Arnaldo Pomodoro: viaggio nel labirinto dell’esistenza
RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
viaggio nel labirinto dell’esistenza
Con Arnaldo Pomodoro il passato, il presente e il futuro
s’incontrano in una rappresentazione che sorprende e intimorisce, come succede al cospetto dei misteri dell’assoluto. Le sculture si propongono nella loro seducente lucentezza e nella loro ambigua asprezza. Ambigua perché porta messaggi di immediata percezione visiva ma di difficile coniugazione mentale. Ambigua perché il desiderio del tatto si ferma al limite del dolore fisico nel percorrere un frammento, un piccolo tragitto di auspicabile eternità. Non esistono vie di mezzo tra la carezza rotonda della sfera e la sua intima corrosione che raggiunge la superficie, la morde e ne altera i canoni della perfetta e tranquillizzante contemplazione. Tutto in Pomodoro pare ineccepibile e precario, tutto sembra sul punto di rivelarsi o di sgretolarsi nell’oblio definitivo. Il limite è determinato anche da chi si accosta alle sue opere con animo sgombro da ogni preconcetto o da ogni orgoglio cognitivo e da chi si ammanta invece della presunzione del sapere: il primo atteggiamento può favorire un viaggio verso una maggior conoscenza soprattutto di sé; il secondo può determinare la vanificazione dell’approccio, come bussare a una porta che non concede ovvie chiavi d’accesso. La maggior conoscenza può scaturire da quella "scrittura" scavata nel bronzo, suscitata dall’inconscio di Arnaldo e dall’inconscio di ciascuno di noi nella continua attesa e nel riflesso timore di inquietanti risposte esistenziali.
Questa mostra reggiana si apre idealmente con un cilindro, parzialmente aggredito dai crittogrammi, che accoglie i visitatori sull’ampio marciapiede di corso Garibaldi, all’ingresso di Palazzo Magnani. È la Colonna del viaggiatore ispiratagli dalla Colonna senza fine di Brancusi. Da qui, dal nome di Costantin Brancusi, inizia il grande viaggio artistico di Arnaldo Pomodoro: "Le sculture di Brancusi la prima volta le ho viste attraverso un finestrino dove riesco a salire, ed è il finestrino del suo studio a Parigi, mi sembra il ’57, un anno dopo la sua morte, però attraverso questo finestrino vedo tutto più o meno coperto con lenzuola bianche a eccezione di pochi elementi che sono appunto la colonna senza fine e altre pochissime cose." La conferma gli verrà due anni più tardi al Museo d’Arte Moderna di New York: osservando le crepe nella perfezione tridimensionale e strutturale delle opere del maestro rumeno capisce che i suoi segni, i suoi geroglifici, fino a quel momento destinati allo sbalzo di placche bidimensionali o all’inasprimento informale di bassorilievi, potevano trovare un respiro più ampio, una collocazione prodiga di imprevedibili evoluzioni formali e psicologiche. Nasce così nel 1959 la sua prima Colonna del viaggiatore che interroga lo spazio con un messaggio intimo, graffiato, scavato, sofferto. L’ordine puro, essenziale di Brancusi viene pertanto rivisitato e rivissuto dall’ordine provvisorio e travagliato di Arnaldo Pomodoro che insidia il cosmo avvalendosi di un personalissimo bagaglio di curiosità e di angoscia, la stessa che accompagnerà i primi astronauti di quegli anni. Ma il nostro artista è da sempre un viaggiatore, un puntuale indagatore dell’ intimo cosmo da ritrovare e da riconoscere poi nello sprofondamento dell’universo; egli è l’assiduo indagatore del tempo passato e di quello che verrà perché questo è il destino dell’uomo: guardare dentro di sé e nelle più profonde radici culturali che ci competono per affrontare l’avvenire, per intuirne le trame. Occorre una lunga e articolata rincorsa per un adeguato balzo in avanti. Per lui non è una questione di pratica atletica, è il risultato di un’adeguata ginnastica mentale che ha una radice geologica nelle strutture tettoniche di quel Montefeltro che gli ha fornito i natali e gli ha procurato anche gli occhi e lo spirito adatto per recepire i misteri di una natura dolce e aspra di forme e di immagini. Il suo gesto, quello che si era manifestato già in alcune precedenti occasioni e si completerà con la folgorazione brancusiana, viene da lì, dalle sue origini, come è giusto che sia. L’innamoramento per il segno misterioso di Klee (suscitato dalla "Testa di Bob", da alcuni paesaggi e magari esploso definitivamente al cospetto della fitta trama della "Pastorale" del 1927, esposta anch’essa al Museo d’Arte Moderna di New York), la vicinanza sperimentale di Lucio Fontana e delle sue "nature" violate si propongono come conferma illuminante di un dono che egli conservava da sempre nel cuore. Era un tesoro nascosto da disseppellire poco alla volta al cospetto delle continue rivelazioni attivate dagli incontri, dai viaggi, dalle rinnovate intuizioni. Il presente e il passato sempre a confronto: il gesto e il pensiero a fare continuamente i conti con l’insondabile che, se non può essere svelato, va comunque dichiarato come ammonimento e come seme di speranza. Così procede il suo lavoro tra continue interrogazioni concepite attraverso un alfabeto crittografico che trova agganci formali nelle "calligrafie" di tutte le civiltà arcaiche del mondo. Pertanto ritmo e armonia (un ritmo musicale su un insolito spartito) convivono magicamente nell’alternanza critica delle incisioni e dei rilievi di un inesauribile racconto.
