mercoledì 21 maggio 2008

L’OGGETTO TRANSIZIONALE E L’ATTO CREATIVO

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

La relazione tra gli oggetti transizionali e l’attività
creativa è affrontata e sviluppata da A.H. Modell in un
articolo molto interessante pubblicato su Psychoanalytic
Quarterly nel 1970, e intitolato appunto “The Transitional
Object and the Creative Act”.
Si tratta di uno studio esemplificativo che, attraverso
l’esame di specifiche caratteristiche dell’arte
paleolitica, porta alla luce i meccanismi fondamentali
dell’attività creativa. L’uomo primitivo estendeva al mondo esterno -
proiettandole su di esso - le condizioni interiori
caratteristiche del proprio funzionamento mentale. Così le
primitive istituzioni sociali e religiose erano basate su
fattori quali il terrore dell’incesto, l’intensità
dell’ambivalenza, la credenza nell’onnipotenza del
pensiero; fattori che sono poi divenuti, col tempo, il
contenuto della realtà interiore dell’uomo
moderno. E’ dunque logico che i prodotti dell’arte paleolitica possano
essere interpretati come “l’esteriorizzazione di un
processo che rimane interiorizzato e inconscio nell’uomo
moderno".I L’arte paleolitica abbraccia un periodo di tempo che va
approssimativamente dal 30.000 al 12.000 a,C. e cioè
20.000 anni circa, con un’evoluzione stilistica minima da
forme più rozze a forme più sofisticate.
Le caverne dove sono stati rinvenuti i dipinti erano
luoghi sacri, deputati alla celebrazione di riti magici; e
proprio la straordinaria stabilità e l’omogeneità di
quest’arte, presente in una larga area dell’Europa
meridionale, suggerisce la sua appartenenza a
un’istituzione religiosa pressoché indistruttibile, ed
esclude che ci troviamo di fronte ad una
espressione di decorativismo o di arte per l’arte.
Delle opere artistiche del Paleolitico Modell esamina
solo quelle caratteristiche specifiche che presentano
un’analogia col concetto di oggetto transizionale. E’
frequente, ad esempio, che gli artisti paleolitici
utilizzino per la creazione delle loro opere le possibilità
offerte loro dalla configurazione geologica naturale delle
pareti, della volta e del pavimento della caverna stessa.
Nelle grotte di Altamira furono ritrovati dipinti
raffiguranti bisonti in varie posizioni, per i quali erano
state utilizzate alcune protuberanze arrotondate della
volta della caverna, coperte con pittura. Questa
compenetrazione tra l’ambiente naturale e l’oggetto creato
si verifica spesso: protuberanze e cavità rocciose vengono
trasformate in animali, e dove le parti del corpo mancano,
l’artista le aggiunge con la pittura colorata, completando
l’opera. E’ come se la caverna, cioè la natura stessa, e
l’artista lavorassero insieme in un’armoniosa
collaborazione: “la madre terra fusa con il simbolo
creato”. 2 D.Fairbairn (The Ultimate Basis of Aesthetic Experience)
mise in luce il significato psicologico dell’uso di
questi accidenti naturali, o “oggetti trovati”. Egli notò
che quest’uso si trova a metà tra l’attitudine dell’artista
e quella dello spettatore, in quanto l’artista non è
responsabile dell’esistenza dell’oggetto, ma semplicemente
lo trova. E’ proprio la compenetrazione dell’ambiente reale con
l’immagine creata che rappresenta l’esteriorizzazione di un
processo psichico: cioè la prima relazione creativa del
bambino con l’ambiente, rappresentata dall’oggetto
transizionale. - Nell’arte paleolitica un oggetto, un aspetto inanimato
della natura è rivestito di significato dall’immagine
dipinta. Questa non è però esclusivamente psichica, in
quanto la caverna col suo potere ctonico “collabora”, per
così dire, con il creatore, dando sostanza, consistenza e
permanenza all’immagine creata. Analogamente, l’oggetto
transizionale non è pura allucinazione, ma qualcosa che fa
parte dell’ambiente e a cui il bambino conferisce la
qualità della vita. E’ quindi allo stesso tempo sia una
cosa creata dal bambino che un oggetto fornito dall’ambiente.
Il primo ambiente del bambino è la madre, ed egli impiega,
nella relazione che stabilirà in seguito con
l’ambiente inanimato, le stesse forze psichiche adoperate
originariamente nella relazione con la madre. Continuerà,
ad esempio, a usare il pensiero magico, che non implica la
distinzione fra gli oggetti umani e quelli inanimati, e
permette di mitigare l’ansia della separazione.
