IL MUSEO SEPARA L'OPERA DAL MONDO PROFANO?
RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
«le opere non entrano nel museo immaginario ripudiando la storia, come entravano nelle collezioni opere classiche; vi mantengono con la storia un legame complesso, che talvolta si spezza, perché, se la metamorfosi anima anche la storia, non incide su questa quanto le opere d'arte»[
Ciò significa che la nostra relazione con l'arte tende sempre più a «intellettualizzarsi» poiché il Museo non implica pura e semplice contemplazione ma una ricreazione dell'universo di fronte alla creazione, un ricreare che tiene conto dei processi di metamorfosi oggettiva delle opere che ci giungono dal passato.
L'arte è un mezzo per accedere all'assoluto e, in tal senso, l'artista si esprime per creare un suo proprio universo (come dirà in seguito anche Dufrenne) e non per un'istintuale o sentimentale necessità di espressione: la creazione non nasce dall'abbandonarsi all'ispirazione ma, come già aveva affermato Valéry, dal saperla dominare.
L'influsso di Mallarmé, così evidente in Valéry, sembra dunque presente anche in Malraux: il mondo è fatto per costruire una sola grande opera d'arte che non è, in questo Caso, un «bel libro» ma il Museo, vivente espressione di quell'unitaria «vita delle forme» di cui aveva parlato Focillon. E, in comunione con quest'ultimo, per Malraux
«studiare l'arte è studiare la vita delle forme, la successione degli stili attraverso le età, stili che vengono costruiti con il concorso di numerosi fattori, fra cui lo sviluppo delle tecniche, l'interpretazione delle differenti arti, le tradizioni accettate o respinte lo spirito delle civiltà, la ripartizione geografica»
È dunque. «formalista» l'estetica di Malraux? Senz'altro se, generalizzando e semplificando, consideriamo «formalismo» qualsiasi teoria dell'arte dove sia predominante la nozione di «forma». È allora formalista come il pensiero di Focillon, Valéry, Souriau, Bayer, in parte persino Dufrenne; come Faure, Wölfflin e Fiedler.
È tuttavia proprio la diversità dei nomi citati a suggerire che il termine stesso di «formalismo» ha perso, nel nostro secolo, che ha visto sorgere numerosi distinti «formalismi» (dalla storia dell'arte alla linguistica e al cinema), la sua pregnanza significante o, almeno, quel significato originario che possedeva in Herbart e Zimmermann. Malgrado, dunque, l'indubbia importanza che ha avuto per Malraux il pensiero di Wölfflin e di Focillon, egli ha Come fine della sua opera (e quindi del suo Museo) un'idea di valore Supremo, di assoluto che è estranea ai pensatori dei vari «formalismi». Più che vedere il mondo, la pittura serve infatti a crearne uno nuovo, a servire lo «stile», che non è solo un carattere comune alle Opere di una scuola o di un'epoca ma «l'oggetto della ricerca fondamentale dell'arte, per la quale le forme viventi sono soltanto una materia prima»[78]. L'arte è ciò per cui «le forme diventano stile», abbandonano ogni pretesa mimetica e tendono alla costruzione (all'instaurazione, direbbe Souriau) di un «altro» mondo, del mondo dell'assoluto: l'arte è invenzione di forme ed «e sempre nelle forme che l'autore scopre i valori artistici fondamentali»[79], che costruisce il «valore» stesso dell'arte.
Viene dunque rimessa in gioco la nozione stessa di «storicità» dell'arte che in un primo tempo sembrava accettata. L'artista infatti, pur parlando il linguaggio del suo tempo, non ne è il risultato necessario, né le sue opere, come affermano alcune interpretazioni sociologiche, esprimono le condizioni socioeconomiche della loro epoca storica:
«quando scopriamo - scrive Malraux - che la chiave della creazione, invece d'essere nel processo per il quale essa succede e che l'ha originata, è invece nella rottura, l'arte, senza separarsi dalla storia, vi si ricollega in senso inverso. Il legame di cui il falsario ci costringe a riconoscere la forza, non unisce l'artista alla storia ma alla storia delle forme»
Il Museo immaginario è dunque il Museo degli stili, «la ricomposizione di un mondo tanto diverso dal vero come l'opera d'arte lo è dal reale»[81], l'affermarsi della «metamorfosi d'Apollo» nei confronti del confuso divenire dionisiaco. La storia dell'arte sembrerebbe dunque avvicinarsi, per Malraux, a quella «storia dell'arte senza nome» di cui aveva parlato Wölfflin: bisogna tuttavia precisare che, malgrado notevoli analogie, la radicalità e l'univocità della posizione di Wölfflin è, come ricorda anche Morawski, diversamente orientata rispetto a quella di Malraux. Allo stesso modo non è possibile assimilarlo a Focillon pur ammettendo che ha da lui tratto notevoli spunti integrandoli con la teoria del Kunstwollen di Riegl e forse, malgrado l'opposto parere di Morawski, anche con le influenze delle estetiche «universitarie» francesi
È tuttavia certo che le influenze sul pensiero di Malraux non possono venire limitate ai nomi di filosofi o storici dell'arte; in lui si trovano, infatti, analogie con la tragica poetica di Camus, con la teoria dell'arte di Heidegger (mai esplicitamente ricordata), con il volumetto Esprit des formes che Elie Faure pubblicò nel 1927 e, soprattutto, con le teorie espresse da W. Worringer in Abstraction und Einfühlung, oltre che con le meditazioni di artisti quali Gauguin, Denis, Apollinaire, Baudelaire e gli stessi surrealisti. La densità indubbia di tali spessori culturali ha dato origine a una brillante e piacevole opera che tuttavia, per quanto riguarda il suo lato specificamente estetico, troppo spesso rivela la mancanza d'intrinseca unità, l'ispirazione letteraria che ne fa piuttosto, anche aiutato dallo splendido apparato iconografico, un «romanzo delle forme». E del romanzo, in primo luogo della Condition humaine, la Psychologie de l'art possiede anche la pessimistica impostazione ideologica, secondo la quale il mondo è in preda al caos, un caos che l'uomo subisce e che può sfuggire solo creando un nuovo mondo, il mondo delle forme artistiche.
