lunedì 26 maggio 2008

concetto d’infinito nell’antica Grecia

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Da sempre l’uomo cerca il senso della sua esistenza, ma furono i filosofi della scuola di Mileto,
il primo è Talete, definito da Aristotele come il primo fisiologo cioè colui che elabora una
dottrina della physis, ad interrogarsi su che cosa fosse il tutto, su come si fosse formato questo
tutto e sul perché e come si è formato questo tutto. Tali pensatori furono i primi che senza
ricorrere al mito, attraverso la pura osservazione della realtà e l’elaborazione di conoscenze
provenienti dall’esperienza, hanno cercato di formulare il mistero dell’essere, che sarà alla base
di tutta la filosofia.
I primi filosofi hanno sviluppato attraverso l’uso del logos una cosmogonia, una riflessione
filosofica partendo da un’indagine sull’universo e precisamente su cosa ci fosse prima di questo.
Ecco i tentativi di risposta.
1. Talete individua l’acqua come principio primo.
2. Anassimandro invece la ritiena come qualcosa di derivato e individua l’arché
nell’infinito, ossia in una natura in-finita e in-definita, da cui provengono tutte le cose.
Qui compare il termine a-peiron, ossia dell’infinito come qualcosa che è privo di limiti
sia esterni (e quindi quantitativamente infinito) sia interni (e quindi qualitativamente
indeterminato). Naturalmente come è infinito il principio così sono infiniti i mondi.
3. Anassimene individua l’aria come principio primo che ben si presta ai processi di
trasformazione e variazione per far nascere le cose
Da questi brevi accenni notiamo come l’esistenza pur generata da un principio primo è tale per una
sorta di passaggi da uno stato all’altro delle cose, e sono i processi di trasformazione che generano
le cose. Fu Eraclito stesso a parlare della realtà naturale come panta rhei, a percepirla non come
qualcosa di immobile ma in un continuo movimento, e proprio per questo sceglie il fuoco come
principio primo per le sue peculiarità di mutamento e di trasformazione delle cose.
1. Con i pitagorici si ha una nuova visione dell’infinito con una accezione negativa, visto
come l’illimitato, l’indefinito, l’imperfetto. Infatti i pitagorici scoprono in tutte le cose una
regolarità matematica, numerica, necessaria per conoscere e per limitare l’illimitato
istituendo un ordine. L’ infinito è il vuto che circonda il tutto e il mondo nasce attraverso la
scelta di un Uno che inglobandolo in sé lo determina. Nascono qui i concetti di numero che
se da una parte sono illimitati dall’altra hanno un aspetto limitante. I numeri pari meno
perfetti quelli dispari più perfetti.
2. Ora però con la filosofia del 600/500 a.C. non ci si è più limitati ad una semplice
conoscenza del mondo cosmogonico, me si è intensificata l’indagine su ciò che c’era prima
del tutto, esiste il nulla? Comincia con Parmenide una vera e propria ontologia, metafisica
dell’essere. Attraverso l’individuazione del principio di identità e di non contraddizione che
affermano l’impossibilità di una coesistenza dell’essere col non essere, afferma le
caratteristiche dell’essere: è da sempre, è eterno non ha inizio né fine; è immobile perché il
movimento presuppone il passaggio da un non essere all’essere; è finito perché in sé
compiuto e perfetto; è Uno anche se pare diverso perché è sempre identico a se stesso. Per
cui notiamo come il pensiero dell’infinito assume sempre di più una connotazione negativa,
come l’imperfetto, un continuo passaggio dal non essere all’essere. La percezione
dell’infinito è dovuta alla fallacia dei nostri sensi. Sarà Zenone a difendere con i sui
paradossi le tesi di Parmenide. Melisso invece sosterrà che l’essere deve essere infinito,
senza limiti di spazio e tempo perché altrimenti vorrebbe dire che confinerebbe con un nulla
che è impossibile.
3. Anassagora per spiegare l’inesistenza del nulla e come tutto è sempre nell’essere, pur
sperimentando il divenire delle cose, si serve dell’immagine delle omeomorie, gli elementi
da cui derivano le cose, che sono infiniti di numero e quantità (estendibili e divisibili
all’infinito) e quesi molti sono l’uno.
4. Gli atomisti riconfermando l’impossibilità del non essere , parleranno di essere e non essere
come un’aggregazione e disgregazione continua degli atomi, principi primi indivisibili.
E’ con Socrate che ci avviciniamo al concetto d’infinito più vicino al nostro senso comune, come
l’incapacità della ragione umana di cogliere l’essere nella sua totalità, perché limitato: «so di non
sapere». Infinito come eterno. Sarà proprio Platone a risolvere il problema di ciò che è l’essere da
come ci appare, a risolvere cioè le tesi opposte di Eraclito e Parmenide dividendo nettamente la
conoscenza della realtà in due piani: la realtà sensibile, fugace, mutevole, imperfetta, e la realtà
soprasensibile che è da sempre ed è immutabile. Per Platone il non essere non solo non esiste come
negazione dell’essere, ma viene però usato con una connotazione diversa, per esprimere la diversità
di una cosa rispetto all’altra. Le idee sono una delimitazione di un il limite, in quanto è dalla
cooperazione dell’uno con un secondo principio detto della molteplicità (Diade di grande-piccolo)
che si generano le cose.
Con Aristotele la spiegazione fra ciò che appare hai sensi e fra ciò che conosciamo con la ragione
raggiungerà il culmine della chiarezza con i concetti di atto e potenza. L’infinito in atto non esiste,
mentre esiste in potenza. A ciò è arrivato ragionando anche sul concetto di tempo che è ciò che ci
permette di cogliere il movimento attraverso un prima e un poi. Il tempo è infinito potenzialmente
perché non può esistere tutto insieme, ed è infinito pure lo spazio potenzialmente, ribadendo perciò
il valore di infinito e finito dei pitagorici. Notiamo però che Aristotele non ha colto l’idea
dell’infinito come ciò che chiamiamo immateriale, ma per lui apparteneva alla categoria della
quantità e perciò del sensibile.
Attraverso questo excursus notiamo come l’idea che noi abbiamo dell’infinito è profondamente
diversa da quella greca per la quale “l’infinito non è ciò al di fuori di cui non c’è nulla, ma ciò al di
fuori di cui c’è sempre qualcosa” (Aristotele, Fisica, III, 6, 207 ). Con una tale concezione
dell’infinito Aristotele arriva ad affermare l’esistenza di Dio come causa incausata, atto puro,
motore immobile.