venerdì 21 marzo 2008

Gli artisti Iche hanno voluto imprimere nella tela il dramma dell’alcolismo

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Un artista che ha voluto imprimere nella tela il dramma dell’alcolismo è l’impressionista Edgar Degas (Parigi, 1834 – ivi, 1917) nell’opera L’assenzio (1876; olio su tela – Parigi, Musée d’Orsay). L’assenzio, caro a pittori impressionisti e poeti maledetti, è un liquore alcolico, poco noto in Italia, il cui abuso dà luogo al cosiddetto “absintismo”, una particolare forma di alcolismo che, negli ultimi stadi, è caratterizzata da insensibilità assoluta e degenerazione mentale. Sono proprio questi i sintomi dei protagonisti dell’opera di Degas: un uomo e una donna, indifferenti l’uno all’altra, assorti nei propri pensieri, abbruttiti dalla vita e dall’alcol, lei è una povera prostituta, dalle vesti falsamente lussuose, lui è un bullo corpulento.
Ma non è intenzione dell’artista fare una denuncia sociale delle conseguenze dell’alcolismo. A Degas preme piuttosto esprimere il dramma umano, non attraverso una drammaticità teatrale, bensì mediante la stessa emarginazione dei personaggi, il loro decentramento scenico, secondo quel punto di vista consueto nella sua pittura e che il pittore stesso definì dal “buco della serratura”.
Così, l’angolo in cui si svolge il dramma è avvertito come un frammento qualsiasi della vita, non soltanto del caffè, ma di tutta la grande città entro la quale esso sorge. A ciò concorre anche l’impianto prospettico a zig-zag: la linea del tavolino in primo piano, condotta in diagonale a sinistra, ripresa e continuata dal giornale arrotolato intorno al bastone e sospeso fra i due tavoli, è bruscamente tagliata in direzione opposta da quella degli altri tavolini, fino a perdersi oltre il limite destro, dove continua lo spazio. Ciò risponde all’impegno, comune a tutti gli impressionisti, nell’esprimere la globalità spaziale e temporale della realtà che ci circonda, lasciandone intuire la continuità, aldilà dei limiti imposti dalla cornice, e la transitorietà.
Impressionista, si è detto, anche se Degas si distacca dal gruppo del caffè Guerbois per la linea del disegno che contorna l’oggetto, per i temi legati alla vita cittadina più che alla campagna, per il rifiuto della pittura en plein air, preferendo dipingere in studio invece che dal vivo e affidando alla memoria la scelta di ciò che è giusto eliminare per rendere l’impressione più autentica.

Un artista che, invece, ha vissuto il dramma dell’alcol nella vita vera è Jackson Pollock, pittore statunitense tra i fondatori del movimento dell’espressionismo astratto. Aveva un forte disagio psichico e una serie di problemi personali che lo indussero all’alcolismo e ad una vita sregolata: elementi sufficienti per costruirgli intorno una fama di folle, dalla vita perduta. Nel tentativo di liberarsi di tali demoni con la psicoterapia, Pollock scopre ben presto il suo interesse per la psicologia e i meccanismi dell’inconscio, cui si affianca il fascino esercitato su di lui dall’arte degli indiani d’America, soprattutto dei Navajo con le loro pitture di sabbia, dai surrealisti, che nelle loro opere miravano ad esprimere in modo il più possibile diretto e spontaneo la propria vita inconscia, nonché dagli astrattisti, propugnatori del superamento della figurazione.








Conciliando tali influenze artistiche con la concezione espressionistica dell’opera d’arte come l’espressione più autentica dell’“io” e dei sentimenti, J. Pollock giunge all’espressionismo astratto, che porta alle estreme conseguenze i fondamenti dell’astrattismo, del surrealismo e dell’espressionismo. Infatti, abbandona la forma precostituita, sia pure diversa da quella che ci offre la natura, perché i sentimenti, in quanto astratti, potranno esprimersi soltanto attraverso linee e colori liberamente fusi o accostati al di fuori dell’ordine razionale.
Per raggiungere questo bisognerà dipingere velocemente, seguendo l’impulso istintivo, cosicché il segno sia tracciato prima che la ragione possa intervenire con le sue sovrastrutture. Di qui il nome “action painting” (pittura d’azione) con cui il critico H. Rosenberg, nel 1952, definì la pittura di Pollock, imperniata sulla registrazione immediata dei gesti del pittore sulla tela. E’ la tesi romantica dell’arte come espressione del “genio” che crea liberamente, per ispirazione improvvisa, quasi senza rendersene conto.
Per raggiungere il massimo dell’espressione e della gestualità, Pollock abbandona la stesura del colore con il pennello, che è sempre un mezzo controllato dalla mano e quindi dalla ragione. La sua tela non è appoggiata al cavalletto ma, di dimensioni grandiose e priva di cornice, è adagiata in terra. Dunque, secondo la tecnica del dripping, fa colare sulla tela, con gesti immediati e non controllati, sgocciolature e spruzzi di colore. Oltre che dei colori ad olio tradizionali, Pollock si serve anche di colori prodotti per l’industria (smalto, vernice metallizzata, acrilico ecc.), ottenendo effetti imprevedibili, in quanto ogni materiale colato sulla tela, si comporta diversamente: si rapprende e coagula in chiazze, oppure scorre e forma filamenti sottili, o ancora si espande in varie direzioni.
Pollock, che utilizza tecniche insolite, come camminare sulla tela per “entrare” meglio nel dipinto, descrive così il suo metodo di lavoro: “La mia pittura non nasce sul cavalletto. Ponendo la tela sul pavimento mi sento più a mio agio, più vicino, più parte del quadro. E’ un po’ come il metodo usato da certi indiani del West che dipingono con la sabbia. Quando ci sono dentro, nel mio quadro, non mi rendo conto di quel che sto facendo. E’ soltanto dopo un certo periodo […] che riesco a vedere che direzione ho preso. E non ho paura di far cambiamenti, e neanche di distruggere l’immagine, perché so che il quadro ha una vita sua e io non cerco che di farla venir fuori”.
Per Pollock la pittura è materialità, lui dipinge con tutto il corpo. Una danza della pioggia, un momento di trance, una specie di frenesia dionisiaca, molto spesso complice davvero il dio Bacco, per quella debolezza che Pollock aveva per l’alcol. Nascono così i suoi quadri, intrichi di linee e colori, parossistica e tumultuante espressione interiore, che conquistano in breve l’America e l’Europa, al punto da indurre i grandi collezionisti, come Ben Heller, a cambiare casa per poter appendere le sue tele enormi.
Il processo creativo, il suo modo di dipingere, ha un documento di eccezione: il cortometraggio girato nel 1950 dal fotografo Hans Namuth. “E’ un documentario bellissimo e importantissimo dal punto di vista artistico perché ha influenzato molto l’arte europea”, spiega Marisa Volpi, critica d’arte e scrittrice, docente di Storia Contemporanea alla Sapienza di Roma, autrice di un saggio sull’arte americana del ‘900, “Ha fatto capire, a tutti gli artisti, che cosa era davvero l’action painting di Pollock: un conto è parlarne e un conto vedere con i propri occhi le evoluzioni del pennello, lo sgocciolare del colore sulla tela, il corpo che diventa strumento stesso della pittura”.
La vita di questo grande artista, che ha rivoluzionato il modo di fare pittura, si è conclusa nel 1956, a 44 anni, in un incidente d’auto.

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