Ma torniamo alla mostra: la gente, superato l’impatto emotivo espresso dalla Colonna del viaggiatore, entra, percorre il lungo corridoio al piano terra che conduce in fondo a un’altra scultura emblematica: il Rotante massimo IV. È una grande sfera dall’abbagliante lucentezza che mima l’oro e prepara l’inganno. Tutte le sfere di Pomodoro giocano sulla levigata perfezione di una superficie che subisce improvvise fratture come prodotte da tarli che corrodono e consumano la sostanza a partire dall’interno. Sono un attentato alla perfezione; sono la lettura del nostro mondo inquieto, assalito da interrogativi esistenziali: "Penso che questo dramma dell’erosione, così come l’ho posto, sia in grado di comunicare come una sorta di predizione, una certa angoscia a proposito di quanto potrebbe accadere…cioè il dramma della scoperta tecnologica e dei suoi poteri. Sapevamo di poter mettere l’uomo nella condizione di distruggere se stesso e il mondo". Se Lucio Fontana costruiva le sue forme tondeggianti nell’argilla e le sfondava con un gesto deciso e brutale (ci riferiamo alle citate "nature"), Arnaldo le attraversa chirurgicamente, come in questo caso, per una indagine più "scientifica", strutturale. Se la sfera è l’allegoria del mondo (e ancora e sempre di noi stessi), va sondata in asettica profondità, come avviene ora, oppure va perlustrata lungo ferite che emergono dal parziale consumo dell’armonia geometrica, come vedremo più avanti. Dietro il Rotante massimo IV, nel cortile di Palazzo Magnani, appaiono cinque Scettri, anche teatralmente efficaci e destinati a bucare il cielo, a saggiarlo e a invocarlo con le loro graffianti dichiarazioni al culmine delle aste.
In una sala accanto ci si imbatte in tre Stele erette come sentenze assolute col marchio dell’implacabilità, decise dalle scansioni e dalle impronte di una memoria che non conosciamo e che neppure l’autore conosce. Pertanto sovente egli si stupisce del suo gesto e dell’ effetto che ne segue. Qui risiede una delle straordinarie sorprese dell’arte:l’inattesa stupefazione che assale l’artista medesimo e gli procura subito dopo stordimento, timore, esaltazione, forse il desiderio impossibile di fuggire da se stesso, di scindere le mani da un pensiero non coscientemente pensato. Si muta stanza e ci si trova al cospetto del bozzetto di Novecento, l’imponente torre a spirale installata di recente a Roma per celebrare la fine del millennio. Collocata in una piazza della Città Eterna sembra ergersi come una risposta attuale, nella struttura che si svolge verso l’alto, alla "Colonna Traiana" , imperitura esaltazione delle vittorie sui Daci. La spirale di Pomodoro non racconta le imprese guerresche del secolo appena trascorso ma esprime la coscienza dubbiosa dell’umanità nelle pause di sospensione gestuale, nelle interpunzioni, negli agglomerati di graffiti che anelano magari un’altra memoria o la definitiva dissolvenza.