Lo stesso senso illusorio di connessione che il bambino
sperimenta con il suo oggetto transizionale esiste
per l’artista paleolitico fra il simbolo creato e l’oggetto
reale che esso denota. Il simbolo infatti non era usato in
senso denotativo, ma faceva un’unica cosa con l’oggetto.
Modell vede l’oggetto transizionale come uno
spartiacque psicologico, da un lato del quale c’è il senso
di connessione e la negazione della separazione tra
soggetto e oggetto, mentre dall’altro c’è il riconoscimento
di ciò che è esteriore al Sé, L’oggetto transizionale è
infatti un oggetto dell’ambiente e non interamente creato
dal Sè. In base a tutto ciò Modell interpreta l’uso artistico
delle configurazioni naturali delle caverne come una
concretizzazione, un’espressione tangibile della psicologia
del processo creativo, cioè dell’interpenetrazione fra
l’ambiente interno e quello esterno. - 219 -
Il fatto che l’opera non sia una realizzazione
interamente nuova, ma una trasformazione di qualcosa che
già esiste, suggerisce che un elemento essenziale della
creatività sia l’accettazione di quello che è fuori del Sé.
Considerando l’oggetto transizionale come un concetto-
spartiacque, si può istituire un paragone fra i processi
creativi e i modi più maturi o più primitivi di amare. Come
l’amore maturo, anche la vera creatività richiede
l’accettazione del non-sé, rappresentato - in campo
artistico - da una certa tradizione antecedente, con cui
l’artista deve fare i conti prima di poterla trasformare o
arricchire. Modell è d’accordo con la Greenacre nel considerare che
c’è stata un’indebita enfasi sugli aspetti narcisistici
della creatività, mentre l’opera artistica avrebbe
piuttosto il carattere di un “love gift” (dono d’amore). Il
fallimento della creatività, quindi, potrebbe corrispondere
alle forme d’amore più primitive, cioè al lato regressivo
dei fenomeni transizionali, caratterizzato dalla non
accettazione di quanto è esterno al Sé. Modell osserva che
nella psicoanalisi di certe persone creative si verifica un
fallimento della creatività quando c’è una fede eccessiva nelle fantasie di onnipotenza, un
tentativo di autogenerare interamente la propria arte,
l’incapacità di riconoscere e accettare il contributo degli
altri, che è in fondo incapacità di accettare
l’esistenza di un oggetto al di fuori del Sé. 3
Anche nelle modalità d’amore più maturo è però mantenuto un
aspetto caratteristico della relazione non l’oggetto
transizionale, e cioè l’illusione di connessione necessaria perchè
la relazione con la realtà sia più profonda.
L’arte, e l’espressione culturale in genere, trova la
sua ragion d’essere nel fatto che ciascuno di noi
sperimenta il mondo in maniera individuale e irripetibile,
per cui abbiamo bisogno di qualcosa che ci offra un senso
di connessione con gli altri, “la necessaria illusione che
stiamo condividendo una realtà comune”. 4 Ritrovo
puntualmente e magnificamente espressa un’intuizione simile
in Proust che, non per nulla, è stato chiamato “poeta della psicoanalisi”. 5 Nel Tempo
ritrovato scrive: Riafferrare la nostra vita, e anche la vita altrui:
giacché lo stile, per lo scrittore, come il colore per
il pittore, è un problema non di tecnica, ma di
visione. Esso è la rivelazione, impossibile con mezzi
diretti e coscienti, della differenza qualitativa che
esiste nel modo come ci appare il mondo: differenza
che, se non ci fosse l’arte, resterebbe l’eterno
segreto di ognuno. Solo grazie all’arte ci è dato di
uscire da noi stessi, sapere quel che un altro vede di
un universo non identico al nostro e i cui paesaggi ci
rimarrebbero altrimenti ignoti come quelli che possono
esserci nella luna. La nostra società vede nell’esperienza individuale
del creatore l’unica fonte della creatività artistica.
Sotto questo aspetto l’analogia fra oggetto transizionale, arte
paleolitica e creatività nell’uomo moderno viene meno.
La straordinaria stabilità dell’arte paleolitica, che
abbraccia un periodo di quasi 20.000 anni, dimostra che
questa arte non poteva essere la creazione personalizzata
di artisti consapevoli della propria individualità unica, religiosa, ritualizzata.
4. Ibidem. 5. G. Bychowski, “Marcel Proust as a Poet of
psychoanalysis”, American Imago, 1973.
