi con dei lacciuoli, che scivolavano velocissimi sulla neve aiutandosi con due bastoncini. Luther ha pure scoperto nell'arcaico alfabeto cinese un ideogramma che significa e indica un preciso attrezzo: la "tavoletta per scivolare". Veri specialisti degli sci (dato l'ambiente) furono però i Lapponi; circa 2000 anni fa calzavano uno sci lungo e sottile, quasi come quello attuale nel piede destro, mentre nel sinistro ne calzavano un altro più corto con sotto una pelle di foca, usato per appoggiarsi e darsi la spinta.  Questo particolare mezzo di locomozione era ancora in uso in Lapponia fino all'inizio del nostro secolo. Una cronaca Norvegese ancora del 1200 narra che in una famosa battaglia (quella di Isen) i soldati calzarono gli sci. Ma é tre secoli dopo che in Svezia inizia la vera leggenda dello sci. Re Gustavo I di Vasa, convinto di aver perso la guerra contro i Danesi fuggì verso la Norvegia, mentre i suoi sudditi ritornati alla riscossa avevano ripreso in mano la situazione nel paese. Due di loro per dargli la bella notizia e farlo tornare indietro, per raggiungerlo percorsero senza mai fermarsi 89 chilometri. (In memoria della leggendaria "galoppata" nel 1923 é stata istituita la famosa Vasa-loppet).Il primo manuale-trattato di sci che si conosca (come si fabbricano e come si usano; insegnandolo perfino con delle illustrazioni) è quello di un vescovo svedese Olaus Magnus, che però rientrando in Italia dai Paesi nordici pubblica il volume a Roma nel 1555. Quel trattato rimase nell'Urbe una bizzarria e nulla più.Una prima mostra di sci lapponi si svolse in una Fiera Commerciale nel 1636 a Worms, ma anche qui molti dei visitatori presero quelle assicelle come una stramberia degli uomini delle nevi, attrezzi adatti ai primitivi del nord. Nelle valli alpine italiane gli sci invece arrivarono con moltissimo ritardo, ma non in una zona molto limitata della Carnia per una singolare circostanza: nella Guerra dei trentanni partecipò un gruppo di soldati scandinavi, che alla pace di Westfalia del 1648 rimasero in Carnia (Cortina e dintorni) trapiantandovi così questo costume che non fece molta presa sui nativi, anche perchè grandi distese di terreno piano innevato come nei paesi nordici non ce ne sono, ci sono valli e montagne; i valligiani indigeni alla prima discesa ruzzolavano, e sappiamo tutti, quanto bisogna insistere senza scoraggiarsi per stare in piedi con gli sci. I montanari rinunciarono subito a imparare pensando che quelli erano "diavoli", già nati con gli sci ai piedi, quindi inutile insistere a volerli imitare. Anche se col tempo i "Cortinesi" diventarono poi dei grandi campioni. Il resto d'Italia dovrà aspettare più di due secoli, e per merito di un altro "diavolo", "el diau". L'ing. Adolf Kind (Coira 1848 - Bernina 1907) Svizzero, di antica origine Walser, arrivò a Torino nel 1890. Vi aprì una fabbrica di lucignoli incurante della diffusione delle lampadine alimentate dalle centrali idroelettriche che Giovanni Giolitti disseminava in tutto il Piemonte.Ma Adolf Kind ci interessa per la sua intraprendenza, non tanto industriale quanto sportiva. Di ritorno da uno dei suoi viaggi, un giorno del 1897, portò infatti con sé dalla Svizzera (qui esistevano  artigiani che già firmavano i propri sci) ) un paio di ski di frassino marca JAKOBER , il cui uso Kind illustrò nel salotto di casa agli sbigottiti amici, poi cominciò a portarli a Bardonecchia, e lui che era già partico esibendosi con grande abilità nei pendii insegnò loro i primi rudimenti. Facciamo notare che aveva già 50 anni! Si dice che i montanari che per primi videro quell'uomo scendere leggero dai pendii, skivolando sulla neve, rosso in viso e con una fluente barba bianca, scapparono gridando spaventati: "el diau, el diau". Un buon diavolo però, la cui passione per la montagna fece nascere in breve tempo vari Ski Club in Italia



Nell’Europa del secondo dopoguerra, crollata la tirannia nazifascista, l’unico principio è: rinascere. La ricostruzione ed il rilancio economico del vecchio Continente, raso al suolo dai bombardamenti, sono sostenuti dalla cultura, dall’arte, dalla moda, dal design, dalla tecnologia e dalla scienza; questi e altri fattori contribuiscono a formare la nuova mentalità dell’uomo europeo, dei sopravvissuti ancora in crisi di coscienza per il trauma subito. Dopo l’espressionismo astratto americano, l’informale europeo è il nuovo linguaggio artistico in opposizione al realismo più o meno “socialista”. L’informale, nel periodo della ricostruzione, riflette un momento di transizione e di profonda crisi e critica alla civiltà contemporanea, rispondendo anche alle necessità evolutive di una pittura figurativa che ormai ha fatto il suo tempo, puntando sul gesto pittorico, sullo spazio e sui materiali industriali. Nel 1947 dall’America, con gli aiuti finanziari del piano Marshall, arriva il “dripping”(il termine significa “gocciolare” o “sgocciolare”): una tecnica rivoluzionaria caratterizzata dal gesto di lasciare cadere il colore acrilico sulla tela (“action painting”) elaborata da Jackson Pollock (1912-1956), anche se già anticipata dal surrealista Max Ernst e Hans Hoffmann. E’ evidente che la scrittura automatica dei surrealisti, il dripping americano e la pittura informale europea, nomadica e soggettivista, sono accomunati dalla dissoluzione della figura e dalla tensione d’infrangere gli schemi figurativi, geometrici, prospettici delle composizioni tradizionali, enfatizzando l’esplosione segnica, all’insegna di un neo-espressionismo materico-cromatico o spazialista, originale anche per stridenti contrasti cromatici e per le stratificazioni di colore, dagli esiti suggestivi per gli effetti tattili autoreferenziali. Dal 1951, Michel Tapié definisce informale (dal francese “informel”) questo nuovo linguaggio non figurativo, liberatorio, spontaneo e casuale che sviluppa tracce, segni ed esplosioni di colore come espressioni di stadi emotivi, di pulsioni secondo la soggettività dell’autore. La pittura informale non corrisponde a un modello unitario prestabilito, ma segue le potenzialità espressive dell’artista sempre più distaccato dalla realtà, deluso da una civiltà che ha prodotto guerre incomprensibili. In Francia, tra i protagonisti dell’informale più originali, si distingue