Prima di salire al piano superiore incontriamo un’altra Colonna degli anni Ottanta che preannuncia un tragitto ascensionale prodigo di rinnovabili sorprese.
La prima ci è fornita da Il grande ascolto, due coni coricati e orientati in senso opposto alla stregua di padiglioni auricolari pronti a catturare e ad assorbire nella loro travagliata interiorità quei messaggi criptici in sintonia con l’articolato linguaggio dei segni. A proposito di linguaggi, è interessante e vario quello proposto subito dopo dalle tre "sfere" che appaiono d’incanto nella loro seducente, eppur contaminata compiutezza: Sfera con perforazione permette allo sguardo l’attraversamento di una ferita che la coglie da parte a parte seminando strazi di punte, sbrecciamenti e incrinature come se la lucentezza fosse solo l’apparenza ingannevole e superficiale di un’intima consunzione; lo stesso ragionamento vale per Sfera n. 3 e per il nucleo compatto e aggressivo di tramature sovrapposte che sfonda l’ordine di conforto per spalancare una implacabile, inattesa verità. Addirittura Sfera del 1983 ostenta una mediana corona dentata che pare un ghigno beffardo. Allucinazioni? Visioni? No, è la riproposizione della crisi dell’uomo: "Nel mio lavoro (…) vedo le spaccature, le parti erose, il potenziale distruttivo che emerge dal nostro tempo di disillusione". Siamo con Pomodoro di fronte a un enigma, a un labirinto che non consente vie d’uscita agevoli: occorre percorrerlo interamente col nostro autore cercando di imparare o di recuperare gli strumenti capaci di introdurci alla captazione del mistero.
Volevamo assaporare il profumo dell’universo? Ecco le Aste cielari che svettano verso l’alto con graduale, abrasiva veemenza. Sono trafitture, sono messaggi, sono implorazioni e interrogazioni, sono i nostri messaggi in bottiglia per un mare più grande, infinito. Sono il desiderabile superamento di una soglia. Da una soglia ideale a una soglia concreta: Arnaldo (un caso o una calcolata conseguenza) ce la propone nella sala a fianco. Si tratta per l’appunto de La soglia: a Eduardo Chillida. È del 2003 ed è l’opera più recente presentata in mostra: un ricordo dell’artista e amico spagnolo scomparso l’anno prima. Un ideale cubo è spezzato in senso mediano: i due frammenti paiono allontanarsi, trattenuti da una sbarra che li attraversa. Ricorda l’impegno sui volumi, sulle tensioni della materia del maestro basco, ma ripropone anche il problema, esposto più volte da Pomodoro, di una monumentale provvisorietà delle cose misurata da un limite, da una porta oltre la quale si spalanca l’ignoto. Un altro sguardo oltre un varco reale e incontriamo Le battaglie: un muro di simboli, di frecce, di ordinato caos. Afferma Pomodoro di essere rimasto affascinato dai geroglifici, di aver scoperto uno straordinario rapporto tra il segno e una forma magmatica, in divenire, di aver sentito la necessità anche fisica di incidere qualcosa nella materia. Allora tra l’autore e l’opera che sta nascendo inizia la lotta, la battaglia non solo nei confronti della materia ma soprattutto tra l’idea e la sua adeguata realizzazione. È un’immagine che ritroviamo in Lettera a K., in questa scultura severa, scandita per sezioni (quasi pagine autonome di lettura) in un unico, armonico corpo, quale omaggio a Klee, a Kafka, a Kierkegaard. Di fianco, come ricorrente memento, si erge un’altra Colonna del viaggiatore del 1960 (la prima era del 1962)dalle dimensioni più contenute. Eppure viene ugualmente riproposta l’emozione di quell’impatto, magari accresciuta dalla maggiore concentrazione dello spazio.
