sabato 6 ottobre 2007

La follia nella pittura del Cinquecento e dell'Ottocento.

 A CURA Enza Aurisicchio

  L’ideale di bellezza perseguito dall’arte ha eluso ed escluso sino ad un dato momento storico immagini e soggetti non
riferibili a quei criteri di regolarità, di equilibrio e di armonia attraverso i quali contemplare la perfezione della natura.
    La follia, intesa come alterazione della personalità umana, è stata accolta nel grande repertorio figurativo dell’arte inizialmente come Arcano, ovvero come immagine nella quale confluivano misteriosamente componenti umane, elementi magici e astrologici ispirati all’antica scienza della cabala.
    La rappresentazione del folle, dell’uomo “fuori di senno” è, infatti, una delle tante figure simboliche dei tarocchi. Come XII Arcano Maggiore il matto, personaggio dal quale deriva il Jolly Joker (l’allegro burlone) del mazzo di carte francesi, rappresenta la fina del gioco e quindi della vita, il grado supremo della iniziazione e per la presenza del cane che lo morde, l’espiazione (fig. 1).
    La XLII carta dei Tarocchi Visconti (New York, Pierpont Morgan Library) (fig. 2), miniati intorno al 1460, mostra il Matto come un uomo scalzo, vestito di stracci, con il capo coronato da penne di pollo, armato di una lunga mazza. L’espressione ebete del viso è la peculiarità più evidente del folle, di colui che non è “capace di passare attraverso tutti i rischi con quella incoscienza e fortuna che sono, appunto, proprie dei pazzi, secondo alcune tradizioni popolari vive in molte regioni d’Europa” (Mario Bussagli).
 IL CINQUECENTO
    E’ solo nel corso del Rinascimento che la follia diventa oggetto di indagine speculativa, testimoniata da scritti, da trattati e da numerose rappresentazioni.
    Una significativa riflessione su questo argomento viene infatti prodotta, tra la fina del 1400 e la soglie del secolo successivo, soprattutto nell’area culturale del Nord Europa,  percorsa da correnti di pensiero sia mistiche che eretiche.
    Nell’Elogio della follia, pubblicato nel 1508, Erasmo da Rotterdam distingue due forme di pazzia. Una buona di chi assecondando le proprie passioni e seguendo il proprio istinto, affronta quello che la vita gli presenta, adattandosi alle situazioni e alle necessità, un po’ come il matto dei tarocchi.
    L’idea della mutevolezza dell’essere in armonia con la mutevolezza della natura attraversa tutto il Cinquecento europeo e non manca di esercitare il suo influsso anche in IItalia Ludovico Ariosto, infatti, riprende questo concetto nell’Orlando furioso, edito nel 1516. L’eroe da saggio che era, diventa pazzo, perché si vota totalmente alla guerra e l’impatto con la vita, rappresentato dall’innamoramento per Angelica, ne determina la crisi:
                   Dirò d’Orlando in un medesimo tratto
                  Cosa non detta in prosa mai né in rima:
                  Che per amore venne in furore e matto,
                  D’uom che sì saggio era stimato prima.
    Questo è il secondo aspetto della pazzia, di valenza negativa descritto da Erasmo; è la follia che si può riconoscere nei maniaci, in coloro che perseguono un solo scopo nella vita, non ne comprendono l’essenza profonda consistente, appunto, nella sua varietà.
    La follia, considerata per di più come una sorta di punizione inflitta all’uomo per la continua caduta nel peccato e per il perseguimento di piaceri personali, si manifestava, secondo l’opinione comune dell’epoca, fortemente improntata ad un rigoroso moralismo, attraverso la perita della ragione e l’alterazione dell’aspetto fisico.
    Da questo punto di vista il pittore fiammingo Hieronymus Bosch     (1450-1516) può essere considerato un singolare interprete della follia. Una assurda mescolanza di esseri umani con oggetti, animali e vegetali, creature fantastiche e mostruose, popolano i suoi quadri in una delirante atmosfera surreale. Sebbene il riconoscimento del significato dei soggetti di Bosch incontri numerose difficoltà, denominatore comune della sua pittura sembra essere la degenerazione dei costumi dell’epoca e la rappresentazione della follia dell’umanità, perseverante nel vizio e nella corruzione ed “inesorabilmente incamminata verso la perdizione” (E. Cerchiari-L. De Vecchi).