Jean Fautrier (1898-1964), che già dagli anni Trenta aveva anticipato un linguaggio di tipo - appunto - informale, elaborato con la drammatica serie degli “Otages” (Ostaggi). Si deduce che i suoi ostaggi sono le vittime del nazismo, dipinti tra il 1943-1945: impronte indelebili nella memoria collettiva di uno sterminio di massa avvenuto nel silenzio. Queste opere sono esempi originalissimi di un “materismo” pittorico che ha spianato la strada a informalismi successivi, fino agli aniconici contemporanei. In generale, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i linguaggi informali sostenuti da ideologie anarchiche e individualiste si diffondono rapidamente in Europa come negli Stati Uniti. Tra i primi ad aprire nuove vie espressive è Lucio Fontana (1899-1968), con cinque manifesti “spazialisti”: manifesti teorici in riferimento all’era spaziale che all’epoca sta dischiudendo orizzonti ermeneutici rivoluzionari. A Milano Fontana fonda il “movimento spaziale”, unendo i percorsi di scienza e di arte e sviluppando un linguaggio gestuale e sperimentale basato su una spazialità tridimensionale riformulata in termini fisici. Da questi ed altri fatti si evince che nel dopoguerra è molto difficile parlare di gruppi unitari riconoscibili; anche la pratica del manifesto è sostituita dalle riviste fondate da intellettuali e artisti sperimentali. Con lo sbarco degli alleati nella vecchia Europa, si affermano nuovi modelli di vita e linguaggi rivoluzionari, che si consolideranno negli anni Sessanta (pop art e arte concettuale). Tornando all’informale europeo, si ricordano per originalità Wols, Soulanges, Mathieu, De Stael, Hartung, Jorn, Appel, Burri, Vedova, Crippa, Dova, Peverelli, Borlotti, Birolli, Chighine, Leoncillo: ognuno di loro presenta diversi codici e morfologie visive differenziate da immaginari e linguaggi sensibili ed evocativi, mai accademici. Alcuni artisti “informali” si rivelano più gestuali o materici, più vicini a Pollock o Sam Francis, mentre altri seguono una via più lirica ed emozionale, basata su tracce di figurazioni non definite, come per esempio fanno i sostenitori dell’“art brut”, teorizzata da Jean Dubuffet. In questo clima post-atomico di prevaricazione di segni, gesti, colature e macchie di colore, alla ricerca di nuova espressività, fioriscono diverse tendenze informali che si realizzano anche nella contrapposizione di materiali. In Giappone, grazie all’attività degli artisti Gutai, si sviluppano linguaggi originalissimi che puntano sul gesto e sul colore e danno il via a performance innovative, anticipando gli happening degli anni Sessanta. A Parigi, dal 1948 nasce dalle file del surrealismo olandese, danese e belga il movimento COBRA (da COpenaghen, BRuxelles, Amsterdam), caratterizzato da un linguaggio sperimentale e dall’atteggiamento nomadico degli artisti, sempre in movimento da una città all’altra d’Europa, più vicini alla tradizioni popolari, etniche, primitive e in contrapposizione ai linguaggi astrattisti, geometrici o formalisti, e con molti punti in comune all’art brut. Le ricerche del gruppo si esauriscono nel 1951, ma resta il loro linguaggio caratterizzato da una pittura con pennellate incisive, violente, spesse, contro la tecnologia e il progresso. Negli anni Sessanta la poetica gestuale ed emotiva dell’informale entra in crisi, anche se oggi l’aniconismo, o la non figurazione, che dir si voglia, continua ad essere praticato da molti artisti che esordirono negli anni Cinquanta e da altri più giovani, senza alcun riferimento al movimento storico descritto in questo articolo. Nel presente gli aniconici propongono linguaggi puramente emozionali; sono di cultura internazionale e seguono vie autonome, liriche e soggettive. E’ il caso ad esempio di Iachetti, Raciti, Olivieri, Monrad, Pierfranceschi, Coda Zabetta, Frangi, Spampinato, Spadari, fino al gruppo “Alterazioni Video”: sette giovanissimi artisti che utilizzando la tecnologia traducono i suoni e i fotoni della luce in esplosioni e vibrazioni cromatiche suggestive, oniriche e destabilizzanti allo stesso tempo. Autore: Jacqueline Ceresoli

martedì 8 settembre 2009

INCONSCIO: Considerazioni di Sigmund Freud

A CURA DI DANILO PICCHIOTTI
Con il termine inconscio Freud intendeva un complesso di processi, contenuti ed impulsi che non affiorano alla coscienza del soggetto e non sono quindi controllabili razionalmente. Egli riferì il termine dapprima ad una parte della mente in cui si trovano i contenuti psichici rimossi, per poi passare ad indicare i contenuti stessi che possono riaffiorare nei sogni in forma simbolica, o manifestarsi come atti mancati, come i lapsus e le distrazioni. In sintesi nella nostra psiche esiste una dimensione incoscia e irrazionale, in cui si annidano una serie di istinti e desideri il cui contenuto non si manifesta a livello cosciente, ma la cui soddisfazione è necessaria, pena il manifestarsi di disturbi del comportamento più o meno gravi. Il fatto che ritenesse i contenuti inconsci per lo più di natura sessuale va collegato alla morale dell'epoca e delle precedenti, e particolarmente alla repressione della sessualità, essendo oggi dimostrata la validità dell'intuizione generale: l'inconscio è sede di ogni processo psichico che debba restare inaccessibile al pensiero cosciente e comprende una parte di quelli attinenti alla sfera sessuale.
L'interiorità umana, quella che tradizionalmente era definita anima o psiche ed era ritenuta indistintamente la sede della razionalità, della volontà e delle emozioni, venne perciò indagata come un complesso di luoghi diversi, ciascuno dotato di una sua forza e di una sua autonomia. Era così possibile conoscere particolari aspetti della personalità soltanto percorrendo vie molto tortuose. Poteva essere quindi necessario analizzare i sogni dei pazienti o le loro manifestazioni di ansia, oppure prestare attenzione ad alcuni gesti quotidiani, od a espressioni e modi di dire apparentemente insignificanti. L'inconscio in sostanza era una ragione, che trascendeva quella dell'Io, e che comunicava attraverso le sintomatologie la verità non consapevole. L'ottimismo terapeutico di Sigmund Freud fece dell'inconscio un luogo dotato di senso, che richiedeva un'ermeneutica, una capacità interpretativa specifica.