Ora è venuto il momento di attraversare le stanze per conoscere l’Edicola. Ha scritto in proposito Sam Hunter: "L’artista ha focalizzato la sua attenzione sui due piani recto e verso, e sulle superfici convesse e concave di questa forma che allude a una lapide. L’elementare forma ricurva con il suo complesso sviluppo di segni calligrafici richiama infatti i suoi due Cippi degli anni 1983-84, così chiamati dagli antichi pilastri trovati nell’impero egizio del Nilo". Non a caso le Stele, l’Edicola e i due Cippi, che il nostro sguardo incontra al di là di un’apertura, quale ideale prolungamento di un medesimo discorso, nascono in Pomodoro come riflesso anche nostalgico della visione dei templi della regina di Saba in Egitto, nascono dai reperti isolati, caduti nella sabbia e rivissuti dalle ombre che il sole disegna e modula in una misura spaziale e temporale trascurata da ogni metro e da ogni umano calendario. Il nostro autore recupera quel seme di atemporalità e ce lo regala per una muta contemplazione. La suggestione dell’antico Egitto continua con i tre Papiri sospesi contro la parete: sono grandi fogli di bronzo sorpresi in un movimento che si addice alla carta e acquistano così una leggerezza inattesa. E una straordinaria perentorietà espressiva. Succede sempre a ogni contatto ripetuto e sempre nuovo con le sue opere. Da dove proviene, ci chiediamo ogni volta, questa sua persuasiva cattura dell’attenzione immediata della gente ( prima ancora che questa stessa gente, di riflesso, intenda magari porsi decisive domande esistenziali )? Già nel 1969 Hammacher cercava di darsi e di darci una risposta: "La forza del lavoro di Pomodoro sta in due cose. La prima è questa violenza controllata dei piccoli segni, sistemati in una precisa ma non regolare formazione, e allo stesso tempo in schemi mobili e complicati, chiari e penetranti; la seconda è la grandezza di una forma geometrica che una volta era cornice e che ora è stata deformata da qualcosa che emerge da un altro angolo della sua mente". Già, la forma e la sua manipolazione. Una eclatante prova ci viene concessa subito da Colpo d’ala, una piramide capovolta e spezzata in un impeto di aereo dinamismo trasformato in un ideale omaggio a Boccioni. In effetti questa traumatica frattura si sublima, sono parole dello stesso Pomodoro, nella "mobile ala di una freccia, in effetti così mobile da sembrare quasi disarticolata". Un ulteriore, eccellente esempio in cui la forma non è più "cornice" ma metamorfica protagonista degli eventi.
A questo punto ci è concesso di uscire all’aria aperta per cercare quegli elementi che tornano a colloquiare col libero spazio trasformandolo e determinandolo con la personale, perentoria, persuasiva impronta. In piazza Roversi le quattro Stele "timbrano" immediatamente il luogo. Il motivo? Ce lo spiega Argan: "In bilico tra metafisica e meccanica, tra cosmologia e orologeria le macchine monumentali di Pomodoro sono anche strani congegni urbanistici ed ecologici. Collocati nel paesetto marchigiano natale hanno un senso biografico, in un vecchio contesto urbano un senso evocativo, in una piazza di città moderna un senso di sintonia, sulla riva del mare un senso d’infinito. Sono sculture piene di valenze aperte, hanno bisogno di siti significativi con cui combinarsi". Queste Stele, in identica immagine e talora in diversa sostanza, negli ultimi anni sono andate alla conquista e all’interpretazione scenica dei giardini del Palais Royal di Parigi e della Plaza de Nuestra Señora del Pilar di Saragozza; hanno quindi fermato nello stupore il cuore pulsante di Lugano. Fa loro eco seduttivo il Disco in forma di rosa del deserto che spicca sul sagrato della Chiesa della Ghiara. Un rinnovato rimando al deserto, al mistero, alla natura che pare talora voler articolare le cose come specchio o modello da consegnare alla stupefazione o allo sgomento della gente. Il cortile del vicino Palazzo Ducale, dove ha sede la Provincia, viene conquistato dai cinque metri e mezzo della Torre a spirale e dal suo rapido, avvolgente sviluppo ascensionale.
