I ragazzi terribili di New York
Giuseppe Frangi
La svolta nell’arte nel dopoguerra. Pollock, Rotko, Congdon e gli altri rivoluzionarono
il rapporto con l’opera d’arte. «Cominciarono a considerare la tela come un’arena in cui agire, non più un supporto di una pittura bensì un evento»«Non possiamo più dipingere uomini che suonano il violoncello o mazzi di fiori: il soggetto è l’elemento primo della pittura; la storia della mia generazione comincia con il problema di cosa dipingere». Questa dichiarazione di Barnett Newman fotografa nella sua essenzialità la svolta che contrassegnò, alla fine della Seconda Guerra mondiale, la storia dell’arte. Per la prima volta, anche per tante ragioni storiche, il baricentro si era spostato fuori dall’Europa: New York era diventata indiscutibilmente la città faro, anche grazie al fatto che molti artisti erano emigrati oltreoceano per sfuggire alle dittature che avevano tarpato la libertà nel vecchio continente (tre dei massimi esponenti della scuola di New York non sono americani: Mark Rotko, russo, Willem de Kooning, olandese, Arshile Gorki, armeno). E anche la Cia mise il suo zampino: avendo intuito il pericolo di un’egemonia comunista sulla cultura, aveva finanziato e incoraggiato le forme più estreme dell’arte americana, perché, imponendosi come tendenza, fossero in grado di sottrarre centralità al nemico. Così accadde che, grazie a straordinari finanziamenti, artisti anarchici e detestati dalla moral majority del tempo avessero sfondato nell’arco di pochissimo tempo. In realtà il calcolo, per quanto scioccante fosse stato, si rivelò molto avveduto: bisognava contrapporre il culto della libertà individuale, su cui si reggeva la società americana, all’ideale collettivista che l’Unione Sovietica tentava di esportare.
Shock e consenso
Già nel 1948 e nel 1950 le due edizioni della Biennale veneziana videro il trionfo dei padiglioni americani, nei quali erano stati presentati al mondo artisti come Gorki, Rotko, de Kooning e il grande Pollock. Lo shock e il consenso furono immediati, tanto che Life, il settimanale più letto dalle famiglie americane, aveva dedicato una copertina allo scandaloso Jackson Pollock, con un titolo che suonava ironico ma non troppo: «È lui il maggior pittore americano del nostro tempo?». Gli Stati Uniti, per la prima volta nella loro storia, facevano scuola. Ed era scuola vera, visto che quella di New York si era costituita formalmente, un po’ sulla falsariga dei gruppi che nella prima metà del secolo avevano rinnovato radicalmente l’arte europea. Il nome di quella scuola, aperta nel 1948, era Subjects of the Artist ed era stato suggerito da Barnett Newman. Erano corsi serali e liberi, tenuti dai quattro artisti che per primi avevano aderito al progetto, mentre il venerdì era concepito come una sessione aperta di confronto alla quale erano invitati anche gli esterni.
Ma il vero motore della Scuola di New York fu il sistema delle gallerie: in particolare quelle rette da due grandi protagoniste della scena culturale americana di quegli anni, Betty Parsons e Peggy Guggenheim, e quella di Leo Castelli. Personaggi colti, con il gusto della sfida, al centro di reti sociali di altissimo livello, avevano subito adottato e quasi coccolato artisti che certamente avrebbero avuto, senza di loro, molte difficoltà a imporsi sul mercato. Invece, grazie alla loro abilità, la Scuola di New York divenne subito un riferimento per i giovani artisti di tutto il mondo in cerca di nuovi orizzonti e di nuove prospettive. Se l’Europa era ostaggio del picassismo e dei traumi della guerra, l’America s’imponeva come il nuovo mondo dell’arte.
