domenica 16 marzo 2008

IL PENSIERO DEL CUORE (

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Quando Petrarca, il 6 aprile del 1327, all’età di ventidue anni, scorse nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone una leggiadra fanciulla, il cuore prese a battergli forte, si fermò, gli salì in gola. La sua anima era stata sopraffatta dalla bellezza. Fu in quell’istante che ebbe inizio il Rinascimento? O era già incominciata, questa «vita nuova», nel 1274, quando Dante a nove anni vide per la prima volta Beatrice («colei che dispensa beatitudine»), bambina vestita di «colore sanguigno» e anima mandi, che destò il suo cuore alla vita estetica?
«In quello punto» scrive Dante «dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremar sì fortemente, che apparìa ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: "Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi" (Vita Nuova, II). Da quel momento egli si pose al servizio di questa divinità in forma di figura della sua anima, dedicando la vita a tre cose fra loro inseparabili: l’amore, l’immaginazione e la bellezza della poesia. Tra queste coppie, Petrarca e Laura, Dante e Beatrice, non intercorse alcun rapporto personale. Eppure, da quegli eventi del cuore scaturì la radicale trasformazione di tutta la cultura occidentale, che cominciò come trasformazione di ordine estetico; e a generarla fu la Bellezza. Non è forse per la sua bellezza che Psiche, nella favola di Apuleio, fu scelta fra molte; e non è forse Afrodite, la Bella, l’anima dell’universo (psyche tou kosmou o anima mundi), la quale, come dice Plotino (III, 5, 4), genera il mondo percettibile e insieme l’anima di ciascuno di noi?
Sappiamo prestare attenzione a ciò che dicono queste figure e questi racconti? Ci rendiamo conto del fatto che noi siamo, nell’anima, figli di Afrodite, che l’anima è una therapeutes, come era Psiche, del tempio di Venere? Quello, infatti, è il luogo dove l’anima pratica il suo culto. L’anima nasce nella bellezza e di bellezza si nutre, ne ha bisogno per vivere. Se leggiamo Platone come seppe leggerlo Plotino e comprendiamo Psiche come la intese Apuleio e facciamo esperienza dell’anima al modo di Petrarca e di Dante, allora la psiche è la vita delle nostre risposte estetiche; quel senso del sapore delle cose, quel fremito di eccitazione o di dolore, quel moto di ripugnanza o quell’allargarsi del petto: tutte queste primordiali reazioni estetiche del cuore sono l’anima stessa che parla. La prima caratteristica di Psiche e il modo in cui ci viene presentata non riguarda le sue fatiche, l’opus del fare anima, né le sue pene d’amore e neppure il suo senso di oppressione nello smarrimento, assenza e deprivazione dell’anima: questi aspetti, nel racconto di Apuleio, vengono dopo. Noi la conosciamo innanzitutto attraverso la sua caratteristica primaria, che è data con la sua natura: Psiche è bellissima.
Come è possibile che la bellezza, che ha svolto un ruolo così centrale e così evidente nella storia dell’anima e del suo pensiero, sia assente dalla psicologia moderna? Pensate: ottant’anni di psicologia del profondo senza un pensiero dedicato alla bellezza! Ancor oggi la psicologia tende a disconoscere il primato dell’estetico, riducendolo ad attributo diagnostico: "estetismo". E i racconti di Petrarca e di Dante diventano fascinazione di Anima, immature idealizzazioni dovute alla rimozione, narcisismo incapace di rapporti veri, un estetizzare tipico del Puer.
Noi abbiamo inteso la bellezza di Psiche esclusivamente sul piano simbolico, come se alludesse ad altro da sé. Non abbiamo letto con attenzione le parole di Apuleio e non le abbiamo riferite alla sua formazione platonica. Altrimenti avremmo capito che la bellezza di Psiche era visibile, percepibile con i sensi, come la bellezza di Laura per Petrarca, come Afrodite che si mostra nuda. Inoltre, nelle nostre interpretazioni psicologiche di Psiche, abbiamo scambiato la sua bellezza per un semplice motivo da capire con l’intelligenza, e non già come la caratteristica essenziale della sua immagine, e questo fraintendimento esige una rilettura della favola a partire dalla natura essenzialmente estetica dell’anima.
Se nel nostro lavoro con la psiche non diamo pieno spazio alla bellezza, allora l’anima non può realizzarsi nella sua essenza. Non solo, una psicologia che non inizi nella bellezza (come inizia nella bellezza la favola di Psiche e come Afrodite è la psyche tou kosmou, l’anima presente in tutte le cose) non può proclamarsi vera psicologia, giacché omette questo tratto essenziale della natura dell’anima. Già si comprende come una compiuta psicologia del profondo, capace di esprimere la natura di Psiche, debba anche essere un’estetica del profondo; inoltre, se vogliamo recuperare l’anima perduta, il che dopotutto è il fine principale di ogni psicologia del profondo, dobbiamo ritrovare le nostre reazioni estetiche perdute, il nostro senso della bellezza.
