lunedì 22 ottobre 2007

Remo Bianco. La singolarità di un artista

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

L'arte improntale. Le testimonianze
E stato scritto che le impronte inizierebbero nei primi anni cinquanta, o addirittura nel '48. Ma qui si impone una precisazione. In un appunto diaristico dell'artista datato 15 maggio 1948 leggiamo: “Dipingo con un nuovo sistema: sporco di colore gli oggetti e li imprimo sulla tela, adopero anche le dita”. Come si vede, si tratta di un procedimento molto diverso da quello delle impronte in gesso, che vanno collocate più avanti, alla metà degli anni cinquanta, a ridosso del manifesto dell'“Arte improntale”. Bianco stesso dichiarerà in seguito: “Nel 1956... è ripresa questa ricerca improntale, quando ho potuto disporre di materie plastiche, materie che fossero adatte ad essere versate in queste forme di gesso e quindi a essere riprodotte. Sognavo delle pareti intere di queste impronte Queste impronte possono essere di tutto. anche degli oggetti più banali, più umili che ci circondano: è una specie di 'recupero' di questi oggetti”. Prima di vedere più da vicino in che cosa consistano le impronte, ribadiamo ancora una volta un'istanza metodologica.
Non bisogna confondere le idee e le invenzioni poetiche, di cui Bianco era una miniera (o, se vogliamo restare in una metafora geologica, un vulcano) con la loro concreta realizzazione, che spesso avviene in tempi successivi. Del resto, sia detto per inciso, sono convinta che una parte di responsabilità dell'imperfetto apprezzamento dell'opera di Bianco nei panorama artistico attuale, sia dovuta, anche, all'implausibilità di certe date. Si tratta di date filologicamente azzardate, basate su testimonianze tarde, che finiscono per ottenere l'effetto opposto a quello voluto, e cioè a far dimenticare il ruolo propulsivo che Bianco effettivamente svolse, in tempi successivi (tempi che rimangono comunque precoci, anche se li si posticipa dì qualche anno).
Ma veniamo alle Impronte. Le piccole, incantevoli tavole di gesso, che racchiudono come in una morsa chincaglierie di ogni forma e specie, minutaglie da casa di bambola, corredi domestici per bimbe che giocano a fare le signore, e per bimbi che sognano dì fare i cavalieri, sono composizioni in cui il recupero dell'oggetto è già pienamente compiuto. Si tratta in realtà di scrigni della memoria, di solai metafisici, in cui si rifugiano e trovano asilo cose diverse: cavallini della stanza dei giocattoli, alberelli della fattoria dei cowboys, palline e biglie, specchietti della Regina crudele che si interroga su chi sia la più Bella del Reame, lampadine, transatlantici, pipe, caffettiere...
Bianco ricerca una perpetua condizione di infanzia e pratica un suo personale primitivismo: un primitivismo sui generis (si potrebbe definirlo un primitivismo oggettuale), che si carica di caratteri di affabilità, di grazia, di delicatezza espressiva. La sua gentilezza d'animo, quella psicologia fragile e vulnerabile, capace magari di atti disperati, ma singolarmente soave e generosa, che tutti coloro che lo conobbero sono unanimi nel testimoniare, trova una traduzione in queste opere ridenti, sospese fra gioco e memoria.
Ma qual è il significato di questi lavori? Nel 1956 Bianco pubblica. il Manifesto dell'arte improntale, che è bene riportare per intero. Scrive dunque l'artista: “L'arte dell'avvenire è posta sotto il segno dell'improntale. IMPRONTA è tutto ciò che resta impresso nel nostro subcosciente. IMPRONTA della società stessa, in quanto immagine di tutti quei condizionamenti che l'essenza vita oggi comporta. Dichiaro perciò che l'uomo non può evitare di essere impronta di una società che continuamente muta e ci circonda sempre di cose nuove. Per sfuggire ai fenomeni non sempre desiderati l'uomo dovrà impadronirsene, creando un'impronta che non sarà più l'oggetto, ma un qualcosa di conforme alla sua natura. Tutto ciò richiede un modo diverso di espressione che tenga conto di tutti questi presupposti. Dichiaro che le mie impronte sono una documentazione universale che catalogherà tutte le cose venute a contatto con me attraverso una realtà ridimensionata della verità attuale. Dichiaro che in un prossimo futuro gli uomini prenderanno le impronte per poter possedere la realtà che li circonda”.