Più avanti, Sigmund Freud nell'illustrare il nuovo statuto dell'Io, introdusse la nuova istanza dell'Es, che descrisse riportando le parole di Georg Groddeck come "la forza ignota e incontrollabile da cui veniamo vissuti". Al di là della collocazione topica delle nuove istanze, il padre della psicoanalisi invitò a non considerarle quali entità separate, mettendo in guardia dal sostanzializzarle. Su queste considerazioni psicoanalisti post-freudiani si basarono per ipotizzare la possibilità di un'ereditarietà stessa dell'Es. Benché Sigmund Freud non abbia potuto scrivere nulla di assoluto in merito, è bene comunque ricordare che nelle frammentarie annotazioni che questi prese nell'estate del ’38, quindi poco prima di morire, contenute sulle due facciate di un foglio considerato il suo testamento programmatico, scrisse di possibili mutamenti sull'ipotetica vestigia ereditaria dell'inconscio, e ciò indicherebbe la mancanza di uno statuto d'attinenza definitiva della psicoanalisi.
Freud riteneva che il sogno fosse una manifestazione psichica, onirica, mirata alla realizzazione di un desiderio pulsionale non realizzato nella realtà, che attingeva i propri contenuti latenti dall'inconscio. I lapsus, le forme d'amnesia momentanea ed i falsi ricordi non sono casuali. Con la "strutturazione" Sigmund Freud ci indica che la psiche è strutturata in: Io - Es - Super-io. L'Es rappresenta l'istinto, la pulsione, completamente mutuate dall'inconscio. Il Super-Io è il "precipitato" degli insegnamenti morali, sociali ed educativi, ed esita tra contenuti consci e inconsci. L'Io è il mediatore tra l'Es ed il Superio (tra istanze pulsionali e morali).
Inconscio collettivo.
Carl Gustav Jung ha fortemente contribuito a fare chiarezza sul concetto e sulle definizioni del termine inconscio. Nei suoi studi ha distinto l'inconscio personale dall'inconscio collettivo. Con questo termine egli indica l'insieme dei contenuti psichici universali preesistenti all'individuo e legati al complessivo patrimonio della civiltà, e, propriamente, gli archetipi.
L'inconscio collettivo, secondo lo psicologo svizzero, si manifesta attraverso archetipi che trovano il loro riferimento nel patrimonio storico-culturale di un vasto gruppo o dell'intera umanità e si presentano nei simboli onirici e nelle allucinazioni, ma anche nelle visioni dei mistici, nei riti religiosi e nelle opere d'arte. La scoperta dell'inconscio e le elaborazioni della psicoanalisi hanno avuto, dopo una prima forte resistenza, un grande impatto sulla nostra civiltà: non a caso il sostantivo inconscio è diventato parte del vocabolario comune, superando i limiti della terminologia tecnica della medicina.
Non possono essere poi dimenticate le intuizioni pre-psicoanalitiche di Friedrich Nietzsche che, in seguito, avrebbero destato un certo interesse in ambienti psicoanalitici e che ebbero notevole influenza, in particolare, sul pensiero di Jung. Nietzsche riconosce nelle norme morali una funzione di censura degli impulsi e degli istinti vitali dell’uomo, di cui inibiscono la libera espressione. Chiama questa funzione inibitrice, con suggestiva espressione: “Spirito di gravità”. In tal modo – secondo il filosofo tedesco – l’uomo diviene inconsapevole di ciò che realmente è e gli viene preclusa una piena integrazione della personalità. In molti passi della più celebre opera nietzschiana “Così parlò Zarathustra” vi è un chiaro riferimento a forze inconsce che nell’uomo reclamano espressione:
“Tutto ciò che uno possiede è per lui che lo possiede ben nascosto: e di tutte le miniere preziose la propria è l’ultima ad essere scavata – ed è opera dello spirito di gravità. Siamo ancora nella culla e già ci danno parole e valori pesanti: «bene» e «male» - così si chiama questo viatico”. “Soprattutto l’uomo forte, paziente, che ha in sé reverenza: troppe parole e valori estranei carica su di sé – così la vita gli appare un deserto!” “Molta bontà e forza nascoste non vengono scorte; i più saporiti bocconi non trovano buongustai!” (“Così parlò Zarathustra”,

Arte: ARTE E PSICOANALISI-IL SURREALISMO

A CURA DI DANILO PICCHIOTTI

Dopo il 1920, cioè dopo la prima guerra mondiale, in Europa, si manifestò, in concomitanza con la diffusione della psicoanalisi di Freud, un movimento artistico che si chiamò SURREALISMO, da sur-realtà, realtà ‘altra’, sovrastante o sottostante, ma comunque a un livello diverso rispetto alla coscienza.
Freud e Jung avevano ipotizzato una nuova categoria cognitiva: l’inconscio, ovvero la parte ignota di ognuno, il luogo misterioso della psiche che preordina e suscita il comportamento non cosciente, la realtà non immediatamente visibile o livello più profondo dell’essere.

Partendo dalle associazioni automatiche che Freud aveva usato in analisi per interpretare i sogni, si cercò di liberare l’inconscio attraverso l’automatismo nell’arte. I surrealisti tentavano di contattare l’inconscio e di farlo esprimere direttamente, senza l’intermediazione delle categorie culturali, estetiche, sociali, morali convenzionali. Si voleva che l’inconscio si rendesse visibile realizzando la sua trascrizione immediata. Così si alterarono i canoni stessi della produzione artistica o le sue condizioni, componendo o dipingendo ciò che era emerso nel sogno o ciò che poteva affiorare in stato ipnotico, automatico, di trance o comunque in stato alterato di coscienza, escludendo qualunque forma logica, grammaticale, metrica o procedurale consueta, ma anzi forzando il mezzo stesso con procedimenti casuali e innovativi e con l’accettazione di contenuti nuovi e rivoluzionari.
L’inconscio doveva parlare direttamente col suo linguaggio, il suo codice simbolico, le sue associazioni, le analogie, le correlazioni… Sul tavolo della visione potevano stare insieme, come diceva Comte de Lautreamont, come su un tavolo operatorio, una macchina da cucire e un ombrello.
Gli interni metafisici di de Chirico precedettero il surrealismo senza farne parte ma contribuendo alla sua atmosfera sognante.
L’inconscio è, per eccellenza, la sorgente delle visione, in obbedienza a un principio non di realtà, cioè asservito alla logica consueta, ma di surrealtà, cioè volto all’evocazione di un significato ‘altro’. Il significato è l’allargamento del quadro della realtà ordinaria attraverso lo spaesamento che spezza le barriere claustrofobiche dell'io.
L’inconscio è l’altro linguaggio, l’altra realtà, dove questo mondo contingente e visibile si deforma o si congiunge in modi estranianti o anche vale solo in quanto simbolo. La realtà visibile diventa indicatore di una realtà invisibile. Vivo qui, ma sono altrove. Mi esprimo a questo livello ma attraverso me parla un altro livello.