Per bellezza non intendiamo abbellimento, ornamento, decorazione. Non intendiamo l’estetica come ramo secondario della filosofia che si occupa del gusto, della forma e della critica d’arte. E neppure la intendiamo come "atteggiamento disinteressato": il leone addormentato. Né la bellezza può essere rinchiusa nei musei, essere appannaggio dei virtuosi del violino o della corporazione degli artisti. Anzi, dobbiamo sottrarla con decisione all’ambito dell’arte, della storia dell’arte, degli oggetti d’arte, della valutazione artistica, della terapia attraverso l’arte. Queste sono tutte forme di positivismo, perché pongono la bellezza in quelli che ne sono solo singoli episodi, perché situano l’aisthesis in eventi estetici, come gli oggetti belli.
Nel perseguire ciò che per noi è bellezza, ci è di impedimento la parola stessa: "bellezza". All’orecchio suona così languida, così inefficace, gradevole ed eterea, così distante dalle drammatiche urgenze dell’anima. Constatiamo qui, una volta ancora, come le nostre nozioni siano determinate da modelli archetipici; è come se la bellezza fosse stata demandata al solo Apollo: analisi di forme invisibili, come la musica, qualcosa che compete ai collezionisti ed è oggetto di dispute sulle riviste di estetica. Oppure la bellezza è stata consegnata totalmente nelle molli mani di Adone e di Paride, la bellezza come violenza, mutilazione, morte. In Platone e in Plotino, tuttavia, essa non possiede affatto questa connotazione di imberbe, di passivo, di sterile e raramente è posta in relazione con l’arte. La bellezza, anzi, non è neppure "bella", come testimonia la persona fisica di Socrate. O meglio, il bello, il senso platonico, può essere compreso soltanto se sappiamo entrare in un cosmo afroditico, il che a sua volta significa penetrare nell’antica nozione di aisthesis ("percezione sensoriale"), dalla quale la parola "estetica" deriva.
Dobbiamo spingerci oltre le consuete idee di bellezza che hanno tenuto l’immaginazione prigioniera di nozioni esclusivamente empiree, Afrodite Urania, allontanandola dal mondo dei sensi, dove Afrodite era sempre immanente. Di conseguenza, denigrando la visibilità dell’apparenza fisica, la sua nudità è stata resa pornografica. Al tempo stesso, queste idealizzazioni hanno mistificato la rivelazione, riducendola ad attesa escatologica: ma la rivelazione giunge come un’epifania destinata a far crollare il mondo sensibile soltanto quando non sappiamo coglierla con i sensi nell’immediato presentarsi delle cose così come sono.
Scrive Corbin (L‘uomo di luce nel sufismo iraniano), che la bellezza è la grande categoria che si riferisce specificamente al Deus revelatus, la "teofania suprema, autorivelazione del divino". Così come gli Dei sono dati con la creazione, allo stesso modo la loro bellezza è data nel creato, anzi essa è la condizione indispensabile della creazione in quanto manifestazione. La bellezza è l’anima mundi manifesta, e non è, vi prego di notare, trascendente rispetto a ciò che è manifesto o nascostamente immanente in esso, bensì riguarda le apparenze in quanto tali, così come sono create, nelle forme in cui sono date: dati dei sensi, fatti nudi, Venus Nudata. La bellezza di Afrodite rimanda alla superficie lucente di ciascun evento particolare, alla sua trasparenza, alla sua particolare brillantezza, al fatto stesso che le singole cose si mostrino alla vista e proprio nella forma in cui si mostrano.
La bellezza, come la descrive Platone nel Fedro (250b), è il farsi manifesti degli Dei noumenici nascosti e delle virtù impercettibili, come la temperanza e la giustizia. Che rimangono solo idee, archetipi, pure forme, discorsi didascalici senza immagini, se non li accompagna la bellezza. "Così solo la bellezza" dice Platone "sortì questo privilegio, di essere la più percepibile dei sensi..." (250d). La bellezza è dunque la percettibilità stessa del cosmo, è il suo avere qualità tattili, tonalità, sapori e forza di attrazione. L’alchimia chiamerebbe Sulphur questa lucentezza cosmica...