La lunga citazione era necessaria, non solo perché gli scritti di Remo Bianco sono poco diffusi, ma anche perché questo manifesto, nonostante alcune espressioni involute e criptiche, spiega bene l'atmosfera, l'orizzonte espressivo in cui Bianco si muove, quando crea le Impronte.
Catalogare tutte le cose venute in contatto con lui: è questo l'intento dell'artista. L un intento, come si vede, più vicino a un dizionario borgesiano o a una madeleine proustiana, che non a presupposti di origine pop. Bianco ha in mente un sillabario universale, dove però il protagonista è sempre l'uomo, anzi lui stesso. La sua è una ricerca autobiografica, in cui le cose che si sono impresse sulla sua pelle, nel suo animo, riaffiorano imprigionate nella superficie del gesso.
Sentiamo ancora l'artista: “lo facevo delle impronte in gesso (mi interessava raccogliere delle impronte lasciate dalle macchine, per esempio), e questa ricerca così è stata una specie di catalogazione di avvenimenti, di fatti e di cose. Mi ricordo le persone che si incuriosivano a vedermi arrivare con un secchio di gesso, avevo tutta l'aria di un poliziotto che facesse delle indagini e prendesse delle impronte sul pavimento, sul selciato”.
Torneremo sulle impronte. Notiamo però come queste opere si collochino in un ambito di pensiero fervido di sviluppi per l'arte non solo italiana. Come ha chiarito Milklos Varga, che ha stretto con Bianco una lunga amicizia e su di lui ha scritto alcune intense pagine: “E nell'ordine di questo pensiero esistenzialista prendono l'abbrivio, sia pure con altre motivazioni, le impronte digitali del 1960 di Piero Manzoni, e le impronte corporali del 1960-62 di Antonio Recalcati, mentre Yves Klein, sempre nel 1960, viene alla ribalta con le sue spettacolari naturometrie, impronte di corpi femminili, cosparsi di blu sulla tela bianca”,.
Contemporanee alle Impronte, e quasi speculari a queste ultime (le prime eseguite “per via di levare”, le seconde “per via di porre”) sono i Sacchetti, o, come Bianco li intitola, le Testimonianze, iniziate dopo il 1955. Sono appunto, queste ultime, sacchetti di plastica ordinatamente allineati, in cui sono racchiusi piccoli oggetti trascurabili.
Sentiamo ancora l'artista: “Anche i 'sacchetti', i quadri con appesi tanti sacchettini di cellophan, fanno parte del periodo improntale. Questi sacchettini sono più o meno del '56, però ne ho fatti ancora, perché certe volte sento il bisogno di continuare. ( ... ) Questi sacchettini sono di un materiale (in fondo potrebbe essere arte povera) di scarto, buttato via, trovato nell'immondizia o in cassetti di oggetti distrutti e non distrutti, ma comunque vecchi e con un aspetto molto poetico e messi insieme in sacchettini: sono appunto tutti gli oggetti che noi dimentichiamo e di poco valore: conchiglie, sassolini, medaglie, monete, francobolli, perfino mozziconi di sigaretta, bambole rotte, una pipa, un giocattolino, specialmente giocattoli da latteria e via dicendo. Cosa mi prefiggevo quando ho cominciato a fare questo tipo di quadro, ad appendere questi sacchetti pieni di oggetti, di residui, sulla tela? Vengono subito in mente i 'pacchetti' di Christo, le 'accumulazioni' di Arman, che in realtà non c'entrano niente, anzi in quel momento non ne ero neanche al corrente”.
Come si vede, c'è nell'atteggiamento di Bianco un risvolto emotivo, sentimentale (anche se non sentimentalistico). Le sue operazioni concettuali non sono sillogismi filosofici, non nascono da un'istanza puramente teorica, né tantomeno cerebrale. Sono, anche, esperienze affettive, proprie di chi sa chinarsi sulla realtà più dimessa e perdente, e vuole valorizzarla. “Amo il perdente, ma quando vince si sciupa” diceva l'artista.
Giocare con la memoria, trattenere il passato che si allontana, dare attenzione a ciò che nella vita è considerato ultimo: c'è anche questo risvolto, per così dire etico, nel lavoro di Bianco.
