giovedì 1 maggio 2008

Il potere dell'immaginazione

a cura DI D. PICCHIOTTI

Si è già notato che il pensiero di Bayer e Souriau può forse offrire il primo esempio di indagine fenomenologica all'interno dell'estetica francese, anche se di una fenomenologia che non può venire intesa in senso husserliano sia per il suo realismo sia per le sue finalità metafisico - instaurative L'estetica delle «forme» nella sua generalità, oltre a possedere grande importanza nella fondazione dell'estetica come scienza, costituisce comunque l'imprescindibile presupposto per l'esplicito sviluppo fenomenologico di M. Dufrenne, fenomenologia che apre il dibattito «interno» dell'estetica francese alle principali correnti filosofiche europee degli anni cinquanta, correnti che saranno senza dubbio «nazionalizzate» ma che avranno in Sartre e Merleau-Ponty attenti lettori di Husserl e Heidegger, pur «integrati» con influssi bergsoniani, positivisti e razionalisti.
La prima esigenza di questi autori francesi è di carattere estetico solo intendendo il termine nel suo significato generale di «teoria della sensibilità»: riprendendo Husserl si volgeranno infatti, sin dagli anni quaranta, a un tentativo di determinazione essenziale della struttura apriorica degli atti d'esperienza e del loro correlato intenzionale, che non è qui l'io trascendentalmente puro di cui parla Husserl ma piuttosto una corporeità agente, che prende comunque ispirazione dal Leib, il corpo proprio husserliano. Vediamo cosi il «movimento» dell'estetica francese concludersi in un'estetica fenomenologica che riprende e nuovamente medita i rapporti fra percezione, immaginazione e corporeità - che già erano stati trattati da Delacroix Bergson e Alain - offrendo loro, tuttavia, la base metodologica generale della fenomenologia di Husserl e finalizzando tale complesso di studi alla costruzione di quella «scienza estetica» di cui già avevano parlato Lalo, Bayer e Souriau.
Le discussioni di fenomenologia dell'esperienza vertono in realtà soprattutto sul problema dell'immaginazione e sul suo specifico ruolo nei procedimenti percettivi, ruolo che, se Sartre considera su un piano di irrealtà, altri in Francia hanno visto nel suo potere «di trasformare la nostra definizione del reale»[1]. Infatti se in Alain e nel suo allievo Sartre c'e una posizione «dualista», che è, a grandi linee, anche quella del surrealismo (pur se differiscono nelle conclusioni), Bachelard ha effettivamente tentato una conciliazione fra immaginario e reale, seguito in ciò da Gilbert Durand con la sua affascinante «antropologia dell'immaginario» fino a Dufrenne che vede l'immaginazione svilupparsi sin dentro la potenza naturante della Natura, a Roger Caillois che mette in luce «il ruolo dell'immaginazione nell'evoluzione della percezione» e a G. Simondon, «per il quale l'immagine mentale deve essere compresa in una relazione dialettica fra l'essere vivente e il suo ambiente»[2].
