domenica 7 ottobre 2007

Estasi e morte nel linguaggio dell'arte


di Lamendola, Prof. Francesco 
 
L' Estasi di Santa Teresa d'Avila (1647 – 1652), scultura in marmo e bronzo dorato posta nella chiesa di Santa Maria della Vittoria in Roma, è unanimemente considerata dalla critica come uno dei capolavori di Gian Lorenzo Bernini.
 
  Che estasi e morte siano due dimensioni complementari di un'unica realtà, le due facce di una stessa medaglia, l'antica saggezza dei greci lo aveva ben compreso, mettendo Eros e Thànatos in costante relazione reciproca, sia nella poesia che nelle arti figurative. Achille che uccide Pentesilea, la regina delle Amazzoni, con un colpo di lancia, e che quasi nello stesso momento si commuove e s'innamora davanti al bel corpo morente (1), sintetizza questa fondamentale intuizione del pensiero classico. Intuizione che non è mai andata smarrita e che ritroviamo costantemente nella storia dell'arte occidentale lungo il corso dei secoli, anche dopo il tramonto definitivo della civiltà antica.
Figure di morenti, dal punto di vista compositivo, sono le sculture dell'estasi di Santa Teresa del Bernini (2), o della Beata Ludovica Albertoni (3) dello stesso autore: quasi a ricordarci che l'estasi come fatto mistico è un rapimento fuori di sé, materiale oltre che spirituale, e dunque una piccola morte.
E che altro è l'orgasmo, la vetta più intensa del piacere fisico, se non una "piccola morte" e un'estasi al tempo stesso? Estasi come abbandono temporaneo della coscienza, morte come abbandono definitivo e irrimediabile; estasi come nostalgia dell'infinito, come sgravio da una condizione - l'esser desto della coscienza, appunto - sentita come un peso intollerabile, come un ostacolo alla dimensione più autentica e profonda dell'io. Estasi come ritrovamento e riconciliazione con l'Assoluto, come superamento delle fatali antinomie della vita, come ricomposizione della frattura insanabile tra mente e spirito. Estasi, quindi, lo ripetiamo, come manifestarsi di una esperienza di morte e rinascita interiore - esattamente come nelle pratiche sciamaniche ormai ben note agli studiosi di antropologia e storia delle religioni. (4)
Tale analogia tra estasi e morte costituisce una costante così ben definita nella storia dell'arte, che possiamo scorgerne i riverberi perfino nel confronto tra opere antiche e moderne. In questa sede ci limiteremo ad un esame comparativo tra la celebre Niobide morente del Museo Nazionale Romano (5) e la scultura di Woldemar Melnik Estasi (6), significativo esempio di simbolismo espressionista in Estonia del primo '900.
È sufficiente un confronto anche superficiale tra le due opere per rendersi conto di quanto la seconda debba alla prima (che, a sua volta, è la copia romana in marmo da un originale greco del 450 a. C. circa). (7) Intanto nell'impianto figurativo generale e nell' intuizione centrale che l'estasi, come la morte, è un passaggio a una condizione nuova e diversa, tale da alterare e trasfigurare l'ente in una luce totalmente altra. Poi nei particolari descrittivi della figura: la posizione del capo rovesciato all'indietro, delle gambe divaricate, perfino nel panneggio della veste ormai scivolata sulla sola gamba destra.
L'ignoto scultore greco del v secolo ha rappresentato nella Niobide dalle forme armoniose, si badi, non una morta ma una morente: dalla bocca semiaperta pare che fugga l'ultimo soffio vitale. Gli occhi sono rivolti al cielo in uno sguardo di estrema invocazione o forse di addio, carichi di rimpianto;le braccia, torte dietro le spalle, cercano di afferrare il dardo di Artemide che le si è infitto nella schiena, quasi a volerselo strappare in un supremo sforzo di ribellione alla morte, sforzo ormai inutile e condannato ad esaurirsi quasi subito.
Questa giovane donna morente, dalle floride forme - paradossalmente - esuberanti di vita, è dunque un monumento al rimpianto dell'estremo commiato, quasi un grido di protesta contro l' ingiustizia divina di una giovane vita stroncata come un fiore reciso da una falce inesorabile. In senso lato, è un atto di accusa alla caducità di tutto ciò che è umano, la ribellione contro l'assurdità di una conditio esistenziale che dapprima ci lusinga con fallaci promesse, e poi ci spoglia di ogni futuro, di ogni domani, precipitandoci nel buio che è fuori della forma.
Lo scultore estone Woldemar Melnik ha ripreso questo anelito alla vita che fugge e lo ha trasformato in un anelito alla fuga dalla vita. I termini della problematica sono rovesciati, ma - ecco il colpo di genio - per una misteriosa dialettica degli opposti, il mezzo espressivo rimane pressoché identico. La sua giovane donna, che ricalca la Niobide morente fin nei particolari, leva gli occhi al cielo non già nel rimpianto della vita che fugge, ma bensì nella nostalgia dell'infinito, di quell'infinito che è dissoluzione della forma ed esaurimento del dato esistenziale secondo i parametri della vita ordinaria. È, insomma, nostalgia della morte, vissuta come anticipazione momentanea di un abbandono totale del fardello del vivere (come ne La prima notte di quiete, per parafrasare il titolo di un bel film di Valerio Zurlini del 1972).
L'unica differenza formale tra le due opere, difatti, risiede - al di là, beninteso, delle grandi diversità di clima stilistico - nella rappresentazione delle braccia. Quelle della figlia di Niobe, ancora disperatamente attaccata alla vita, cercano - come si è visto - una impossibile salvezza nella liberazione dal dolore, simile in questo al Laocoonte che si contorce fra le spire dei draghi. La mistica e, al tempo stesso, pagana donna di Melnik, invece, si abbandona fiduciosamente al nulla - al Tutto - che la sta per riempire, e stringe al seno le mani in un gesto di raccoglimento estatico in cui ella sembra la sacerdotessa di un rito insondabile. Il rito per mezzo del quale ella fa dono di sé e della sua vita alla dimensione altra, e dunque si perde, si annulla: ma perdendosi si ritrova in un piano d'esistenza più alto e luminoso.
Schopenhauer, davanti alla statua del Laocoonte, si domandava perché questi non possa gridare. Anche noi, constatando che un vero grido non esce dalle labbra delle nostre due statue, possiamo porci la medesima domanda. E di nuovo, rispondere a tale interrogativo significa tornare in quel luogo misterioso dello spirito, ove due opposti itinerari si incrociano e si fondono. La figlia di Niobe non emette alcun grido perché dalla sua bocca semiaperta la vita sta uscendo, e il grido semmai è concentrato negli occhi dolorosi e imploranti; ma più ancora perché il rimpianto della vita ch'essa esprime, stando in bilico ormai sul limitare estremo di essa, non può essere grido ma già solo esile lamento, soffio fuggente.
Viceversa la donna in estasi di Melnik non grida e non può gridare perché il suo rapimento è offerta sacrificale di sé medesima, autoannullamento coscientemente perseguito e gioiosamente voluto. Anche qui solo un soffio che esala, dunque; un lamento, forse; ma un lamento di trasporto ineffabile, di pace suprema -di oblio senza tempo…
 

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