Modena, Torino e Venezia
Ma chi erano questi artisti che si erano imposti all’attenzione del mondo nell’arco di pochissimi anni? Sono nomi ultracelebri, che ora il pubblico italiano può riscoprire dal vero, grazie alla fortunata concomitanza di tre mostre a Modena, a Torino e a Venezia. A Modena, con la collaborazione del Guggenheim Museum, è stata montata una mostra che fornisce uno sguardo d’assieme sul fenomeno. A Torino e Venezia, invece, tengono la scena due protagonisti della Scuola di New York: Franz Kline al Castello di Rivoli e William Baziotes, in laguna, al Museo Guggenheim. Chi le visitasse può rendersi conto di quanto sia centrale l’affermazione di Barnett Newman citata all’inizio: il filo rosso che unisce l’esperienza di tanti pittori dalla tempra poetica così diversa è proprio quello di un rapporto diverso con l’opera. Robert Motherwell, una delle personalità più carismatiche del gruppo, sintetizzò così questo filo rosso: «Un pittore… a volte scopre che il quadro non è stato dipinto da lui, ma piuttosto che è il quadro ad aver dipinto lui, che lui, che si credeva il soggetto, è diventato l’oggetto, che il quadro conosce lui più di quanto lui conosca il quadro». Era un vero e proprio rovesciamento, come testimonia l’esperienza del più celebre tra i ragazzi terribili di New York: Jackson Pollock. Fu lui a inventare il dripping, una tecnica che prevedeva lo sgocciolamento dei colori sulle tele tenute distese orizzontalmente. E da lui derivò il nome con il quale il movimento è passato alla storia (e che oggi dà il titolo alla mostra modenese): Action Painting. «Ad un certo punto - scrisse Harold Rosenberg, la mente filosofica e critica del gruppo - i pittori americani, uno dopo l’altro cominciarono a considerare la tela come un’arena in cui agire, invece che come uno spazio in cui riprodurre, ridisegnare... La tela perciò non è più supporto di una pittura, bensì di un evento». Insomma, la vita, come un ciclone, aveva ancora una volta travolto le regole dell’arte, spalancando prospettive nuove cariche di rischi e di enorme suggestione.
Pittura “automatica”
Ma bisogna fare attenzione: una visione troppo vitalistica delle opere dei maestri di New York è fuorviante. Nel corto circuito che li condusse su strade tanto anti-accademiche, in realtà il caso non prevale mai. Persino il dripping di Pollock - che nelle intenzioni veniva venduta come pittura “automatica” - è pittura tenuta sempre sotto controllo, in cui l’artista, pur annullando le distanze tra sé e l’opera, sa sempre dove va a parare. Come scrisse Clement Greenberg all’indomani della mostra in cui Pollock, nella galleria di Betty Parsons, nel gennaio 1949, presentò il suo celebre e sontuoso Numero 1A (oggi conservato al Moma di New York), scrisse che il dipinto «nell’insieme è ben contenuto nella tela come alcune opere dei maestri del Quattrocento». E che cosa si può dire dello straordinario quadro di William Congdon (anche lui alla fine degli anni 40 faceva parte della scuderia di Betty Parsons) presente alla mostra di Modena, intitolato Mattino Invernale, se non che, nell’apparente e drammatico disgregarsi dell’immagine, nel suo prossimo cadere a pezzi, tutto è tenuto in miracoloso, ma controllatissimo, equilibrio? Ma la prova provata che i grandi maestri di New York avessero nel loro dna anche i cromosomi della classicità è nelle opere del più grande di loro: Mark Rotko. Autore di quadri, spesso immensi, composti soltanto di solenni campiture cromatiche (due degli anni 60 sono presenti in mostra a Modena), Rotko esce dai suoi corpo a corpo con le tele con l’autorevolezza e la vastità di un classico. Nell’apparente farsi tabula rasa, la sua pittura si salda, in realtà, con il passato: come può capire chiunque abbia messo piede nella sala che alla nuova Tate Gallery di Londra accoglie le enormi tele pensate per il Four Season di New York. Quelle tele magre e sprofondate nel silenzio si compongono in un insieme colossale. Immagini che salgono a galla, sulla superficie del tempo, da profondità inaudite.
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