Il problema dell'immaginazione, già aporetico nell'intero contesto dell'opera kantiana, e in quanto tale esaminato in Francia da Basch e Segond, trova qui il suo punto di partenza negli scritti di Husserl, per il quale la fantasia pone il proprio oggetto «al di fuori del terreno in cui hanno senso le posizioni relative all'essere e al non essere»[3]: l'immaginazione dà origine a un mondo del «come se» che ha una sua propria struttura intenzionale irriducibile ai contenuti percettivi di cui è una modificazione. Il mondo dell'immaginario possiede tuttavia specifici rapporti con la sfera della sensibilità, in particolare nei momenti della percezione in cui si incontrano le funzioni dell'esperienza, che mantengono, come Husserl ha messo in luce, la propria specificità strutturale. Nell'arte inoltre, come ha rivelato Cassirer, si tratta anche di «esteriorizzare» l'immaginazione, ovvero «di fare un'espressione visibile e tangibile non solamente attraverso una certa materia (...) ma soprattutto attraverso forme sensibili»
Alain infatti, pur considerando percezione e immaginazione in radicale eterogeneità, afferma chiaramente che l'immaginazione crea, nell'arte, sulla base del sensibile percepito: immaginazione fantastica che non è principalmente una facoltà contemplativa dello spirito «ma soprattutto l'errore e il disordine penetrati nello spirito in una col tumulto del corpo»[5]. L'immaginazione deriva, cartesianamente, dagli stati e dagli automatismi corporei e si identifica quindi con una percezione «passionale» ed «emotiva», totalmente «senza precauzioni». Tale «matta sregolatezza» dovrà venire sottomessa a un'azione creatrice, a un impeto poietico che superi il delirio delle immagini e, spinozianamente purificandosi dalle passioni, fissi la sua forza in forme concrete, nelle oggettualità delle opere d'arte. E ciò dovrà avvenire attraverso il lavoro tecnico, il contatto corporeo con la materia da plasmare: artista, afferma Alain, è colui che risolve l'immaginazione, che deriva dai movimenti corporei, in un oggetto, in un'opera compiuta.
La teoria di Alain sull'immaginazione è, secondo Sartre, una negazione radicale dell'immagine stessa, ridotta a «falsa percezione» a errore e disordine penetrati subdolamente nel corpo. Alain, cui pure Sartre si ispira, ha così costruito una teoria dell'immaginazione senza immagini: «non essendosi basato sulla testimonianza della coscienza, Alain, sopprimendo l'immagine, accorda troppo, e nel contempo non abbastanza, all'immaginazione»[6]. «Troppo» perché ha posto l'oggetto immaginario, che per Sartre va considerato sotto «l'indice di nulla», in correlazione con l'oggetto reale e «non abbastanza» perché non sa vedere l'immagine nella sua purezza quale struttura irriducibile della coscienza. Pure nell'assenza di questa analisi, in qualche modo «bergsoniana», la teoria di Alain, a differenza di quella di Sartre, ha ben visto il potere dell'immaginazione sul reale e ha compreso che l'opera d'arte assume complessità di significato proprio in virtù dei vari elementi che ne determinano la genesi.
D'altra parte, un discorso esclusivamente analitico trovava in Bergson la sua più alta giustificazione, un discorso dove immaginazione e memoria non sono coinvolte solo come specifiche facoltà riproduttive ma come forze funzionali che hanno la capacità di «rendere presente», e quindi progettualmente operativo e sempre di nuovo ponentesi, un oggetto offerto dalla percezione. Nell'arte, come scrive Bergson, «ogni percezione si prolunga in azione nascente» e tale allinearsi di immagini collegate a ricordi che la memoria fornisce «crea nel corpo nuovi dispositivi per l'azione»[7]. Nella percezione estetica dunque, si può affermare traendo le conclusioni da quel che sostiene Bergson, non è possibile «immobilizzare» il dato poiché bisogna riconoscerne il movimento, il ritmo, la «durata». Come scrive Husserl, compito originario della percezione sarà «penetrare nell'oggetto e contemplarlo non solo da tutte le parti insieme, ma anche in tutte le sue singolarità, quindi ad esplicarlo»: «l'esplicazione è la direzione dell'interesse percettivo che penetra nell'orizzonte interno dell'oggetto»[8]. In modo specifico la percezione estetica, nota N. Hartmann,
«si spinge verso qualcosa d'altro che non le è direttamente dato, ma che ugualmente ascrive a sé, senza far conto della sua origine effettiva: unità, totalità, connessioni - e in modo cosi elementare ed immediato che noi crediamo di esperire questi elementi nella percezione e prendiamo anch'essi per dati»[9].