Per questo motivo soprattutto l'opera estetica di Malraux non può venire considerata l'espressione di un puro e semplice formalismo: essa risponde a un'esigenza esistenziale che, attraverso le forme artistiche, vuole creare un nuovo mondo da contrapporre alla tragicità dell'esistente. L'arte non è al servizio della natura, della storia o dell'ideologia ma risponde soltanto alla volontà dell'uomo di manifestare la propria libertà imponendo un mondo che egli stesso ha faticosamente conquistato. Si tratta quindi di un laico «umanesimo integrale» dove, come in Maritain, l'arte è al servizio di una trascendenza, ma di una trascendenza che non è qui il Dio dei cristiani bensì il valore supremo dell'arte come totalità delle forme e degli stili costruiti dall'uomo. Le opere d'arte, nella loro «presenza» immanente, ma trascendente rispetto alle varie diverse espressioni del loro mondo circostante, sono le vere protagoniste dell'estetica di Malraux, i principi costruttivi per l'unico vero e proprio «umanesimo universale».
L'Arte è tuttavia fenomeno così profondamente e integralmente umano che, pur finalizzato alla costruzione di un Assoluto, assume, nell'atto del suo stesso esistere, posizioni politiche e sociali:
«L'ammirevole rifiuto - scrive Malraux - opposto dai pittori moderni all'arte rispettata del loro tempo ci porta a vedere nell'arte stessa una delle più alte forme d'accusa». Infatti «dalla Pietà di Villeneuve fino a Van Gogh (come da Villon a Rimbaud e Dostoevskj) l'ululo prometeico che trova il suo più ampio accento in Rembrandt e Michelangelo si dispiega sull'arte fino a divenire il grido che l'Europa urla di fronte alla morte . Vi è così in Malraux un paradossale (in quanto ricorda Adorno e posizioni critiche a lui completamente estranee) «filo rosso» di rivolta nell'arte di fronte al caotico reale che circonda il mondo: «più che un cristallizzarsi dell'arte intorno ad una storia preesistente, abbiamo dunque un'azione della storia su di un processo costante di creazione»[
L'arte vive quindi in un proprio mondo che non è solo il mondo delle forme ma un campo che l'uomo ha la capacità di creare riaffermando così la propria libertà e, con termine jaspersiano, trascendenza. Ogni arte è l'espressione, lentamente conquistata, del sentimento fondamentale che l'artista prova davanti all'universo connettendosi in modo concreto (e non epifenomenico) al divenire della storia. L'artista, in quanto creatore, «non appartiene alla collettività che subisce la cultura ma a quella che l'elabora»: «la sua facoltà creatrice non lo sottomette ad una fatalità divenuta intellegibile ma lo lega al millenario potere creativo dell'uomo, alle città ricostruite sulle rovine, alla scoperta del fuoco»[85]. Non è quindi l'uomo, in verità, a costruire un altro mondo bensì l'artista, essere privilegiato: e qui si rivela l'atteggiamento aristotelico di Malraux nei confronti dell'arte che, come nota giustamente Munro[86], riporta le sue teorie al pessimismo profetico di uno Spengler o di un Toynbee. L'arte che libera l'uomo dal suo destino caotico e che costruisce un nuovo destino non è quindi un orizzonte utopico intersoggettivamente valido ma una fede personale degli artisti, un loro specifico privilegio trascendente.
(liberamente tratto da testi vari)
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