Se la bellezza è inerente ed essenziale all’anima, allora essa appare dovunque appaia l’anima. La rivelazione dell’essenza dell’anima, il concreto manifestarsi di Afrodite nella psiche, il suo sorriso, nella lingua dei mortali sono chiamati "bellezza". Tutte le cose, in quanto esibiscono la loro natura innata, mostrano l’oro di Afrodite; in quanto risplendono alla vista, sono estetiche. Con ciò non faccio che riformulare l’idea che Adolf Portmann è andato elaborando per quarant’anni a Eranos: l’idea di Selbstdarsteilung, l’ostensione di sé come rivelazione ai sensi della Innerlichkeit, l’interiorità essenziale. La forma visibile è esibizione dell’anima. L’essere di una cosa è rivelato nell’ostensione del suo Bild, della sua immagine.
La bellezza non è dunque un attributo – la tal cosa è bella – quasi fosse una bella pelle avvolta intorno a una virtù, l’aspetto estetico dell’apparenza. Se accanto al bene, al vero e all’uno non vi fosse il bello, noi non li potremmo mai percepire, mai conoscere. La bellezza, cioè, è una necessità episternologica; è il modo in cui gli Dei toccano i nostri sensi, raggiungono il cuore, ci attirano nella vita.
Al tempo stesso, la bellezza è una necessità ontologica, ciò che fonda il mondo nella sua molteplice particolarità sensibile. Senza Afrodite, il mondo delle cose particolari diventa particelle atomiche e la minuziosa varietà della vita è detta caos, molteplicità, materia amorfa: tale infatti è il mondo dei sensi senza Afrodite. Allora, per dare senso all’apparenza, si deve ricorrere ad astrazioni filosofiche, il che distorce la filosofia stessa, strappandola alla sua vera base.
Se, come abbiamo detto, la filosofia ha la sua origine nel philos, il rimando ad Afrodite è duplice. Sophia, infatti originariamente indica la perizia dell’artigiano, del carpentiere (Iliade, XV, 412), del navigante, (Esiodo, Le opere e i giorni, 651) dello scultore (Aristotele, Etica nicomachea, VI, 7, 114la). Nasce (e ad essa rimanda) nella manualità estetica di Dedalo e di Efesto, sposo di Afrodite, a lei congiunto e perciò inerente alla sua natura. Con Afrodite a informare la nostra filosofia, ciascun evento reca sul volto il proprio sorriso e si manifesta in una modalità, in una foggia, in uno stile particolari. Afrodite fornisce uno sfondo archetipico alla filosofia della "ciascunità" e alla capacità del cuore di trovare "intimità" con ciascun evento particolare di un cosmo pluralistico (William James).
Orbene, l’organo che percepisce il volto delle cose è il cuore. Il pensiero del cuore è fisiognomico. Per percepire deve immaginare. Deve vedere forme, figure, facce: angeli, demoni, creature di ogni genere e cose di ogni tipo; e con ciò stesso, il pensiero del cuore personizza, infonde anima e anima il mondo. Così Petrarca vede Laura:
per avia silve,
dum solus reor esse magis, virgulta tremendam
ipsa representant faciem truncusque reposte
ilicis et liquido visa est emergere fonte,
obviaque effulsit sub nubibus aut per inane
aeris aut duro spirans erumpere saxo...
(Epistolae metricae, IV, 145-50)
.... in selve impraticabili,
mentre credo d’esser più solo, gli stessi virgulti
o il tronco di un solitario leccio mi raffigurano il temuto volto,
oppure lo si vede emergere da una liquida fonte
o riluce sotto le nubi o nell’aria chiara o sembra erompere,
vivo, da una dura rupe... [N.d.T.].
Questi versi non sono per Laura, questa non è una lirica d’amore, bensì una descrizione di Laura, l’anima personizzata, la raffigurazione impressa nel cuore mediante la quale procede la percezione estetica e che desta alla vita le cose come forme che parlano...
Questo nesso tra cuore e organi di senso non è semplicemente e meccanicamente sensistico, bensì estetico. Voglio dire: l’attività del percepire, la sensazione, in greco è aisthesis, la cui radice rimanda ad "accogliere" e "inspirare": quel trattenere il fiato dalla meraviglia che è la risposta estetica primaria.
I traduttori hanno trasformato aisthesis in "percezione sensoriale", che è una nozione dell’empirismo inglese, la sensazione di John Locke. Ma la "percezione sensoriale" dei greci non può essere compresa se non si tiene conto della dea greca dei sensi, o dell’organo della sensazione dei greci, che è il cuore, e della radice etimologica della parola: quel fiutare, quel trattenere il fiato, quell’inspirare del mondo...