Più tardi, con l’astrattismo e l’arte informale, la figurazione sarà totalmente abbandonata per il colore puro o il segno non più portatore di oggettualità ma di energia, allora i guizzi primari del dinamismo esploderanno come i colori di Mirò o l’astrattismo di Kandinskij ed ecco che inconscio, psicoanalisi e surrealismo detteranno l’evoluzione dell’arte moderna. Ma di per sé il surrealismo non è espressionista, né astratto né informale, parte ancora dalle figure riconoscibili della realtà visibile, ma estraniandole in un diverso contesto, deformandole o usandole in modo simbolico.
Dall’inconscio si trae uno dei suoi prodotti primari: il sogno. Molti quadri o poesie sono composti come tracce di sogno o come si facessero sognando. La mente umana ha questa capacità di agire l’emisfero destro o dell’intuizione, come se dormisse da sveglia. E’ lo stesso modo di attivare la magia o il paranormale.
Ogni artista sognò a suo modo: Chagall usò potentemente un simbolismo onirico sacro; Magritte accostamenti giocosi, ludici; Ernst incubi distorsivi. Ma tutti pescarono contenuti e forme dal sogno.
Un altro punto di connessione fra gli artisti fu il marxismo. Quasi tutti i surrealisti vi aderirono. L’obiettivo politico era simile a quello artistico: cambiare la coscienza (psicoanalisi) e cambiare la società (lotta politica), per questo molti surrealisti si iscrissero alla Terza Internazionale Socialista e per questo la loro rivista fu titolata ‘Il surrealismo al servizio della rivoluzione’. In ambedue i casi (politica o arte) il loro lavoro era contro la società borghese che controllava le leve del potere economico, politico e culturale (non Dali’ che fu un reazionario).
L’inconscio è la struttura base della psiche, così come l’economia è la struttura base della società. Freud rompeva i tabù della morale vittoriana e faceva risorgere l’io dai suoi condizionamenti, portando alla luce i contenuti rimossi, così come Marx rompeva i tabù della società borghese e portava avanti la lotta della classi represse. Il periodo storico era quello della rivoluzione marxista, della riappropriazione del proprio potenziale, di classe come della psiche. Surrealisti e marxisti erano spinti dallo stesso anelito di liberazione da sovrastrutture alienanti.
Ovviamente all’interno del movimento artistico si distinsero componenti più ideologizzate e altre, come Eluard, più morbide. Potremmo anche dire che arte e ideologia non si legano bene. Ogni volta che l’ideologia ha prevalso sull’arte, come nell’estetica sovietica, nazista o fascista, i risultati sono stati deprimenti.
L’arte è per antonomasia libertà; l’ideologia è, per sua natura, conformazione.
Ma anche guardando al riferimento psicoanalitico, è chiaro che la preferenza per Freud o per Jung dette luogo a estetiche diverse. Non ha importanza che l’artista li conosca o no, è il modo con cui si riferisce al proprio inconscio che crea mondi diversi. Non a caso il programmatico e lineare Freud è sempre piaciuto ai razionalisti, siano essi marxisti o positivisti in genere; in questo caso si parla si sogno, di inconscio, di associazioni automatiche e di simbolo con accezioni molto ristrette e quasi meccaniche. Chi invece vive le complessità oniriche e coscienziali al modo di Jung (sia che conosca o meno lo psichiatra svizzero), vive il proprio inconscio e lo manifesta con una ricchezza di simboli e di tonalità molto diversa. E’ proprio una questione di prevalenza dell’uno o dell’altro emisfero cerebrale a creare una differenza di vissuto e di interpretazione.
Freud è materialista, Jung spiritualista. Quindi dove c’è materialismo troviamo Freud; dove c’è spiritualismo troviamo Jung. Non sono comparabili, come non sono comparabili i termini ‘inconscio’, ‘sogno’, ‘simbolo’ ecc. nelle loro accezioni. Per esempio un poeta come Eluard può anche dichiararsi marxista ma la sua sensibilità di tipo emozionale, sentimentale, femminile lo porta più verso Jung. Tuttavia anche per il dolce Eluard l’estetica surrealista rientrava nell’attacco alla ipocrisia borghese, perché ciò stava nel DNA della gioventù del tempo.
Ma Eluard era un sentimentale e dunque visse la rivoluzione come visse l’amore, con sentimento.
Ricordiamo anche che in questo periodo gli artisti europei cominciano a interessarsi delle creazioni dei bambini, dei malati di mente, dei primitivi, tutti più vicini all’inconscio dell’uomo civilizzato, dunque capaci di manifestarlo con maggiore immediatezza, senza le sovrastrutture alienanti della civilizzazione. Masson, per esempio, produsse dipinti sulla sabbia, dopo aver visto l’arte degli Indiani d’America e tentò di evocare i poteri magici delle ruote di medicina. I primitivi affascinarono Picasso come molti altri per l’elemento magico e la valenze misteriche dei loro prodotti artistici.
L’oggetto prevalente nei surrealisti fu il sogno. Il sogno non promana dall’emisfero razionale ma ha un proprio linguaggio evocativo che non è logico ma analogico, svincolato dalla normale concatenazione degli eventi o degli oggetti e tale da escludere anche le costrizioni lineari del tempo o le univocità dello spazio. Il sogno usa ampiamente il simbolo e la metafora. E’ un linguaggio visionario, nel doppio significato di parlare per immagini e di varcare le coordinate ordinarie della realtà.
Proprio perché è un linguaggio visionario e analogico, lega gli elementi della realtà così da trascenderla e fare di essi solo degli indicatori di qualcosa che sta oltre.
Il teorico del surrealismo fu nel ’21 lo scrittore André Breton, che produsse il Manifesto, partendo dalla ‘Interpretazione dei sogni’ di Freud. Breton parla di “automatismo psichico puro!”, che libera la mente dai freni inibitori e lascia vagare le immagini. Così facendo, si può sognare da svegli. Ma il surrealismo diventa l’equivalente, in arte, delle visualizzazioni junghiane più che delle meccaniche interpretazioni freudiane.
Fecero parte del movimento Marx Ernst, Juan Mirò, René Magritte, Salvator Dalì…
Invece De Chirico coi suoi interni metafisici, che può essere considerato una delle fonti, non ne fu protagonista. La poetica surrealista coinvolse inoltre Picasso e Klee. Il gruppo non fu affatto omogeneo né per personalità o stili o metodi.
Si inventarono tecniche: collage; frottage (Ernst), che consiste nello strofinare una matita su un foglio sovrapposto a una superficie ruvida, ottenendo impronte casuali; grattage in cui si raschiano i pigmenti dalla tela ottenendo linee intricate; decalcomania che consente di trasportare un disegno da un foglio opportunamente trattato su una superficie di vetro o metallo (Oskar Domiguez); pittura automatica (Masson, Mirò, Tanguy); quadri di sabbia (Masson); rayografia (Man Ray), applicando sul materiale fotosensibile in camera oscura delle mascherature opache o translucide, addirittura a volte degli oggetti, ottenendo immagini negative, senza l'ausilio della fotocamera; fumage (Wolfgang Paalen); fotomontaggi; doppia immagine, per cui disegnando un oggetto ne esce uno diverso; composizione tipografica ecc.. Hans Arp per esempio produce collage di spaghi cuciti, carte strappate, legni affastellati ecc.