E’ probabile che, per preservare la tradizione, ci
sia stata, nel paleolitico, una proibizione positiva
contro le variazioni che hanno la loro radice
nell’individualità. L’artista paleolitico, che possedeva la
capacità di ritrarre gli animali con grande fedeltà
naturalistica, non doveva probabilmente ritrarre se stesso e i suoi simili
con lo stesso realismo a causa di un tabù,
inteso ad impedire l’affermarsi del senso di individualità. Esso infatti,
essendo una conquista culturale e non un dato
biologico, avrebbe minacciato la conservazione
dell’immobile cultura paleolitica. L’atto creativo dell’artista paleolitico non è
analogo al prodotto del gioco del bambino. Il bambino, infatti, crea
spontaneamente, mentre l’opera dell’artista paleolitico è
parte integrante di un rituale sacro. Creando un oggetto
transizionale il bambino non ha comunque consapevolezza di
sè in quanto responsabile della creazione. A parte questa differenza, c’è un’ulteriore convergenza
fra le origini dell’arte, e della cultura in genere, e il
primo atto creativo del bambino, che si manifesta
nell’oggetto transizionale. E’ l’angoscia della separazione
che provoca la comparsa dell’oggetto transizionale, e che,
unita alla paura della morte, può anche essere “il motivo
per l’istituzione di un ambiente magicamente creato”. 6
Diversamente dagli animali, l’uomo ha un’infanzia
prolungata, durante la quale deve, per molto tempo,
affidarsi alla protezione offerta dagli oggetti esterni.
Per un tempo molto lungo la madre costituisce
l’ambiente del bambino, e quindi la cultura - come
trasformazione creativa dell’ambiente - è profondamente
segnata da questa equazione originaria fra la madre e
l’ambiente.
In questo senso più ampio la creazione di forme
culturali richiama una relazione d’amore. Una forma
culturale non può completamente autocrearsi: bisogna che il
narcisismo sia, almeno in certa misura, limitato, in modo
da rendere possibile la fedeltà e l’amore per la tradizione
trasformata.
Annalisa Morganti
Creatività e diversità
Un binomio difficile quello che lega la creatività alla disabiltà, che altro non è se non l’espressione di una differenza, di una diversità che si coniuga con l’unicità di ciascuna persona. San Tommaso ricordava che la singolarità di ogni essere umano è ciò che vi è di più nobile in tutto l’universo e l’espressione creativa rappresenta una delle numerose sfaccettature di tale singolarità, che è anche irripetibilità, unicità, originalità.
Per il disabile, la cui diversità si lega ad una complessa interazione tra le condizioni della sua salute, i fattori personali ed ambientali [1], è un diritto, esprimere questo modo di essere unico al mondo attraverso le forme a lui più congeniali, mettendo in moto canali comunicativi a lui stesso spesso misconosciuti.
L’espressione pittorica, scultorea, teatrale, musicale, poetica, sono soltanto alcuni dei possibili campi su cui giocare la sfida della creatività come forza profonda che bussa alla porta di ognuno di noi, aspettando soltanto che qualcuno possa farla entrare.
Quando parliamo di creatività, il pensiero rimanda subito ai numerosi studi condotti da M.Mencarelli negli ultimi decenni del secolo trascorso, i quali trovano un filo conduttore nella creatività come prerogativa di tutti gli esseri umani, non soltanto dei pochi “geni”, artisti e scienziati che raggiungono il livello massimo di espressione creativa. Potenzialmente tutti gli uomini sono creativi, lo sono anche le persone disabili,  unica ma essenziale condizione affinché questa possa essere estrinsecata, è quella di educarla, sin dai primi anni di vita, a cominciare dalla famiglia e la scuola [2].
La creatività come prospettiva, come traguardo formativo possibile ed auspicabile da tutti, purchè messi nelle condizioni di poterlo fare. Come? Attraverso una educazione che lascia aperte le porte dello slancio attivo e propositivo, presente  soprattutto nei  bambini che avvertono il bisogno di esprimersi attraverso un gesto grafico, un movimento del corpo, una parola, anche se spesso considerati scomodi ed inopportuni.
Per alcuni bambini disabili tali canali comunicativi possono essere compromessi dal deficit, per questo è necessario agire dove ancora è possibile farlo, su quelle aree non ancora compromesse. Questo è ciò che la pedagogia speciale ha fino ad ora accreditato come educazione compensativa, una educazione che mira al rafforzamento e allo sviluppo di funzioni, abilità e potenzialità ancora intatte e pienamente funzionanti. Capire dove si annidano le potenzialità della persona disabile è il grande compito che spetta all’educatore che, di fronte all’allievo, deve saper trarre da questo “il meglio” di sé in quanto persona.