La percezione, secondo Bergson, si esplica in atti concreti che hanno la loro origine nel corpo, intermediario fra il rinnovarsi incessante delle immagini e il mondo materiale che ci circonda. Il corpo stesso e un immagine centrale del sistema di immagini che costituisce la materialità, immagine centrale intorno alla quale si dispongono le immagini che danno luogo alla rappresentazione. La percezione, dunque, «non aggiunge nulla all'immagine, non le comunica nessun carattere nuovo, nessun più»[10]. La percezione è impregnata di «ricordi-immagini» che la completano e la interpretano ma tuttavia esiste nell'immagine, virtuale e neutralizzata, prima d'essere rappresentazione cosciente.
Tutte queste connessioni, sia di Alain sia di Bergson, sono, a parere di Sartre, fondamentalmente ambigue e comunque non mettono in luce pienamente che percezione e immaginazione sono due atteggiamenti irriducibili della coscienza, che si escludono necessariamente. L'immagine va indagata nella sua purezza ideale, ed indagata con un metodo che, a parole fenomenologico, sembra invece ricalcare l'antica auto-osservazione introspettiva dello psicologismo o dei gestaltisti. Il metodo, scrive infatti Sartre, «è semplice: produrre in noi immagini, riflettere su di esse, descriverle, cioè tentare di determinare e di classificare i caratteri che le contraddistinguono»[11]. L'immaginazione si rivela così come «un atto magico», opposto alla percezione, atto «costituente, isolante ed annullante», «destinato a far apparire l'oggetto pensato, la cosa desiderata, in modo che se ne possa prender possesso» .
«Derealizzazione», «desiderio», «nullificazione», sono tuttavia vocaboli che Sartre non ha certo tratto dalla tradizione fenomenologica bensì dal Surrealismo, da cui, malgrado l'impostazione soggettivistica e le indubbie differenze teorico-costitutive, Sartre è rimasto senza dubbio influenzato, pur giungendo a conclusioni che, negando il potere dell'immaginazione sul reale, costituiscono l'esatto opposto delle concezioni di Breton. L'immaginazione infatti, nei surrealisti, rappresenta «l'altro», ciò che si oppone alla razionalità logica, alla certezza della percezione e della scienza, alla realtà delle c. e quotidiane che imbriglia l'immaginario nelle leggi di un'«arbitraria utilità» che annulla l'uomo incatenandolo alla ripetitività assurda dei suoi atti. L'immaginazione è libertà perché solo essa, passando attraverso la nullificazione (ma non sostandovi, come in Sartre), rende all'uomo la sua umanità, la felicità intrinseca al vivere, il «raggio invisibile» che svela, dietro il reale, il «surreale». La «derealizzazione» del mondo, lungi dal porsi come un'operazione di metodica «epoché», è, per Sartre e per i surrealisti, l'azione fondamentale che mostra l'immagine e la libertà che essa apre. Il surrealista tende così a disintegrare l'oggetto producendone una crisi esiziale che ne vanifica la struttura d'esistenza, che sottolinea, contro il principio di realtà, il principio di piacere: «la visione è libera di percepire ciò che vuole, la coscienza di conferire agli oggetti il senso che essa sceglie» .
L'immaginario è quindi, come scrive Breton, ciò che «desidera» diventare reale, là dove in Sartre invece permane nella sua essenza irreale e nullificante: l'arte, e in particolare la poesia, è la voce di questo desiderio tendente a ritrovare la nostra essenza distruggendo la solidità logica dell'oggetto. «L'incontro dell'oggettività e della soggettività - scrive Alquié - è interpretato nel clima del meraviglioso, la sintesi del presente e del futuro si opera nell'immaginario, e la poesia non rifiuta di elevarsi alla pura essenza» .
