Tobey, all’attacco degli anni Quaranta,
RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI
Tobey, all’attacco degli anni Quaranta, ed era rapidamente divenuto una delle marche connotative dell’Espressionismo astratto. Come Tobey,
che il più giovane William ammira, anche Congdon impiega delle linee continue, che pulsano di vita autonoma; egli tuttavia tiene a preser-
vare alla rappresentazione un motivo centrale, e lo fissa in una sorta di nera macchia d’inchiostro: un sole scuro, epicentro dell’esplosione,
che è emblema della città convulsa che distrugge se stessa. Il tema della città nera viene ribadito in una serie di opere di intenso vigore che
Congdon esegue dopo aver fatto ritorno a New York, a conclusione di un breve ma fruttuoso soggiorno veneziano, nell’estate del 1948. In
Destroyed City il sole nero si è spinto in alto, sopra l’orizzonte. I cupi schizzi che colano sono solo in apparenza casuali, e rivelano invece la
loro inevitabilità; assieme alle linee orizzontali, non meno tenebrose, essi stabiliscono un irregolare tracciato che rinvia alla struttura stessa di
Manhattan. Pare quasi che una griglia di Mondrian si sia trasformata in una composizione organica, nella metafora di una città che vive.
L’ordinato equilibrio dell’olandese ha ceduto il posto alle complesse relazioni della tragedia umana.
In notturni, come Black City, Red City, ovvero in un dipinto praticamente monocromo come Black City on Gold River,tutti del 1949, il sole
è divenuto una sfera di fuoco aranciato, in alto, sopra l’orizzonte. A Parigi, quattro anni prima, Congdon aveva visitato la prima personale
di Dubuffet, alla galleria Drouin: lo avevano colpito, in quella pittura intenzionalmente infantile, gli scenari urbani fatti di strade strette, di
facciate vivacemente colorate, popolati da buffe figurette. Ma quando tocca a lui dipingere, pochi anni dopo, i caseggiati di New York, que-
sti diventano scuri e minacciosi. Li ritrae dall’alto, maglia tenebrosa di forme confuse e di movimenti incessanti, facendoli coincidere con il
ca odierna che interpreta la famosissima serie della cattedrale di Rouen di Monet in chiave simbolico-patriottica, e tralasciando ogni parago-
ne fra i due pittori, si può comunque constatare che Congdon riuscì a plasmare le facciate di San Marco in modo più espressivo, più vitale,
senza venir meno per questo all’esigenza di trasformare la realtà architettonica in motif strettamente pittorico.
A Providence, a New York e a Napoli Congdon aveva dipinto esclusivamente quartieri industriali o slums o comunque vedute senza nulla di
pittoresco o di monumentale. A Venezia affronta invece, per la prima volta, i monumenti più nobili, i più conosciuti. Providence, New York
e Napoli hanno in comune una certa continuità, di vita e di storia, hanno insieme un passato e un futuro. Venezia, invece, si presenta come
passato allo stato puro. Quel che Venezia incarna è dunque un destino compiuto, una storia giunta alla propria fine. Come in un grande
poema, non gli si può aggiungere niente, non si può cambiare niente... si può solo rileggerlo. A Venezia non si tratta, come a New York o a
Napoli, di parlare delle condizioni attuali, esprimendo compassione, oppure indignazione. Per questo la Venezia di Congdon è tanto diver-
sa da quella di un Guardi, il melanconico testimone che assiste al crepuscolo di una storia la cui fine non è però ancora comprensibile, o da
quella di un Turner, che prende le mosse da Lord Byron o ancora da quella di August von Platen uno sfondo, cioè, tutto visione nostalgica,
senza corpo, senza realtà immediata. La Venezia di Congdon invece è sostanziosa, sta davanti a noi, ostenta i suoi segreti portentosi, come le
Sibille o come Tiresia, i veggenti che hanno terminato il percorso della vita e del destino. Sanno tutto, ma proprio perché hanno compiuto
la loro esistenza sono impassibili e, se parlano, parlano in maniera equivoca, enigmatica.
le pagine che ad un tratto, con commozione, si ritrovano in un’opera che si immaginava di non avere mai letta, entrassero soli dal libro dimenti-
cato della mia prima infanzia?». Non solo un’immagine rammemorativa, dunque, ma che nascondesempre qualcosa, dietro la nebbia della rifles-
sione, che non basta più. «Oppure non li avevo mai visti, e nascondevano dietro di sé[...] un senso oscuro, difficile da afferrare quanto un passa-
to lontano, dimodoché, sollecitato da essi ad approfondire un pensiero, credevo di dover riconoscere un ricordo? [...] Non sapevo. Intanto veni-
vano verso di me: forse un’apparizione mitica, girotondo di streghe e di Norne che mi proponevano i suoi oracoli [...] Come ombre, sembravano
chiedermi di portarli via con me, di restituirli alla vita. Nella loro gesticolazione ingenua e appassionata, riconoscevo il rimpianto impotente d’un
essere amato che ha perduto l’uso della parola [...], che sente che non potrà dirci quel che vuole e che non sappiamo indovinare. Presto, a un incro-
cio di strade, la carrozza li abbandonò. Mi trascinava lontano dalla sola cosa che credessi vera, da ciò che mi avrebbe reso veramente felice: somi-
gliava alla mia vita». «Vidi gli alberi allontanarsi agitando disperatamente le braccia e sembravano dirmi: Quel che non apprendi oggi da noi non
lo saprai mai. Se più tardi, infatti, ritrovai il genere di piacere e di inquietudine che ancora una volta mi era avvenuto di provare [...] di quegli
alberi, invece non seppi mai che cosa avessero voluto portarmi né dove li avessi veduti. E quando la carrozza svoltò e io volsi loro la schiena e ces-
sai di vederli, mentre la signora di Villeparisis mi domandava perché avessi quell’aria trasognata, ero triste come se avessi perduto un amico, come
se fossi morto io stesso, avessi rinnegato un morto e disconosciuto un dio». «Come se avessi perso un Dio».
Forse il Dio della convinzione pittorica, dell’illusione creativa.
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William Grosvenor Congdon (15 aprile 1912, Providence, Rhode Island – 15 aprile 1998, Milano) è stato un pittore statunitense interessato a temi religiosi. Ha ottenuto notorietà come artista a New York nei primi anni quaranta, trasferendosi subito dopo in Europa.
Fu grande amico di Don Luigi Giussani e finanziatore iniziale della casa editrice Jaca Book.
Dal settembre 1963, iniziò una lunga e profonda amicizia col cantautore forlivese Claudio Chieffo: il rapporto produsse proficui reciproci arricchimenti.
Nel 1998 è stato pubblicato il libro Il sabato della storia, con alcuni suoi lavori commentati dal futuro Papa Benedetto XVI.
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