A "salvare il mondo" non sono necessariamente la grazia o la fede o le teorie olistiche e neppure l’oggettività scientifica o la soggettività trascendentale. I fenomeni sono salvati dall’anima mundi, dalla loro stessa anima e dal nostro ingenuo trattenere il fiato di fronte a tanta bellezza immaginale: dai nostri "oh!" di meraviglia e di riconoscimento, dai "sheee" sibilati tra i denti dai giapponesi. E la risposta estetica che salva il fenomeno: il fenomeno, che è il volto del mondo. "Tutte le cose periscono, salvo il Suo volto" dice il Corano (XXXVIII, 88) e Corbin (L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn’Arabî) così lo intende: "Tutte le cose ... salvo il Volto di quella cosa". Dio, il mondo, tutte le cose possono trapassare nel nulla, essere vittime di costrutti nichilistici, di dubbi metafisici, della disperazione in ogni sua forma. Ciò che rimane quando tutto perisce è il volto delle cose così come sono. Quando non c’è alcun luogo dove rivolgersi, ritorna al volto che ti sta dinanzi, guarda in faccia il mondo. Lì sta la dea che dà al mondo un senso che non è né mito né significato; che è questa cosa, che ho davanti, come immagine: il suo sorriso una gioia, una gioia che è "per sempre".
Dunque il problema del male, come quello del brutto, rimanda in primo luogo al cuore anestetizzato, al cuore che non reagisce a quello che ha davanti e che trasforma con ciò stesso il variegato volto sensuoso del mondo in monotonia, in uniformità, in unità. Il deserto della modernità.
Eppure, sorprendentemente, quel deserto non è senza cuore, perché il deserto è dove vive il leone. Deserto e leone sono tradizionalmente associati nella medesima immagine, sicché, se vogliamo ritrovare il cuore reattivo, dobbiamo andare là dove più sembrerebbe assente.
Secondo il Physiologus (tradizionale compendio di psicologia animale), alla nascita i cuccioli del leone sono inanimati e vanno destati alla vita con un ruggito; ecco perché il ruggito del leone è così possente: per risvegliare i leoncini dal loro sonno, dal sonno in cui sono immersi dentro il nostro cuore. Dunque, il pensiero del cuore non è semplicemente dato, non è una innata risposta spontanea, sempre pronta, sempre presente. No, il cuore va pro-vocato, fatto uscire, che è appunto l’etimologia che Marsilio Ficino dà della bellezza: kallos, dice, viene da kaleo, "pro-vocare". "Il bello genera il bene" (Platone, Ippia maggiore, 297b). La bellezza deve essere provocata alla vita con il furore, l’oltraggio, perché i cuccioli del leone nascono inanimati, come la nostra pigra acquiescenza politica, il nostro carnivoro stordimento davanti al televisore: la paralisi per la quale il pharmakon di Paracelso era l’oro, il metallo del leone. Ciò che nel cuore è passivo, immobile, addormentato crea un deserto, e il deserto può essere curato soltanto dal suo stesso principio parentale, che esprime con un ruggito le sue cure che ridestano alla vita. "Ruggisce il leone al deserto infuriante" ha scritto Wallace Stevens. "Cuore, istinto, principio": Pascal...
Più grande è il nostro deserto, più grande deve essere il nostro furore, e quel furore è amore.
Le passioni dell’anima rendono abitabile il deserto. Non abitiamo una grotta di rupi, bensì il cuore che è dentro il leone. Il deserto non è in Africa; è dovunque, quando si è disertato il cuore. I santi non sono morti; essi vivono nelle passioni leonine dell’anima, nelle immagini che ci tentano, nelle fantasie sulfuree e nei miraggi: la via dell’amore. Il nostro percorso attraverso il deserto della vita, o qualunque suo momento, è il risveglio alla vita come deserto, il risveglio della belva, sentinella del desiderio, la sua zampa famelica, infocata e insonne come il sole, esplosiva come lo zolfo, che incendia l’anima. Il simile cura il simile: la belva del deserto è il nostro custode nel deserto della burocrazia moderna, della bruttezza urbana, delle banalità accademiche, dell’aridità professionale e ufficiale: nel deserto della nostra ignobile condizione...
Quel furore ci fa paura; non osiamo ruggire. Con Auschwitz alle spalle e l’atomica all’orizzonte, lasciamo dormire i piccoli leoni davanti al televisore, il cuore, imbottito del suo stesso zolfo coagulato, ormai diventato una belva nella tana che prepara il suo attacco, l’infarto.
In psicologia, addomestichiamo il nostro furore con eufemismi negativi: aggressività, ostilità, complesso del potere, terrorismo, ambizione, il problema della violenza. La psicologia psicoanalizza il leone. Forse sbagliava Konrad Lorenz, e sbagliano gli psicologi, a cercare un modo di aggirare l’aggressività. È "aggressività" o non è invece il leone che ruggisce al deserto infuriante? Non avrà, la psicologia, perduto lo zolfo nativo, trascurato Marte che cavalca il leone, Marte, l’amato di Venere-Afrodite?
L’articolo è tratto dal testo "Fuochi blu" di J. Hillman, ed è pubblicato per gentile concessione della Casa Editrice Adelphi che ringraziamo.

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