È ovvio che il Surrealismo, per il suo vellitarismo ideologico ma soprattutto per il suo carattere di movimento di «rottura», non ha saputo far seguire a queste iniziali affermazioni critiche l'attenta costruzione di una «logica dell'immaginario». Al contrario, l'affermazione di Reverdy che «l'immagine è una creazione pura dello spirito», così esaltata da Breton nel Manifesto del 1924, non è molto lontana dal condurre a quella concezione dell'arte che i surrealisti stessi volevano abbattere e mostra, come ben comprese Bataille, il carattere iniziatico e aristocratico del movimento. L'immagine esiste ed è creata solo per chi possiede spirito o, in altri termini, per chi «ha fatto atto di surrealismo»[15], come se si trattasse di un «atto di fede».
Il surrealismo «si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d'associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero» - e tende «a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita»[16]. Le sue immagini saranno, ricordando De Quincey e Baudelaire, «immagini-oppio» che non è l'uomo ad evocare ma che gli si impongono in modo spontaneo e dispotico con la particolare luce che deriva loro dal «raggio invisibile» del surreale. E l'arte, in tutta la sua evoluzione nei tempi moderni, è chiamata a sapere, «che la sua qualità sta nella sola immaginazione, indipendentemente dall'oggetto esterno che le ha dato origine» e che, in essa, «tutto dipende dalla libertà con cui quell immaginazione riesce a mettersi in scena e a non mettere in scena nient'altro che se stessa» [17]. L'oggetvità dell'arte sta nel suo essere separata dalle idee, dalle forme, dal concretamente esistente, nel suo essere «spirituale». In questo senso «ancora oggi dobbiamo rivolgerci a Hegel se ci interroghiamo sulla fondatezza o meno dell'attività surrelista nelle arti»
La percezione, si potrebbe quindi affermare riprendendo Sartre, tende a dare rappresentazioni «parziali-progressive» degli oggetti, è realizzante opposta all'immaginazione irrealizzante che offre alla coscienza umana la possibilità di trascendere il mondo reale, cui pure è connessa, affermando la propria assoluta irriducibile libertà; L'opera d'arte, quale prodotto di tale immaginazione, è ridotta a «pura immagine» che quasi appare, a volte, un'ombra allucinatoria. Se, per i surrealisti (e per Marcuse dopo di loro), l'opera d'arte rappresenta la realtà dell'immagine ed è lo specchio dell'inconscio desiderante, dell'utopia stessa di un «nuovo mondo», per Sartre la derealizzazione è assoluta. L'immagine, infatti, offre un sapere immediato ed assoluto nella sua radicale eterogeneità dal percepito : comporta, da parte del soggetto, un atteggiamento di «quasi-osservazione» dove «ci troviamo effettivamente nella posizione di osservatori, ma è un'osservazione che non apprende nulla»[19]. La percezione pone il proprio oggetto come esistente mentre l'immaginazione lo considera sempre come un nulla, presentandolo, in alternativa, come inesistente, assente, esistente altrove o neutralizzandosi essa stessa.
La coscienza immaginativa dell'oggetto non ha oggetto, non pone nulla, non è conoscenza ma solo qualità indefinibile che inerisce ad ogni coscienza, come spontaneità che produce e conserva l'oggetto in immagine. Per Sartre, sostiene Dufrenne, l'immaginazione è sempre empirica: «essa fa apparire un oggetto, un oggetto così convincente malgrado la sua irrealtà che ci possiede e che la coscienza si arena in lui»[20]. Riservando all'immaginario l'ambito dell'irreale e della nullificazione del reale, si rischia, a parere di Dufrenne, «di disconoscere un altro modo di negare il reale, che è oltrepassarlo per tornare a lui»[21]. Posizione che ricorda quella del surrealismo, poiché è Dufrenne stesso a sostenere che il surreale «e la giuntura dell'immaginario e del reale: perché l'immaginazione non è in primo luogo nient'altro che un modo di vivere la presenza del sensibile, di manifestare il possibile di cui il reale è carico, invisibile che si annuncia nella profondità del visibile e gli dà senso» .