Spostiamoci ora al Palazzo dei Principi di Correggio per riallacciare al suo interno il discorso della scultura: ci attendono su una parete sei Cronache, ovvero sei fogli di bronzo fissati su pannelli di ferro quale testimonianza di affetto nei confronti di persone vicine ai pensieri e ai comportamenti del nostro autore: due sono dedicate a Gastone Novelli, due a Paolo Castaldi, una a Ugo Mulas, un’altra a Francesco Leonetti, a testimoniare il suo stretto rapporto col mondo dell’arte, della fotografia, della cultura in generale. Sono pagine fitte di trame che si alternano a momenti di pausa, di riflessione, di sospensione. Sotto tale profilo ci sorprende l’apparente assenza di segni, rifiutati o abrasi sulla metà superiore dell’omaggio a Mulas e che fa risaltare maggiormente l’affollato intreccio armonico della sezione sottostante. Non è ovviamente casuale tale apertura che rimanda a un quadro di Mark Rothko, memoria collante tra i due amici. Cronaca 7 per Gastone Novelli accende una particolare attenzione per via della scritta tracciata su un ideale muro. Col Punto dello spazio si attua una trasformazione dell’approccio creativo del maestro, abile a coniugare la costruzione rotante, che fa da base e da cardine, alla tipica struttura fittamente e articolatamente narrativa che abbiamo ormai imparato a conoscere. Poco distante osserviamo la Piramide dalle essenziali, aguzze estroflessioni che caratterizzano le facce corrugate del solido geometrico. Quindi è la volta del bozzetto relativo alla Porta dei Re del Duomo di Cefalù dallo straordinario impatto visivo che richiede un chiarimento. Occorre comprendere il ruolo del tondo che domina in alto il centro della porta, a livello della frattura che indica il congiungimento delle due ante caratterizzate da una pioggia di ferite dilaganti verso il basso. È lo stesso Pomodoro a svelarci l’arcano: "Ho realizzato il cielo o l’aldilà in una sfera d’oro. Nella Trasfigurazione ho voluto che il magma terrestre si diffondesse attorno alla base come alone".
Lasciato il bronzo, inizia in questo ampio salone rettangolare il viaggio nella carta, ovvero in quella produzione calcografica che assume un ruolo non marginale ma decisamente importante nell’iter creativo di Arnaldo. Annotava in proposito nel 1978 Giovanni Carandente: "Il lavoro grafico per lo scultore, sembra essere quasi sempre una sorta di sfida alla superficie piana, bidimensionale, del foglio. (…) Arnaldo Pomodoro, al posto delle lastre di rame o di zinco o delle pietre litografiche, si è servito dello stesso medio che egli usa in scultura. Ha cioè lavorato gli ‘originali’ (positivi) nel gesso, come fossero destinati alla fusione in metallo. (…) Il tutto, alla fine, non è la finzione di quel che non è, ossia del bronzo. Ma ne conserva la bellezza spoglia e severa. Inoltre, conserva, della scultura, la fitta, magica rete di rapporti, cui aggiunge la fragranza autentica di un rilievo sul medium cartaceo". Ed è quello che incontriamo qui, in un ideale prolungamento del dialogo tra strutture organiche e ostentazioni meccaniche, che riannodano i tragitti non ancora toccati dal pensiero dell’uomo, quei tragitti già puntualmente sperimentati nel metallo. La carta gli permette impensabili arditezze di aggiunte, di sottrazioni, di sovrapposizioni, lampi di luce e opacità, giochi di toni, fughe improvvise, iati, come succede a Immagine trasversale dall’incombente piegatura o alle Aste cielari scandite in parallelo sulla medesima pagina, come a fornire un senso di collegamento, una persuasiva logica colloquiale a un discorso che aspira all’elevazione delle idee. Il Foglio lungo di Urbino e il Foglio lungo di Pavia sono accostabili ai papiri, ai suoi ‘papiri’ e ai papiri della storia. Ma queste pagine che si spalancano di fronte ai nostri occhi sono una continua rilettura, una puntualizzazione, se necessaria, del già visto o di quello che si era pensato di vedere ma non era rimasto sufficientemente fissato nel nostro cuore: così le "tracce" e le "colonne"impresse a rilievo costringono a una nuova, più concentrata meditazione, così gli Scudi ci ricordano da un lato il suo ricorrente impegno di scenografo e dall’altro il disegno essenziale dell’osso di seppia da cui è iniziato, più di mezzo secolo fa, il percorso artistico di Arnaldo Pomodoro: da un piccolo scavo, da una lieve impronta sulle linee allungate e concentriche di un minuscolo labirinto.
Da allora il labirinto si è dilatato all’ indomabile ricerca della maggior conoscenza attraverso lo svelamento di enigmi, attraverso l’interrogazione di segni. In fondo il suo è anche il nostro labirinto alla cui esplorazione affidiamo la speranza di un significato non ovvio ai passi dubbiosi della vita.
DI Luciano Caprile
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