Il surrealismo aprì all’astrattismo ma non fu astratto, conservò le forme, le figure, come il sogno conserva gli elementi figurativi della realtà, estrapolandole, facendole uscire dal contesto, combinandole in modi estranianti, per cui un oggetto poteva subire una metamorfosi, come la donna-albero di Delvaux o il corpo-paesaggio di Magritte. La metamorfosi squilibrava il senso usuale dell’oggetto trasponendolo nel simbolo attraverso l’evocazione di un altro senso, un altro ordine.
Il surrealismo annovera artisti molto diversi. Volendo, possiamo distinguere chi crea accostamenti inusuali come Magritte con effetto di non sense, o chi deforma gli oggetti come Ernst con le sue figure incubo o Tanguy con i suoi esserini lunari o Masson con le sue tele metamorfiche. Le parole o le immagini potevano avvicinarsi o sostituirsi per legge associativa (Freud) o simbolica (Jung); per esempio l’uso che dei simboli fa Chagall è prettamente junghiano: il viso delle persone amate è dipinto col verde che rappresenta il cuore saggio, il violinista sul tetto è l’arte vicina al cielo, le corna di toro sono l’elemento istintuale legato alla terra, il blu è l’amore spirituale ecc. Magritte crea accostamenti scherzosi per mettere il scacco la mente razionale; Dalì immagini rutilanti; Ernst incubi patologici… Tutte le forme del sogno sono attraversate, da quello bizzarro a quello giocoso, all’angosciato, all’infernale…
I surrealisti rifiutano l’arte per l’arte, intendono l’arte come espressione dell’inconscio. Per questo le loro vie risultano produttive in psicoanalisi, nei laboratori psicologici che nascono da Jung in poi e usano forme espressive in cui non si dà alcuna valutazione estetica all’opera o alcun controllo logico o formale o morale o di altro tipo convenzionale, ma solo si ascolta e si guarda e si partecipa. Lo scopo è manifestare gli stati psichici e, attraverso l’arte, liberarli e sanarli. Da un articolo di viviana vivarelli

mercoledì 5 agosto 2009

"HERMANN HESSE" BIOGRAFIA

  A CURA DI D. PICCHIOTTI
La vita e l'opera di Hermann Hesse sono segnate sin dagli inizi dal contrasto fra tradizione famigliare e influenze dell'ambiente esterno. "Il 2 luglio 1877, un lunedì, al termine di una difficile giornata" annota la madre sul proprio diario "Dio nella sua grazia ci ha donato il bambino ardentemente desiderato, il nostro Hermann, bello e possente, che subito dopo il parto aveva fame e volgeva gli occhi chiari e azzurri e la testa verso la luce; un esemplare di bambino sano e robusto" (A.G., p. 195). La madre, Maria Gundert Hesse, vedova Isenberg, era nata nel 1842 a Talatscheri (India anteriore). Aveva trascorso l'infanzia in India. Aveva frequentato quindi l'istituto femminile a Korntal, dove i suoi interessi letterari non erano stati assecondati, al punto che in seguito, nonostante la sua abilità stilistica e la sua ricca fantasia, essi trovarono espressione soltanto in liriche d'ispirazione cristiana sul modello dei canti liturgici, trascritte sui diari di viaggio o contenute nelle lettere ad amici e persone vicine.
Curò per i lettori tedeschi la biografia in inglese di C.E. Dawson (1881), e così pure David Livingstone. L'amico dell'Africa (seconda edizione 1899). Dopo un anno di lavoro come donna di servizio a Corcelles, dove aveva imparato anche il francese (conosceva altre cinque lingue), la piccola Maria Gundert ritorna in India e fa esperienza, grazie alla confidenza con il missionario Hebich, di un cambiamento radicale avvenuto nella propria esistenza: decide di "dedicarsi, d'ora in avanti, alla realizzazione del regno di Dio sulla terra". A questa scelta è legato anche il matrimonio. Nel 1865 sposa il missionario Charles Isenberg (1840-70), originario di Londra, con il quale lavora presso la missione di Heiderebad. Deve però tornare improvvisamente in Europa, dove Isenberg muore. Da questo matrimonio nascono i due fratellastri di Hermann Hesse: Theodor e Karl Isenberg.
Quattro anni dopo la morte del primo marito Maria Gundert sposa Johannes Hesse, il padre di Hermann. Lo aveva conosciuto nella propria casa paterna a Calw, città natale di Hermann Hesse, il secondogenito di questo matrimonio. Johannes Hesse, un individuo erudito dalla personalità spiritualmente ricca, dall'aspetto ascetico e dal corrispondente stile di vita, era nato nel 1847 a Weissenstein (Estonia), quinto figlio del medico Carl Hermann Hesse e di Jenny Lass. Nel 1865 Johannes Hesse aveva inoltrato domanda per l'inserimento nell'istituzione missionaria di Basilea, poiché aspirava a una "comunità corporativa" nella quale "si stemperasse quella consapevolezza del proprio sé", che proprio il figlio cercò invece costantemente di perseguire. Dopo aver conseguito gli ordini a Heilbronn, Johannes Hesse si recò nel 1869 in India, diventò insegnante di lingua presso il seminario di Mangalore e si applicò allo studio della lingua canarese. Per ragioni di salute è costretto a rientrare in Europa e dal 1873, come aiutante del suocero, è responsabile all'interno della casa editrice per la conduzione della rivista missionaria. Dal 1881 al 1886 espletò l'incarico di insegnante di storia dell'evangelizzazione presso la scuola missionaria a Basilea, dove il giovane Hermann insieme al fratello e a due sorelle (due neonati erano morti immediatamente dopo il parto) trascorse l'infanzia. La famiglia ritorna quindi definitivamente a Calw. Qui il padre svolge la sua complessa attività missionaria e pubblicistica e dirige, dal 1893 al 1905, come successore di Hermann Gundert, la casa editrice. Morì nel 1916 a Korntal, la moglie nel 1902 a Calw.