Funzione primaria dell'immaginario nella sua stessa presenza all'interno della percezione è quindi, per Dufrenne, preformare il reale, farlo divenire, secondo l'insegnamento di Alain, un progetto umano, l'affermazione di un valore che disvela un senso del reale. L'immaginazione non è infatti «l'irreale» da contrapporre al reale percepito ma un sistema di possibili che aderisce alla fissità del dato animandolo nella sua stessa ricchezza rappresentativa. Fondamentale nella rappresentazione di un dato percettivo, come voleva Kant, e soprattutto il Kant della prima edizione della Critica della ragion pura, il ruolo dell'immaginazione deve per Dufrenne venire fortemente limitato all'interno della percezione estetica dove, pur permanendo la sua funzione sintetico-trascendentale, lo spettacolo offerto dall'oggetto estetico basta a se stesso e non ha bisogno di venire rafforzato dalla ricchezza polivalente dell'immaginazione
Ponendosi, malgrado le affinità dell'impostazione fenomenologica, agli antipodi della filosofia sartriana, Dufrenne sostiene che, pur intervenendo nella percezione estetica per dare consistenza all'oggetto rappresentato, l'immaginazione non deve qui risvegliare immagini che ingombrerebbero la specificità di tale percezione con il pretesto di arricchirne il senso ; l'opera d'arte, al contrario, può considerarsi «riuscita» solo quando riesce a contenere entro limiti prefissati l'apporto immaginativo. Per Sartre, invece, i dati «reali» di un'opera d'arte - i risultati delle pennellate, la preparazione della tela, i colori e così via - non costituiscono oggetto di valutazione estetica in quanto sono soltanto analoga materiali delle immagini ideali che costituiscono la vera e propria opera d'arte valutabile. Il percepito, il reale, il materiale, servono cosi soltanto da «catalizzatore» per l'immaginazione senza potere né orientarla né limitarla. Il bello, dunque, per Sartre, non si situa nelle componenti concrete-visibili dell'opera d'arte e neppure nel piacere psicofisico che da esse è possibile trarre, bensì nel suo darsi come essenza o struttura «irreale», rivelatrice di un mondo immaginario irriducibile ad altre modalità della coscienza. L'immagine - opera d'arte è un «nulla», anzi, come si esprime Sartre, in conclusione dell'Imaginaire, un «Nulla» con la maiuscola che introduce il tema ontologico ed esistenzialista che riprenderà nelle opere successive, doppia nullificazione dell'io e del mondo ].
L'immaginazione «non è un potere empirico e sovraggiunto alla coscienza» ma «la coscienza tutt'intera in quanto realizza la propria libertà»[25]. Il nulla scaturisce dunque dall'annichilazione del mondo operata dall'immaginazione: è l'immaginazione che pone il nulla, è dalla sua capacità di nullificare che sorge la sua libertà.
Sartre con la coscienza nullificante e Dufrenne con il superamento dell'immaginario nell'espressività estetica non hanno tuttavia messo in luce, dal lato di una «fenomenologia» delle immagini, la densità degli sfondi in cui vive e si orienta l'oggetto percepito e in cui le immagini che ad esso aderiscono rivestono un ruolo fondamentale per la sua definizione propriamente estetica. Gli oggetti percepiti sono infatti carichi di quegli elementi immaginari che Bachelard ha chiamato rêveries, elementi che permettono una valorizzazione immaginativa del percepito nella sua stessa immanenza concreta dove, al di là di voli «nullificanti», si mettono in luce i suoi aspetti simbolici e metaforici, che nell'opera d'arte, come scrive Durand, fanno apparire un «senso segreto», l'«epifania di un mistero»[26]. Vi sono così degli «a priori dell'immaginazione» - a priori materiali nel senso di Husserl, Scheler e Dufrenne - che non solo ci fanno intravedere, come sostiene Dufrenne nell'In ventaire des a priori, le grandi immagini archetipiche che vivono nel fondo naturante della Natura ma anche gli elementi cosmologici che trovano spazi nel nostro stesso «subcosciente poetico».