    Hieronymus Bosch dipinge tra il 1475 e il 1480 La cura della follia (Madrid, Prado) (fig. 3), una sorta di ironico commento delle ambigue capacità curative dell’arte medica, che in quel periodo, vantava poteri superiori: Il dipinto è accompagnato da una scritta in tedesco, che recita: “Maestro cava fuori le pietre (della follia), il mio nome è lubbert das (letteralmente bassotto castrato, vale a dire sempliciotto, credulone).
    La follia, secondo una credenza popolare, era provocata da una serie di pietre conficcate nella testa che un medico, con una semplice operazione, poteva estrarre. Il chirurgo ritratto da Bosch, indossa una lunga veste ed ha sulla testa un imbuto, mentre una donna che osserva la scena appoggiata ad un tavolo, regge con il capo un libro. L’imbuto e il libro, attributi tipici della sapienza utilizzati in maniera impropria, diventano nella visione di Bosch motivi di derisione della pratica medica che solo la stoltezza degli individui può ritenere capace della guarigione dalla follia. Non a caso il tulipano palustre estratto dal medico, indicativo del denaro, insieme al pugnale che trapassa la borsa del paziente, suggeriscono chiaramente come l’intervento chirurgico abbia finito con lo spillare denaro al credulone di turno.
    Bosch dedica alla follia un altro dipinto, da alcuni studiosi messo in relazione con la pubblicazione nel 1494 del poema di Sebastian Brandt La nave dei folli. La tavola conservata al Louvre di Parigi (fig. 4), reca lo stesso titolo del testo e rappresenta una barca occupata da una allegra brigata di gaudenti, secondo una interpretazione dell’insolito soggetto. Una monaca, accompagnandosi con il liuto, intona un canto insieme ad un frate francescano intorno ad una tavola sulla quale sono posati un piatto di ciliege e un bicchiere. Numerose le altre figure affastellate nell’angusto spazio dell’imbarcazione battente l’insegna dei lunatici. Sulla destra un uomo, afferrandosi ad un tronco da cui penzola un pesce, vomita, mentre sullo stesso tronco un matto vestito secondo l’uso dei tarocchi, beve appollaiato su un ramo. Altri uomini cercano di addentare un dolce sospeso ad un filo ignari, come qualcuno fa notare, che il pollo conficcato all’albero maestro della barca, sta per essere sottratto da un ladro nascosto dietro un cespuglio sulla riva del fiume.
    La scena sembra descrivere, più che un lauto banchetto, il magro pasto di poveri folli. Il lasciarsi trasportare alla deriva dalla corrente, allude metaforicamente alla punizione assegnati ai peccatori per Gola (uno dei sette vizi capitali), sebbene la simbologia  legata a molti elementi presenti, come le ciliege (simbolo del piacere e della mancanza di pudore per alcuni, emblema del paradiso per altri) o il vomito (indizio della perdizione dei peccatori e della disgregazione del corpo), complichi il significato del dipinto per più esigenti lettori.
    Erede della pittura visionaria di Bosch, Pieter Bruegel il vecchio (1525-1569) trasferisce nella concretezza del mondo contadino e nel grottesco realismo della popolazione dei Paesi Bassi del XVI secolo, le storie ispirate ai vizi e alle virtù del suo tempo.
    Dulle Griet (Pazza Greta), (Anversa Museum Mayer van den Bergh) (fig. 5) riprende il tema della pazzia, caro a Bosch e alla speculazione intellettuale olandese di quel periodo.  Probabile allegoria dell’Avarizia (uno dei sette vizi capitali), il dipinto rappresenta l’assalto a cui si prepara Greta la pazza, armata di spada, di corazza, di guanto metallico e di un elmo che risulta in realtà una scodella di metallo capovolta sulla testa. Il bottino, racchiuso in un piccolo forziere che la donna stringe sotto il braccio, si accresce di altri oggetti contenuti in due panieri e in una sacca: coppe, padelle, un coltello e una cinghia. Personificazione della strega per alcuni, la donna si incammina verso l’ingresso spalancato dell’Inferno: un monito per quanti insistono nel vizio al punto da perdere la ragione.
 L’OTTOCENTO
    Sotto un segno diverso viene affrontato il tema della follia nell’arte dell’Ottocento. La sensibilità romantica, analizzando tutte le possibili e varie manifestazioni dell’animo umano, fa rientrare nell’ambito della sua indagine anche quelle derivanti da disturbi delle facoltà mentali.