Prosegue ancora l'artista: “Io volevo ricostruire parte della mia vita, 'quasi tutti questi oggetti erano miei, appartenuti a me, alla mia infanzia. Poi ho collegato questo problema agli altri, ricostruendo attraverso questi oggetti la vita dell'uomo, raccontando proprio ciò che era avvenuto attraverso l'incontro con gli altri in una giornata: per esempio di una bambina, che mi aveva dato la sua bambola: questa bambola l'avevamo rotta ed eravamo andati da suo padre. Suo padre era un tornitore, e da questo incontro avevamo conservato un po' di rimasuglio di tornio, che era stato messo in un altro sacchetto. Per la strada avevamo trovato dei mozziconi ed erano stati messi in un altro sacchetto, e poi un vecchio giornale, che abbiamo bruciato, e la cenere era stata messa in un altro sacchetto. La mamma di questa bambina ci aveva dato anche lei degli oggetti che aveva trovato in un cassetto. Insomma avevamo ricostruito, questa bambina e io, una giornata vissuta insieme in un modo preciso”. Osservano acutamente Gabriella Belli e Annamaria Marchionne, a proposito delle Testimonianze: “Gli elementi attinti dalla realtà vengono divisi, catalogati, avvolti, imballati in sacchetti di plastica, che 'nascondono' e 'celano' gli oggetti stessi, per essere successivamente introdotti e assimilati nello schema formale del quadro, dove conservano la loro struttura indipendente data dai ritmi delle suddivisioni nel contenitore. L'interesse di queste opere risiede soprattutto nell'operazione di avvolgimento e imballaggio che, diversamente dal dadaismo, è qualcosa di più di una semplice presenza provocatoria di oggetti: è una ‘ricerca’ e un ‘attività’ in rapporto a un oggetto. La funzione di avvolgere implica infatti una necessità di ammassare, isolare, conservare, trasferire, all'insegna di un gusto dell'ignoto e del segreto, che realizza una sorta di rito ossessivo nella sua iterazione”.
I Collages
Il distacco tra l'io e l'espressione, tra il gesto e il segno, si nota in maniera più evidente nei Collages, le opere che Bianco avvia al suo ritorno da New York.
In che cosa consistono i Collages? Si tratta di opere di “regia”, perché sono formate dalle stesse tele informali e “pollockiane”, che Bianco suddivide in tarsie geometriche e riaccosta insieme.
Come abbiamo già detto, la violenza istintiva, l'energia vitalistica, il pathos del lavori di Pollock non poteva rientrare nei registri espressivi del pittore milanese. Bianco sente piuttosto il bisogno di modulare il gesto, di trasformare il grido cosmico pollockiano in un ritmo lieve e divertito. Prende allora a ritagliare le tele dipinte con la tecnica dell'Action Painting, le riduce a quadratini e compone in questo modo vasti collages, spezzando l'unità del quadro in un caleidoscopio di particolari.
Apparentemente si tratta degli stessi quadri di prima, ricostruiti secondo un altro “montaggio”. Ma in realtà l'operazione è diametralmente opposta.
Ricomponendo i suoi quadri segnici secondo una geometria regolare, Bianco si allontana dall'informale e torna a un'arte di ritmo e di articolazione dello spazio. All'unicità e all'istintività del gesto si sostituisce la numerabilità dei singoli moduli, la ripetibilità e quindi la serialità (sia pure abitata da segni diversi) delle tessere di mosaico; al groviglio delle linee subentra il segmento spezzato, che non è più matassa, ma linea individuale.
L'opera presuppone ora un diverso scrutinio, un'analisi e una scelta dei singoli frammenti. Mentre il clima informale sta diventando un linguaggio passe-partout, il cui comun denominatore è l'immediatezza del gesto, la passionalità del grido, l'immergersi nella materia, Bianco pone in atto quello che si può già definire un atteggiamento concettuale.
Scrive Adriano Altamira: “Con queste opere Remo Bianco, oltre a dichiarare morto l'informale, poco dopo la metà degli anni Cinquanta, inventava quel suo sistema a scacchiera che sarebbe rimasto la griglia fissa di quasi tutta la sua produzione pittorica importante degli anni successivi: i Tableaux dorés e i Sacchettini. Una griglia che non a caso si riassume tutta in una formula concettuale che trova per esempio riscontro, sia pure più lucidamente, nell'opera di Piero Manzoni”.
Ma sentiamo come l'artista stesso ricorda questo momento: “Dal '55 al '59, ho fatto quest'esperienza. dei collages (e portandola ancora avanti nel tempo a più riprese). Si trattava di tagliare la tela dipinta in tanti quadratini e di conservare le parti che mi interessavano di più e ricomporre poi questa tela, che diventava come una specie, così, di scacchiera, dove tutte queste forme risultavano spezzate”.
E proprio sviluppando il principio della quadrettatura Bianco giunge, intorno al '57, a creare quelle che rimarranno le sue opere forse più alte, senz'altro quelle più conosciute: i Tableaux dorés.

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