In tal senso le rêveries di Bachelard sono veri e propri «a priori materiali» dell'immaginario, immagini simboliche che appartengono al lato «nascosto» e «notturno» dell'uomo e che mostrano l'immaginazione, nota Starobinski, come «molto di più che una facoltà d'evocare immagini che raddoppierebbero il mondo delle nostre percezioni dirette: è un potere di scarto grazie al quale ci rappresentiamo le cose distanti e ci distanziamo dalla realtà presentata»[27]. L'immagine è dunque sia produzione psichica sia esperienza concreta e poetica (o «poietica») del nostro rapporto somatico ed affettivo con le cose. «Fenomenologia delle immagini» è per Bachelard «la considerazione dello scaturire delle immagini in una coscienza individuale» che ci aiuta «a restituire la soggettività delle immagini ed a misurare l'ampiezza, la forza, il senso della transoggettività dell'immagine»[28]. Tale fenomenologia deve quindi essere in grado di enucleare il valore creativo delle immagini poetiche, la loro «originarietà» in un senso non mistico o metafisico, originarietà che nasce dalla stessa loro appartenenza all'essere delle cose e all'essere del linguaggio, ovvero alla loro stessa «presenza» percettiva. Il mondo delle immagini, pur specifico nella struttura dei suoi atti intenzionali è in connessione costitutiva con il mondo delle cose e la sua specifica temporalità unitaria del «come se» dovrà appartenere al tempo oggettivo come forma unitaria d'intuizione fenomenica ed estetica. Il cogito è infatti, per Bachelard, «conquistato da un oggetto del mondo, un oggetto che, a lui solo, rappresenta il mondo» .
La voce della rêverie è la voce del poeta e della sua école de naiveté: «il triplice legame immaginazione, memoria e poesia dovrà (...) aiutarci a situare, nel regno dei valori, quel fenomeno umano che è un'infanzia solitaria, un'infanzia cosmica»[30]. L'affiato cosmico presente negli «elementi» costitutivi dell'universo con l'alone immaginario che lo circonda può manifestarsi anche, come accade nelle ultime opere di Bachelard, negli oggetti più intimi e quotidiani che hanno in sé quella poesia che costituisce il ritmo profondo della nostra temporalità, quel ritmo che è la vera legge segreta del tempo, nell'ondeggiare del pieno e del vuoto della nostra vita interiore, nei suoi rapporti, antichi e rinascenti, con il campo del mondo circostante e con i suoi oggetti, ciascuno dei quali è un tema che si svolge su un orizzonte di sfondi e significati.
L'immaginosità - o «l'immaginabile» - vive nelle cose stesse, è parte del loro essere ed acquista una specifica autonomia nelle rêveries poetiche, rêveries che non scaturiscono più necessariamente dà una psicanalisi degli elementi ma da una descrizione dell'alone affettivo che circonda ogni fenomeno del nostro mondo circostante, anche in apparenza senza significato come la piccola fiamma di una candela:
«La fiamma ci chiama a vedere come se fosse per la prima volta, ne abbiamo mille ricordi, ne sognamo grazie all'individualità personale di una memoria molto vecchia, e tuttavia ne sognamo proprio come ne sognano tutti, ricordiamo come tutti ricordano - allora, seguendo una delle leggi più costanti della rêverie davanti alla fiamma, il sognatore vive in un passato che non è più unicamente il suo, nel passato dei primi fuochi del mondo» ].