    Il quel periodo, infatti, un’opinione diffusa riteneva che le forti passioni potessero originare la follia:
    Théodore Gericault (1791-1824), pittore francese appartenente alla corrente romantica, dipinge intorno al 1822 dieci ritratti di pazzi, dei quali soltanto cinque sono giunti fino a noi. Il pittore fissò sulla tela i volti di alcuni ricoverati presso l’Ospedale della Salpietère a Parigi, destinando i quadri al dottor E. J. Georget come illustrazioni per un libro o per alcune lezioni sulle malattie mentali.
    La pittura assume quindi il valore di un documento, di una testimonianza e rinunciando alle deformazioni grottesche che nei secoli precedenti avevano contrassegnato i malati di mente, acquista un nuovo significato per la volontà di penetrare, attraverso una realistica ed oggettiva descrizione di questi sfortunati individui, un aspetto doloroso della natura umana. Il pittore si sofferma così a riprendere attraverso la mimica facciale e attraverso la contrazione dei muscoli del volto alcune forme di monomania, ovvero di paranoia provocata dalla concentrazione per un’idea fissa (la grandezza militare, il gioco, l’invidia).
    In Alienato con monomania del comando militare (Winterthur, Collezione Oskar Reinhart) (fig. 6), il pittore riprende il malato di tre quarti per accentuare l’incongrua relazione esistente tra lo sguardo severo ma perduto nel vuoto e l’atteggiamento incerto della bocca intorno alla quale la barba incolta denuncia trasandatezza e trascuratezza. Il monomane si rivela attraverso un aspetto esteriore contrassegnato da improbabili emblemi militareschi, unici fregi di una solitudine esistenziale che lo sfondo scuro rende ancora più atroce.
   I colori spenti delle vesti della Alienata con la monomania dell’invidia (Lione, Musée des Beaux Arts) (fig. 7) si accendono e acquistano energia intorno al volto della donna che scruta con gli occhi piccoli e indagatori l’oggetto inesistente della sua pazzia. Anche in Alienata con la monomania del gioco (Parigi, Musée du Louvre) (fig. 8) Gericault affida ad un sapiente gioco di tonalità di grigio, usate per caratterizzare le vesti e le ciocche scomposte intorno alla cuffia, la capacità di penetrare lo stato di infermità della donna. Ancora una volta, con grande serietà affronta un tema scottante per la società di quel periodo, restituendo attraverso il linguaggio dell’arte una dignità a persone del tutto incapaci di vivere un’esistenza normale.
    Sempre nell’Ottocento una diversa visione del problema della follia, osservato nei suoi risvolti sociali è affrontato da Telemaco Signorini (1835-1901), un pittore che aderisce alla corrente italiana dei Macchiaioli: Il dipinto La sala delle agitate nel manicomio di San Bonifacio (Venezia, Galleria d’arte moderna di Ca Pesaro) (fig. 9) realizzato nel 1865 provocò delle violente reazioni in un pubblico che era abituato a contemplare stucchevoli soggetti storici o religiosi di stampo ancora romantico: L’accoglienza ricevuta dall’opera può essere misurata dalle parole di Giuseppe Giacosa che così si espresse: “La sala delle agitate al manicomio di Firenze è un quadro che vi mette addosso i brividi della paura: E’ un quadro che non mi piace, ma che esercita le spaventose attrazioni dell’abisso e che rivela nell’autore una giustezza e una robustezza quale a pochi è dato di raggiungere”.
    Uno stanzone enorme e spoglio, riempito violentemente da una luce intensa e abbacinante, ritaglia in controluce le sagome delle pazze. Poche sono in piedi, la maggior parte è bloccata dietro allineati contro il muro, che formano una ulteriore barriera in un ambiente chiuso da grate e da cancelli. Questa spettrale visione di un luogo destinato al ricovero dei malati di mente, doveva far riflettere l’opinione pubblica della nazione appena formatasi, sull’esistenza di una condizione umana diversa e ignorata. Una attenzione che il nuovo stato avrebbe dovuto affrontare e che la denuncia fatta da un’arte, ritenuta fino a quel momento, espressiva solo di valori estetici, segnalava in maniera urgente e perentoria.

 

Nessun commento: