L’informale in Italia
Francesca Comisso
Come sostiene lo storico Maurizio Calvesi, in Italia si può parlare di pittura informale
solo nella seconda metà degli anni cinquanta, come di una pittura caratterizzata peraltro
dalla presenza di una componente ricollegabile in vari modi alla tradizione del
Futurismo. Questa ipotesi trova la conferma più evidente nella pittura di Emilio
Vedova, da quella astratta d’inizio anni ’50, costruita su una dinamica tensione di linee,
eredi delle linee-forza futuriste, a quella gestuale, in cui persiste un dinamismo
sincopato e impetuoso che lo differenzia dagli artisti americani. La sua arte, nutrita da
un profondo studio dell’espressionismo tedesco – in particolare dell’opera di
Kokoschka – è concepita in termini di “protesta” ed è pertanto fortemente legata al suo
impegno etico e politico, che lo aveva portato, tra l’altro, a militare nella resistenza
partigiana. Ha fatto parte del gruppo Corrente, poi del Fronte nuovo delle arti e, per un
anno, del gruppo degli otto promosso dal critico e storico Lionello Venturi.
Nell’Informale, oltre al segno, inteso come diretto tracciato del gesto dell’artista, cui si
attribuisce un nuovo valore di presenza esistenziale, assume un ruolo centrale la
materia, manifestazione concreta di quel mondo “delle cose” con cui l’artista entra in
rapporto. La tela del quadro diventa quindi il luogo di questo incontro con il mondo.
L’artista che più di altri ha fatto della materia il centro della propria ricerca linguistica è
Alberto Burri che, all’inizio degli anni ’50, realizza opere in cui la pittura si affianca
alla materia “bruta” dei sacchi di juta, cui seguono i legni, i ferri, la plastica, sui quali
l’artista “agisce” in modo inedito e drammatico. Le cuciture a vista dei sacchi, le
slabbrature e le bruciature dei legni (le “bruciature” datano dal 1956), i contorni
anneriti delle plastiche, registrano il gesto-azione dell’artista che interviene sulla
materia, ne ricalca i processi di trasformazione, immedesimandosi infine con il
trascorrere del tempo. Al centro del suo lavoro è dunque l’espressività intrinseca della
materia, che viene sollecitata a manifestarsi, con l’azione praticata su di essa
dall’artista.
Dal 1949 al 1951 Burri ha fatto parte del gruppo Origine insieme a Giuseppe
Capogrossi, Ettore Colla e Mario Ballocco, tutti astrattisti, sebbene impegnati in
ricerche diverse (astrazione geometrica: Ballocco; elaborazione di una sorta di alfabeto
in un unico segno-forma modulato in infinite varianti: Capogrossi; sculture di residui
metallici saldati in assemblage leggeri: Colla).
Nel 1950, presso la galleria gestita dal gruppo, Burri espone opere realizzate con l’uso
di catrami, insieme ai Gobbi, quadri caratterizzati da una estroflessione della superficie
della tela (ottenuta con l’ausilio di due rami incrociati dietro la tela) che si dilata verso
lo spazio suggerendo la possibilità della superficie di “accogliere” e “andare incontro”
al mondo”, di presentarlo piuttosto che essere solo il luogo della sua rappresentazione
(esperimento che, nei primi anni sessanta, troverà nuove formulazioni a carattere
ambientale nelle opere di Enrico Castellani). L’anno successivo recupera e sviluppa la
tecnica del collage, impiegando stracci, sabbia, gesso e pittura, mentre dal 1952 inizia a
utilizzare grandi sacchi di juta sui quali agisce con cuciture e rammendi. Già nel 1951 il
gruppo Origine si scioglie ma continua a operare a Roma fino al 1956 come galleria,
sostenendo le ricerche di molti giovani artisti.
Sebbene l’opera di Burri costituisca uno dei più rilevanti esiti della ricerca informale
italiana, il suo valore si estende oltre i confini di quest’orizzonte temporale ed estetico.