La rêverie è unione poetica di ricordo e immagine sulla base di un oggetto percepito che acquista il valore di un archetipo psichico che lo ricollega all'esperienza originaria dell'uomo di fronte al misto degli elementi costitutivi: «se il sognatore di fiamma parla alla fiamma, parla a se stesso, ed eccolo poeta», poeta che «ingigantisce il linguaggio in quanto esso esprime una delle bellezze del mondo». Si tratta così, per Bachelard, di costruire un'estetica «non travagliata dalle polemiche da filosofi» e non riducibile in «semplificazioni generiche», un'estetica che deve «trasferire i valori estetici del chiaroscuro dei pittori nel mondo dei valori estetici dello psichismo», ovvero nell'universo di una rêverie «che non si rinchiude nel suo contenuto, ma trabocca sempre un po', impregnando della propria luce la sua penombra»[32]. La rêverie permette allora, come direbbe Novalis, una fondazione trascendentale del mondo fantastico, una «logica» del fantastico che si potrebbe radicare negli oggetti e nelle rêveries loro collegate, nel loro valore cosmico e vertiginoso ].
I migliori esempi della cosmicità della rêverie nella sua «materialità» sono offerti dalle opere d'arte, e in particolare dalle opere poetiche, momenti privilegiati attraverso i quali Bachelard «elabora una filosofia della relazione al mondo, dove il regno della poesia si estende ben al di là delle frontiere della 'letteratura' »[34]. L'immagine simbolica non ha un valore sostanziale indipendente né, come in Dufrenne, può venire ricondotta al «fondo» naturante della Natura poiché ha riferimento solo con il cogito nel suo rapporto immaginativo con la realtà circostante, rapporto che si radica nell'originarietà stessa dell'uomo, nella solitudine prima dell'infanzia. «Lasciamo alla psicanalisi - scrive Bachelard - il compito di guarire le infanzie malvissute, di guarire le sofferenze di un'infanzia indurita, che opprime la psiche a tanti adulti» e percorriamo piuttosto la strada di «una poetico-analisi che dovrebbe aiutarci a ricostruire in noi l'essere della solitudini liberatrici» e che ci restituisce «tutti i privilegi dell'immaginazione»[35]. In questa primitività psichica, immaginazione e memoria appaiono in un complesso indissolubile che non può essere semplicemente ricondotto a una precedente percezione. Infatti «il mondo è sognato prima di essere percepito, perché la percezione netta ed esplicita richiede quella medesima coscienza desta che manca alla rêverie» .
Per «rivivere i valori del passato bisogna fantasticare e sognare, bisogna accettare la grande dilatazione psichica della rêverie, nella pace di un grande riposo. Allora la Memoria e l'Immaginazione rivaleggiano per restituirci le immagini che appartengono alla nostra vita»[37]. La solitudine cosmica ha in sé il nucleo d'infanzia che è al centro della psiche umana, punto di congiunzione fra il reale, l'immaginario e la memoria: «i giochi di pensiero dei filosofi che conducono le loro dialettiche dell'essere e del nulla in tono puramente logico diventano drammaticamente concreti davanti alla luce che nasce e che muore»[38]. Il poeta, anche di fronte al più semplice oggetto, riesce così ad esprimere il reale attraverso l'irreale e le rêveries poiché un mondo che è il nostro mondo si forma nelle immagini plurisignificanti del rêveur. L'immaginazione è quindi, per Bachelard, «instaurativa»: ispirandosi agli arche tipi di Jung ricerca nel linguaggio poetico «quell'intreccio umano fra uno svolgimento obiettivo e il radicamento di questo svolgimento nel più oscuro dell'individuo biologico» .