Il figlio Hermann porta i nomi di entrambi i nonni. Pur non avendo conosciuto personalmente il nonno paterno (1802-96) cercò tuttavia di risvegliare i legami di sangue con l'Est (l'Estonia apparteneva dal 1721 alla Russia) attraverso un interesse coltivato nel corso della sua esistenza per la politica e la letteratura di quel paese. Carl Hermann Hesse, in qualità di medico dello stato russo, rimase da parte sua indifferente al pensiero positivistico-materialistico dominante a quel tempo. Organizzò regolarmente nella propria casa letture bibliche, nel 1833 fondò un orfanotrofio ed esercitò la propria attività fedelmente fino alla morte, rivelando un'etica professionale oggi difficilmente riscontrabile fra i medici.
Con Hermann Gundert, il nonno materno (1814-93), il giovane Hesse ebbe probabilmente a Calw contatti più assidui. Era nato a Stoccarda e aveva frequentato il seminario di Maulbronn. Fornito di un talento poliedrico scrisse drammi (fra cui Pietro il Grande) e poesie, studiò teologia a Tubinga come seguace di David Friedrich Strauss conseguendo la laurea in filosofia. In seguito si allontanò radicalmente dal maestro, la cui opera fondamentale, Vita di Gesù, criticamente considerata, era apparsa nel 1835, e si oppose con numerose pubblicazioni e articoli nella sua rivista "Il foglio missionario cristiano" alle tendenze razionalistiche della teologia contemporanea. Tuttavia, indipendentemente dal nipote poeta, egli si fece un nome grazie al lavoro missionario svolto in India, nonché come linguista, studioso di sanscrito, indologo, lessicografo e traduttore.
Conosceva il tedesco, l'inglese, il francese e l'italiano e predicava correntemente in hindustàni, malese e bengàli. Allo stesso modo conosceva kannada, telugu e tàmil e disponeva di conoscenze relative a una dozzina di lingue e dialetti. "Egli non solo parlava sanscrito insieme ai bramini indiani" scrive Hesse nel 1960 al cugino Wilhelm Gundert, rinomato studioso della lingua giapponese, "ma conseguì anche un'intima e innamorata confidenza con il mondo variegato delle lingue indogermaniche, che gli si rivelò non solo nella grammatica e nel vocabolario ma anche nella sua pelle, nella sua attrattiva, nella sua musicalità" (B IV, p. 384). Fra le opere principali di Hermann Gundert sono da citare la grammatica malese e il dizionario indiano-inglese-malese, che apparve dopo venticinque anni di lavoro nel 1872 e che è rimasto un'opera fondamentale sino a oggi. Mentre in India, e in particolare a Kerala, già da tempo era conosciuto per il suo talento, in Germania soltanto oggi si acquista coscienza dell'importanza di questo linguista, indipendentemente dal suo legame di parentela con Hermann Hesse. Grazie a un paziente lavoro l'indologo e teologo Albrecht Frenz ha esemplarmente curato gli scritti postumi di Hermann Gundert: il Diario di Malabar 1837-59, scritti e resoconti da Malabar e il Diario di Calw 1859-93, pubblicandoli fra il 1983 e il 1986 presso l'editore Steinkopf di Stoccarda.
Questi scritti offrono, agli esperti come ai profani, uno sguardo d'insieme sulla vita e sul metodo di lavoro di questa personalità del diciannovesimo secolo, che varcò confini di nazioni e religioni.
Hermann Gundert, nonostante la sua rigida devozione e il suo senso dell'obbedienza e dell'autorità, era uomo sensibile e di spirito, disposizioni che in lui si accompagnavano a una geniale vivacità giovanile e a una giocosa fantasia, a un profondo amore per la musica e a un umorismo creativo - caratteristiche, queste, ereditate in forma lievemente diversa anche da Hermann Hesse. Julie Dubois Gundert (1809-85), la nonna materna, nacque da una famiglia di viticoltori nei pressi di Neuchâtel. Con lei entrò nella famiglia un elemento svizzero-francese, che in Hesse si manifestò nella sua attrazione verso l'Europa occidentale e nell'interesse per la lingua e la letteratura francese, che si rifletté nel suo carteggio amichevole con Romain Rolland e André Gide. Julie Gundert era una rigida calvinista, anche lei impegnata in India come missionaria, dove periodicamente si occupava dell'"Istituto femminile" fondato dal marito. Fondamento esistenziale per i genitori e, prima di loro, per i nonni di Hesse era, quindi, il cristianesimo protestante di matrice pietista. L'educazione dei figli nell'osservanza di quei principi era, soprattutto allora, un'impresa ardua ma del tutto legittima. Tale educazione venne impartita anche alle due sorelle di Hesse, Adele la maggiore (1875-1949) e Marulla la più giovane (1880-1953), le quali conseguirono quell'atteggiamento religioso, cui si affidarono nel corso dell'intera esistenza, che è oggi spesso assente nell'ambito di rapporti famigliari più tranquilli.
Falliti i tentativi di intraprendere una carriera artistica, anche i suoi fratellastri si adattarono, il più anziano Karl come farmacista e il più giovane Theodor come filologo, a una normale esistenza borghese. Soltanto Hans (1882-1935), il fratello più giovane di Hesse, che per decisione famigliare aveva intrapreso l'attività di commerciante - in contrasto con la sua disposizione artistica e malgrado la grande comprensione dimostratagli dalla famiglia - non riuscì ad affermarsi pienamente nella vita. Anche la sua appartenenza attiva alla comunità cristiana, per lui soprattutto fonte di sicurezza, non poté trattenerlo dal suicidio. Il fratello Hermann rischiò più volte di soccombere al medesimo destino. Il fatto che Hesse sia riuscito, nonostante i ripetuti conflitti interiori e in contrasto con le decisioni famigliari, ad assecondare la propria volontà, non può essere spiegato soltanto con la caparbietà e la forte consapevolezza della propria missione. Già tredicenne "una cosa gli era chiara": diventare "poeta oppure niente". La sua disobbedienza verso la tradizione famigliare appare piuttosto profondamente legata alla conseguente rottura con le norme proprie di un secolo che sta volgendo alla sua fine, un salto verso il nuovo. Le parole di Arthur Rimbaud, secondo cui il poeta "dà voce all'ignoto", nella misura in cui "esso dà segni di sé nello spirito del proprio tempo", possono ben esprimere ciò che rappresentò Hermann Hesse, l'uomo e il poeta, il quale tuttavia si distingue dai suoi contemporanei rispetto a lui più radicali e più conservatori.