L.S.Vigotskij ha indicato che ciò è possibile riuscendo a lavorare all’interno di una zona di sviluppo prossimale, dove, all’esecuzione di un compito supportato da una figura  adulta (problem solving guidato), deve progressivamente sostituirsi lo svolgimento del medesimo, avvenuto autonomamente (problem solving autonomo).  Lo sviluppo deve essre, dunque, anticipato e ciò permetterà di capire fin dove è possibile agire per realizzare adeguati obiettivi formativi.
La scuola, di ogni ordine e grado, garante di un insegnamento personalizzato, deve strutturare quello che H.Gardner chiama the bridge, cioè un ponte che permetta di indirizzare gli interventi formativi degli insegnanti verso le direzioni più consone a ciascun allievo. Così facendo, ogni persona sarà messa nelle condizioni di attivare al meglio il proprio tipo di intelligenza, sia essa di tipo linguistico, musicale, corporeo-cinesica, spaziale, matematica,  intrapersonale, interpersonale, naturalistica o esistenziale[3].
Per Gardner si può essere creativi soltanto in un’area specifica delle sue multiple intelligenze, non esiste un talento globale che rende creativi in tutto, ma creatività espresse, per ciascuno, nel proprio settore. Da questa idea nasce, infatti, il suo celebre saggio sulle intelligenze creative in cui presenta la biografia di grandi personaggi come Gandhi, Picasso, Einstein, Freud, Virginia Wolf e molti altri, creativi per eccellenza [4].
L’essere creativi non nasce, dunque, da un improvviso insight cognitivo, da una inaspettata scintilla che fa prospettare le cose in modo originale, ma è il risultato di un lento e rigoroso lavoro che richiede lunga preparazione, frustrazioni, incubazione di idee, immaginazione, fantasia[5], sino ad arrivare all’ “idea buona e nuova” di cui parlava K.Popper. Solamente in pochi riusciranno a raggiungere il livello creativo che Taylor chiamava  emergente, quello che contraddistingue i grandi personaggi menzionati da Gardner, i grandi geni creativi che sin dall’origine dei tempi sono sempre esistiti.
E’ singolare vedere come per alcuni di essi, ciò che ha decretato il loro successo e ha alimentato la loro anima creativa è stato un deficit, una patologia, un danno transitorio o stabile.
Molti sono gli esempi di personaggi illustri appartenenti al mondo della musica, della scienza, della letteratura, della pittura, della danza, dell’architettura.
Recentissima è una lista di artisti, compilata di Peter Wolf, direttore del Dipartimento di patologia e di medicina di laboratorio dell’Università della California di San Diego e appena pubblicata sulla prestigiosa rivista Archives of Pathology, la quale mette in relazione il loro stato di salute con le loro opere più famose.
Malattie, farmaci o droghe hanno da sempre condizionato la creatività degli artisti, il loro essere unici e capaci di esprimersi secondo canoni non razionalizzabili, sfuggenti, incomprensibili.
La ricerca passa in rassegna nomi importanti come quelli di Vincent Van Gogh, epilettico affetto da xantopsia, una malattia che determina una visione gialla degli oggetti bianchi e violetta di quelli scuri, come traspare in molti suoi quadri. Al pittore seguono altrettanti nomi illustri, come quelli del grande pittore, scultore, Michelangelo Buonarroti, affetto da sindrome maniaco-depressiva che proiettava nelle sue numerose opere (il volto di Jeremiah, una delle oltre quattrocento figure che affrescano la volta della Cappella Sistina, sembra che sia il “ritratto della malinconia”). Edvard Munch, pittore norvegese autore del celeberrimo quadro “L’urlo”, esprime, attraverso quel volto la sofferenza del proprio disturbo psicotico. Benvenuto Cellini, uno dei più grandi scultori di tutti i tempi, rappresentò la malattia da cui era affetto, la sifilide, in una delle suo opere maggiori. Il compositore Louis Hector Berlioz fumava oppio per stimolare la creatività e molte delle sue sinfonie furono composte proprio sotto l’effetto di questa droga.
Questi, soltanto alcuni dei grandi  geni creativi che affollano una lunga lista a cui potremmo aggiungerne sicuramente altri come quelli del letterato Ernest Hamingway, del compositore L.V.Beethoven, del musicista Ray Charles e molti altri ancora. Per ognuno di questi, la diversità ha originato creatività, forme magnifiche di espressione che hanno regalato e regalano ancora oggi, a tutti la possibilità di godere di un grande dono, quello di poter godere del bello e della bellezza, che l’arte sa esprimere.

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