Le indagini di Bachelard, pur portando su questo indubbio piano «creativo», per cui l'«immaginosità» appartiene al fondo stesso delle cose, è presente nella concretezza delle opere d'arte (le «Ninfee» di Monet non sono vuota fantasticherie o mere rappresentazioni ma sono gli sviluppi immaginativi intrinseci agli stessi fiori acquatici, che l'artista ha fissato su tela), non nascondono tuttavia il proprio limite intrinseco, riconosciuto e teorizzato in quanto tale: la rêverie non porta al pensiero, dà origine a un'attività che è notturna, sottolinea il lato affettivo-soggettivo dell'immagine a detrimento della sua portata intenzionale all'interno di un'intuizione estetica dove gli atti immaginativi siano geneticamente correlati agli atti percettivi e memorativi, alla loro temporalità come orizzonte intersoggettivo in cui si compiono le relazioni fra il soggetto e l'oggetto. La rêverie fa senz'altro parte di quell'amplissima sfera che, per usare un'espressione di Mukarovsky svolge una ben precisa «funzione» estetica, funzione tuttavia «che non si limita davvero alla sola sfera dell'arte bensì penetra tutta l'attività dell'uomo e tutte le manifestazioni della sua vita»[40]. La rêverie di Bachelard, generalizzando la sua «funzione» notturna, perde così la sua specifica vita nello spazio dell'arte e, al di là di esempi particolari, si rivela non come una facoltà produttrice di schemi rappresentativi né come una generalissima capacità di riprodurre oggetti assenti ma come una «sfera del possibile» che vive in una temporalità ritmica, in una «dialettica della durata» che la qualifica in senso estetico.
La rêverie, dunque, malgrado sia «uno stato estremamente fragile, evanescente, instabile» è «l'origine del mondo e dell'uomo, ossia è la dimensione originaria dell'essere dell'uomo di fronte al mondo e dell'apparire del mondo all'uomo»[41]. Acquisendo una dimensione temporale le sintesi dell'immaginazione si materializzano nella realtà della nostra vita interiore compiendo una «rivoluzione copernicana dell'immaginazione»[42]: il retentissement che ci conduce al mondo delle immagini ci fa comprendere anche la realtà delle cose, la forza significante degli oggetti del nostro mondo circostante. Se Sartre aveva completamente ignorato la dimensione propria dell'immaginazione simbolica, Bachelard continua invece a sottolineare il bisogno positivo di immaginare che apre la strada a una fantastica trascendentale. Come scrive in L'air et les songes, questa immaginazione assoluta «comanda alle forze, alle materie, alle forme, alla vita e al pensiero» e può legittimare una filosofia che esplichi «il reale attraverso l'immaginario». «Così come per Sartre - scrive R. Court in Le Musical - materie come l'acqua e i suoi riflessi, le fiamme e le nuages sono in primo luogo materie fluttuanti e vaghe il cui carattere evanescente suscita un'immaginazione la cui funzione si riduce a colmare un vuoto; per Bachelard, al contrario, sono delle materie particolarmente sostanziali, dove si sommano le energie cadute della Natura e che offrono una posizione di scelta alla nostra immaginazione fondamentale»[ ].
L'immagine non è una fuga ma un radicamento nel reale che ne sviluppa il senso in modo dinamico, che ne «canta» la realtà e l'emergenza: ancora una volta «e la materia che comanda la forma», materia che è «lo schema dei sogni indefiniti»[44], il riempimento e la donazione di senso d'un intuizione immaginativa. E su questa strada, sempre percorsa dall'estetica fenomenologica, anche oggi si impegna il pensiero estetico in Francia.

[1] M. Saison, Imaginaire/Imaginable, Paris, Klincksieck, 1980, p. 15.

[2] Ibid., p. 84. G. Durand, autore della fondamentale Struttura antropologica dell'immaginario, riprende vari temi derivati sia da Bachelard sia dalla psicanalisi (in particolare junghiana) sia dall'antropologia strutturale. Figura di grande importanza all'interno della cultura e della saggistica francese è anche quella di R. Caillois, che in vari lavori ha connesso l'immaginario col mondo del mito e del sacro. G. Simondon, acuto psicologo contemporaneo, è invece autore di numerosi studi sul problema dell'oggetto tecnico e sui suoi modi di esistenza. Per le indicazioni complete sulle opere di questi autori si veda la conclusiva appendice bibliografica.

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