“Utilizzando le possibilità di trasformazione dei materiali e considerando le materie
contemporaneamente come “cose” e “segni”, Burri riapre infatti la strada al rapporto
dell’arte con una realtà che non è quella del gesto isolato ed individuale della stessa arte
informale” (Carolyn Christov-Bakargiev, in cat. mostra Alberto Burri, Palazzo delle
Esposizioni, Roma). Il suo ricorso al collage, che trova un precedente prossimo negli
esperimenti “polimaterici” del futurista romano Prampolini, attinge a materiali della
vita quotidiana carichi di memoria, come nel caso dei logori frammenti di sacco di juta,
o a materiali in sé non espressivi, come le lamiere di ferro o i fogli di legno o di
plastica, ma sollecitati con l’energia viva del fuoco. Esperienze, queste, che avranno
una riscontro diretto nei combine paintings dell’americano Robert Rauschenberg (opere
dove la pittura si affianca a collage e assemblage, e dove l’arte si pone in relazione con
immagini e oggetti della vita quotidiana. Cfr. lez. 3 e 4), ma anche nelle ricerche di
natura processuale dell’arte povera.
Tra gli artisti italiani più significativi in ambito internazionale oltre a Burri vi è Lucio
Fontana, già attivo nell’ambito dell’astrazione degli anni ’30 e spesso annoverato tra i
protagonisti dell’informale, sebbene la sua opera non sia interamente ascrivibile a
quest’area di ricerca. I suoi buchi, e poi tagli sulla tela, costituiscono un’inedita variante
alla poetica del gesto. Non si tratta di violare la superficie del quadro, di sollecitare la
materia come nel caso di Burri, bensì di aprire un varco verso uno spazio “altro”
illimitato, mettendo irrevocabilmente in crisi la funzione del piano come schermo per la
rappresentazione. Lo spazio non è più un soggetto riprodotto sulla tela, poiché
quest’ultima diventa il luogo in cui lo spazio si manifesta come fenomeno. Questi
concetti, uniti ad un richiamo al mondo della tecnologia scientifica, si ritrovano nel
manifesto Spaziali del 1947, che segue il Manifesto Blanco edito nel 1946 a Buenos
Aires e sottoscritto da Fontana, alcuni amici artisti, e gli allievi dell’Accademia di
Altamira dove l’artista insegna fino al rientro in Italia. Alla base del movimento non vi
è l’elaborazione di un particolare stile pittorico, quanto l’esigenza di esprimere in modo
nuovo la relazione tra l’uomo e lo spazio che lo circonda. Tra il 1949 e il 1951 Fontana
realizza gli Ambienti spaziali, in cui forme luminescenti sospese nel buio configurano
luoghi percorribili dove lo spazio si manifesta come fenomeno esperibile e l’opera ne
diviene il veicolo (cfr. lez. 2).
Anche in Italia occorre sottolineare l’influenza attiva esercitata dal già citato critico
francese Michel Tapié. Stabilitosi a Torino, Tapié collabora con la galleria Notizie di
Luciano Pistoi dal 1958 al 1960, presentando artisti torinesi come Mattia Moreni, Luigi
Spazzapan, il gruppo giapponese Gutai, Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri, Lucio
Fontana, Carla Accardi e scrivendo di alcuni di loro sulla rivista omonima della
galleria.
Nel 1960 Tapié fonda a Torino l’ICAR (International Center of Aesthetic Research),
uno spazio di esposizione e di dibattito attivo fino al 1977, quando ormai la stagione
dell’informale aveva da tempo ceduto il passo a nuove ricerche. Questo luogo, ubicato
in un palazzo cinquecentesco di via della Basilica, si rivela nel suo primo periodo di
attività un polo culturale importantissimo, nonché un esempio inedito di spazio
espositivo a metà strada tra il museo e la collezione privata. Definito anche “Musée
Manifeste”, esso rispecchia l’attività di critico militante del suo ideatore: “Tapié vi
realizza uno degli eventi più importanti del suo iter: la possibilità di presentare, in una
esposizione permanente articolata in spazi di tipo museale su due piani, e di
puntualizzare in mostre personali, gli artisti che aveva seguito fin dal 1946, e con i
quali aveva costruito la teorizzazione dell’art autre, fino ai Gutai e ai nuovi” (M.
Bandini, Un art autre e altri scritti di estetica 1946-1969 di Michel Tapié de Céleyran,
Nike, Milano 2000, p. 31).
Nessun commento:
Posta un commento