Hesse appartiene alla generazione di Thomas Mann, Rilke e Hofmannsthal. Alla sua nascita, si intrecciano all'interno della storia letteraria europea e tedesca differenti correnti letterarie. Con la morte di Eduard Mörike (1875) ebbe termine l'epoca tardoromantica, particolarmente vivace sul piano letterario grazie al circolo dei poeti svevi. Erano ancora in vita tuttavia Theodor Storm e lo svizzero Gottfried Keller, entrambi esponenti del "realismo romantico". Le Novelle zurighesi di Keller apparvero nell'anno in cui nacque Hesse, come la novella di Storm Il curatore Carsten e L'assomoir di Emile Zola, romanzo cui si deve la fama dell'autore come "naturalista" e la successiva influenza esercitata nell'ambito della letteratura europea. Nel 1877 fu pubblicato anche Le colonne della società di Henrik Ibsen, un dramma che cercava di svelare la fragile morale e le menzogne della società di allora. Dostoevskij viveva ancora. Il suo romanzo I fratelli Karamazov, che Hesse rilesse più volte nel corso degli anni successivi, apparve (in versione non definitiva) nel 1880. Si è voluto vedere in Dostoevskij un precursore della psicanalisi. Indubbiamente Hesse, al pari di altri importanti letterati, subì insieme al fascino per l'opera del grande romanziere russo l'influenza del pensiero di Freud, che interpretava la "bugia vitale" (Lebenslüge) di Ibsen come "rimozione" (Verdrängung). Inoltre Hesse era particolarmente predisposto all'introspezione e all'autoanalisi in ragione dell'educazione pietista ricevuta.
Altrettanto importanti, per quanto concerne la formazione filosofica e di filosofia della storia di Hesse, furono il pensiero di Jacob Burckhardt (1818-97) e di Friedrich Nietzsche (1844-1900): in misura maggiore forse quello di Nietzsche, il quale nelle sue Considerazioni inattuali aveva condannato la vittoria della Prussia nella guerra franco-tedesca del 1870-71, definendola "un'estirpazione dello spirito tedesco a favore del regno tedesco", contrapponendosi all'opinione pubblica dominante del tempo; come fece più tardi Hesse che, durante la Prima guerra mondiale, biasimò la mentalità nazionalistica dei suoi compatrioti. Considerare una vittoria come sconfitta e al contrario i periodi di profonda umiliazione come preparatori a un rinnovamento spirituale: questo pensiero dialettico, provenga esso dalla scuola di Platone, Hegel o Marx, dei saggi cinesi o dei pensatori religiosi indiani, attraversa come filo conduttore tutti gli scritti di Hesse, nella misura in cui egli non si prefigge solo di indicare posizioni fra loro inconciliabili, ma di considerarle come diversi aspetti di un medesimo fenomeno da portare a una sintesi. Della crescente espansione delle attività economiche, successiva alla costituzione del regno tedesco, non si parlava nella famiglia Hesse, fondamentalmente impegnata nella difesa e protezione dei valori religiosi e spirituali più che di quelli materiali. Anche in merito al rapido progresso nel campo delle scienze naturali e della tecnica, verificatosi in particolare nell'ultimo ventennio di fine secolo, Hesse si espresse, allora e più tardi, in termini piuttosto scettici, senza tuttavia condannarlo esplicitamente. (Che la condanna ci sia stata, seppur indiretta, è ciò su cui ci soffermeremo in seguito).
Pur cercando di favorire sul piano culturale e sociale la composizione dei conflitti, non considerava invece in modo favorevole - in questo, fu un tipico tedesco del sud - l'unificazione del regno tedesco sotto l'egemonia della Prussia. Non provò simpatia nei confronti di Bismarck e dell'imperatore e, intenzionalmente, non si recò mai a Berlino. Il Württemberg sotto Carlo I (1864-91) aveva combattuto nel 1866 contro i prussiani ed era entrato "volontariamente costretto" nel Reich.
Circa vent'anni prima della nascita di Hesse la città di Calw contava 1483 abitanti, 1436 dei quali protestanti e 47 cattolici. La sua favorevole posizione geografica nella valle del fiume Nagold ai piedi di un "susseguirsi di colline di rara bellezza" della Foresta Nera, unitamente alla sua storia ricca di tradizioni e all'originalità degli abitanti, sono temi che ricorrono nelle poesie di Hesse. Fondata da una fra le più antiche famiglie nobili del ducato di Svevia nel dodicesimo secolo, Calw aveva già nella metà del tredicesimo un suo sistema giuridico ed era passata nel 1308 sotto la signoria dei conti di Württemberg. Le afflizioni causate dalla peste, i saccheggi e le distruzioni provocati dalle truppe imperiali nel corso della Guerra dei Trent'anni, fecero comporre a Johann Valentin Andreä (1586-1654) l'Elegia sulla città di Calw miseramente decaduta. Egli riorganizzò la chiesa del Württemberg, fu precursore del pietismo e decano nella città di Calw.
Nel XVII e XVIII secolo Calw fu centro commerciale e industriale del Württemberg e acquistò importanza sovraregionale e internazionale grazie alle attività finanziarie della cosiddetta "Calwer Compagnie": i banchieri dei duchi del Württemberg, come un tempo ad Augusta i Fugger e i Welser erano stati banchieri del Sacro Romano Impero. Si aggiungano anche una società per il commercio del legno e fabbriche tessili con concerie, che permangono sino al ventesimo secolo. Hesse definì la propria città natale "Gerbersau".1 Sia compito del lettore stabilire se egli assegnasse un significato ironico a tale appellativo, nell'aggiungere che a Calw egli stesso "era stato conciato ben bene". Tuttavia "là mi trovai a mio agio" scrisse Hesse nella Giovinezza di Peter Bastian (Peter Bastians Jugend, 1902) "poiché la gente di Calw aveva viaggiato ed era più varia e libera di quella della campagna" (PN, p. 57). Hesse era un bambino oltremodo sensibile e testardo, che creava ai genitori e agli educatori notevoli difficoltà. Già nel 1881 la madre intuì che il figlio sarebbe andato incontro a un futuro non ordinario. Nello stile di pensiero che le era consono informò il marito del proprio timore: "Prega insieme a me per il piccolo Hermann [...] Il bambino ha una vitalità e una forza di volontà così decisa e [...] un'intelligenza che sono sorprendenti per i suoi quattro anni. Che ne sarà di lui? [...] Dio deve impiegare questo senso orgoglioso, allora ne conseguirà qualcosa di nobile e proficuo, ma rabbrividisco solo al pensiero per ciò che una falsa e debole educazione potrebbe fare del piccolo Hermann" (A.G., p. 208).
Malgrado le migliori intenzioni, i metodi pedagogici dei genitori non ottennero di "addomesticare" il bambino così poco docile, pur tentando, conformemente ai principi del pietismo, di frenare già nei primi anni quell'ostinazione ribelle che gli era propria. Così Johannes Hesse decise, trovandosi con la famiglia a Basilea e non avendo altra soluzione, di lasciar educare il bambino irrequieto al di fuori della famiglia. Quando nel 1886 la famiglia si trasferì nuovamente a Calw, Hermann sembrava indubbiamente più docile. Nel 1888 entrò nel ginnasio di Calw, che frequentò controvoglia pur risultando fra i primi della classe. Nel frattempo prese lezioni private di violino, ripetizioni di latino e greco dal padre e si sottopose, da febbraio fino a luglio del 1890, sotto la guida del rettore Bauer (uno fra i pochi insegnanti che Hesse stimava) a un programma di studio finalizzato al superamento dell'esame regionale. Il futuro di Hesse appariva predeterminato. Avrebbe percorso una strada comune a molti figli di pastori in Svevia: attraverso l'esame regionale in seminario, quindi alla facoltà teologica-evangelica di Tubinga. Questa strada era stata percorsa anche da Eduard Mörike, ai tempi scolaro brillante quanto Hermann Hesse.
Le cose tuttavia dovevano andare altrimenti. Hesse supera senza difficoltà l'esame a Stoccarda e accede nel settembre del 1891 al seminario di Maulbronn.
Era un istituto di formazione in cui convivevano cultura medievale cistercense, cultura classica e pietismo svevo. Tuttavia, sei mesi più tardi, senza apparente ragione, il ragazzo fugge dall'istituto. Viene ritrovato il giorno successivo da un cacciatore e riportato al seminario. I suoi insegnanti lo trattano con comprensione e lo sottopongono a sole otto ore di carcere "per aver lasciato senza autorizzazione l'istituto". Mentre i genitori di Hermann, profondamente colpiti per il comportamento del figlio, imploravano Dio e tutti gli angeli affinché si concludesse tutto per il meglio, il nonno Gundert al ritorno del nipote a Calw definiva la sua scappatella il "viaggetto di un genio". Nel frattempo gli insegnanti cominciano a preoccuparsi seriamente del seminarista Hesse, che dal suo ritorno soffre di stati depressivi. Si sentono sollevati pertanto quando i genitori decidono di riprendere il ragazzo e di inviarlo per una "cura", in realtà "per essere liberato dal diavolo", al pastore Christoph Blumhardt. La conseguenza: un tentativo di suicidio, che sarebbe riuscito se il revolver non si fosse inceppato. Hermann viene quindi ricoverato nella clinica per malati di nervi (leggi manicomio) a Stetten.
Sebbene i genitori gli assicurino, scrivendogli, la propria comprensione promettendo al "caro Hermann" di lasciarlo studiare in un comune ginnasio "non appena darà prova per alcuni mesi di autocontrollo e obbedienza", ottengono invece il 14 settembre 1892 dal quindicenne Hesse la seguente risposta indirizzata al padre: "Gentile Signore! Poiché Lei si mostra stranamente così pronto al sacrificio, mi è concesso forse di chiederle sette marchi ovvero un revolver. Dopo che Lei mi ha indotto alla disperazione, sarà sicuramente pronto a liberare me da questa e lei da me stesso. In realtà avrei dovuto crepare già a giugno" (KJ I, p. 268). Una rinnovata minaccia di suicidio. Fortunatamente i genitori gli concedono, dopo le sue insistenti preghiere, di ritornare a Calw, dove frequenterà dal novembre 1892 sino all'ottobre 1893 il ginnasio Canstatter. Non porterà a termine comunque l'intero ciclo di studi ginnasiali. All'esperienza scolastica seguirà un brevissimo apprendistato come libraio a Esslingen: dopo appena quattro giorni Hermann abbandona la libreria; viene ritrovato dal padre in giro per le strade di Stoccarda, quindi spedito in cura dal dottor Zeller a Winnenthal. Qui trascorre alcuni mesi dedicandosi al giardinaggio, finché ottiene il permesso di tornare in famiglia.
A Calw aiuta il padre nella casa editrice e sfoglia con avidità i libri dell'immensa biblioteca del nonno Gundert. Il padre, tuttavia, si oppone nuovamente alla richiesta del figlio diciassettenne di lasciare la casa paterna per potersi quindi preparare "in libertà" all'attività letteraria. Hermann è costretto a seguire un apprendistato presso l'officina di orologi da campanile di Heinrich Perrot a Calw. In questo periodo progetta di fuggire in Brasile. Un anno dopo abbandona l'officina e incomincia nell'ottobre 1895 un apprendistato come libraio presso Heckenhauer a Tubinga, che durerà tre anni.
Questi gli avvenimenti più importanti dell'infanzia e del periodo critico dell'adolescenza di Hesse, che troviamo scrupolosamente documentati nella raccolta curata da Ninon Hesse Infanzia e adolescenza prima del nuovo secolo. Con l'apprendistato a Tubinga e il successivo trasferimento a Basilea, Hesse consegue la piena indipendenza.
Non mancheranno tuttavia in futuro crisi interiori ed esteriori, di natura esistenziale o provocate dal lavoro, così come falliranno anche i suoi tentativi di adeguarsi a un'esistenza dall'aspetto "borghese" o di condurre semplicemente un'esistenza normale. Gli eventi di quel periodo, che già appartiene alla storia, riportano Hesse da Tubinga per alcuni anni a Basilea (sempre come libraio si occuperà anche di libri d'antiquariato), quindi appena sposato (già libero scrittore) sulle rive del lago di Costanza a Gaienhofen, fino a che, al ritorno da un viaggio in India, si trasferirà definitivamente in Svizzera, prima a Berna, poi nel Canton Ticino. Nel 1924 ottiene nuovamente la cittadinanza svizzera che aveva perduto per sostenere l'esame regionale nel Württemberg. Divorzia sia dalla prima che dalla seconda moglie, entrambe svizzere. Dal primo matrimonio con Maria Bernoulli (1869-1963) nasceranno tre figli: Bruno (1905), Heiner (1909) e Martin (1911). Il secondo matrimonio con Ruth Wenger (1897), di lui più giovane di vent'anni, dura solo alcuni anni. Soltanto la sua terza moglie, Ninon Ausländer (1895-1965), divorziata Dolbin, una storica del'arte, austriaca e di origine ebraica, rimase vicina al poeta sino alla fine.
Dopo i primi successi letterari Hesse trovò una schiera di lettori sempre crescente, innanzitutto nei paesi di lingua tedesca, poi, prima della Grande guerra, negli altri paesi europei e in Giappone, e dopo l'assegnazione del Nobel per la letteratura (1946) in tutto il mondo. Quando Hesse ricevette questo prestigioso riconoscimento la prima bomba atomica era esplosa e il mondo stava dividendosi in due settori contrapposti. Tuttavia si era fatto improvvisamente silenzio intorno a Hesse "per metà leggenda, per metà ridicola figura ai giovani" (come egli stesso si presenta nella poesia del vecchio suonatore di organo), quando il 9 agosto del 1962 a Montagnola moriva in seguito a una emorragia cerebrale.