CHE COS'E' L'INFORMALE?
Francesca Comisso
L’informale europeo e l’Espressionismo astratto americano
La fine della guerra corrisponde, nell’immaginario europeo, a una liberazione e a un
“nuovo inizio” che investe anche il territorio dell’estetica. A un’idea di arte “libera” e
strettamente legata all’esperienza di singoli individui piuttosto che di gruppi e
movimenti. Un’arte che risponde all’esigenza di abbandonare ogni sistema di pensiero
aprioristico e idealistico, per “tornare alle cose stesse” così come esse si presentano alla
coscienza, secondo quanto espresso dalle teorie fenomenologiche e
dall’Esistenzialismo. Un’arte che si traduce in manifestazioni quali l’informale segnico,
l’astrazione lirica, l’informale materico e, in generale, nel recupero “dell’elementare,
del selvaggio, del regressivo” quali sinonimi di “autenticità” e originarietà dell’essere.
Un’arte di assoluta identità tra la soggettività dell’artista e l’emblematicità che assume
l’opera nella cultura in generale.
Nel 1959, Wilhem Sandberg, direttore dello Stedelijk Museum di Amsterdam, descrive
in questo modo il clima culturale di quel periodo, puntualizzando il carattere “istintivo”
e vitalistico di questo tipo di esperienze artistiche:
1940-45 / sull’Europa è la notte / il regno della disperazione e dell’oppressione / tuttavia una forza si
muove / una forza vitale, diretta contro l’orrore e l’aridità del presente / (...) ovunque dei piccoli gruppi o
degli individui si lanciano / con vigore in ricerche coraggiose ... / non sono più le ricerche intellettuali
.... / sono istinti che si impadroniscono di mezzi d’espressione plastica / ovunque dilaga una vitalità
prorompente / (...) una forza torrenziale che ha invaso con tutto lo slancio dell’istinto, la saggezza
costruttiva” (W. Sandberg, Vitalità nell’arte, cat. mostra, Palazzo Grassi, Venezia 1959)
Il termine informale fu usato per la prima volta nel 1951 dall’artista francese Georges
Mathieu che, in un articolo, ne parla come di “non formale”, di “rifiuto della forma” e,
contemporaneamente, anche dal critico francese Michel Tapié, in occasione di una
mostra da lui organizzata negli spazi della galerie Nina Dausset di Parigi. La mostra,
che si intitolava Véhémences confrontées (con opere, tra gli altri, di Camille Bryen,
Giuseppe Capogrossi, Wilhem De Kooning, Hans Hartung, Georges Mathieu, Jackson
Pollock, Wols), metteva a confronto la pittura gestuale di area francese con l’Action
Painting americana. Nel catalogo dell’esposizione Tapié scrive: “Ciascuno ha
affrontato l’orizzonte indefinito dell’informale attraverso il suo proprio temperamento”.
Nello stesso anno, sempre a Parigi, alla galerie Paul Facchetti, il termine fu compreso
direttamente nel titolo di un’altra mostra ideata da Tapié: Signifiants de l’informel. In
quell’occasione il critico spiegò sul catalogo: “Io ho definito provvisoriamente questa
avventura significato dell’informale: vi hanno magistralmente partecipato con lo spirito
delle sole ricerche (ma senza alcun intento di lavoro collettivo, e tanto meglio, in tutti i sensi) Tobey, Hartung, Bryen, Hofmann, Sutherland, Riopelle, Soulages, Ubac, De
Kooning, Appel, Rothko, Sam Francis, Capogrossi, Dova, Kline (ecc.)”.
Le due affermazioni contengono già due importanti indicazioni che servono a
comprendere una tendenza non omogenea e anzi unicamente descrivibile come
costellazione di personalità e di posizioni. Caratteristiche rilevanti per comprendere
l’informale sono proprio il “temperamento” individuale degli artisti e, soprattutto, la
mancanza di intenzioni collettive e di gruppo. In questo consiste del resto la grande
differenza tra l’arte di questi anni e la tradizione dei gruppi d’avanguardia della prima
parte del secolo, che invece si erano mossi in una dimensione collettiva supportata da
manifesti e teorie definite. Questa tendenza non si misura con la “storia dell’arte”, né
con la Storia tout court, ma si basa su una concezione “trasgressiva” dell’arte, quale
può essere quella di una società che non vive più sulla storia del passato ma sul
presente, sull’azione contestuale, un’arte che, rifiutando la razionalità, poggia sulla
spontaneità non mediata del “gesto”. Da qui il recupero dell’istanza irrazionale già
espressa da Dada e dal Surrealismo, della problematica dell’inconscio (investigata
soprattutto dagli artisti americani), rivolte non più alla creazione di immagini e
significati “disturbanti” (“pour épater les bourgeois”), quanto piuttosto impiegate per
attingere una dimensione “originaria” del sé e delle cose del mondo. Laddove si
ripropone la pratica della “scrittura automatica” surrealista, l’inconscio non è il luogo di un errare che conduce alla perdita della propria coscienza; l’artista informale “rimane
lucido ... nel registrare tutto se stesso, abolendo così le barriere tra esistenza e
coscienza, tra conscio e inconscio, tra pensiero e azione” (L. Vinca Masini, (1989),
2002, p. 653).
Comune alle diverse formulazioni della ricerca informale è anche il rifiuto della
macchina – e dell’intera sfera tecnologica - e l’opzione verso la sfera dei fenomeni
organici, biologici.
Al termine “informale”, il critico Michel Tapié preferì “Art autre”, altra dicitura da lui
coniata nel saggio del 1952, Un art autre e le nuove articolazioni della realtà. Nello
scritto il critico, oltre a porre l’accento sui caratteri “passionali” di questo tipo di arte,
fornisce precise indicazioni anche sull’atteggiamento che di fronte ad essa deve
assumere lo spettatore.
“Non può esistere arte, oggi, se essa non è in qualche modo stupefacente (...). (...). Non è più possibile
parlare di arte dilettevole (...) estetica compresa (...): l’arte si esercita altrove, al di fuori, su di un altro
piano di quel Reale che noi percepiamo altrimenti, l’arte è altro. (...). Il problema non consiste nel
sostituire a un tema figurativo un’assenza di tema, che lo si chiami astratto, non-figurativo, non-
oggettivo, bensì nel fare un’opera, con o senza tema, davanti alla quale, (...) ci si accorge a poco a poco
che si viene a mancare, che si è chiamati a entrare in estasi o in demenza, perché uno dopo l’altro
nessuno dei criteri tradizionali è messo in causa, ma che tuttavia una tale opera porta con sé una
proposizione d’avventura, ma nel vero senso della parola avventura, cioè qualcosa di ignoto, ove non è
affatto possibile predire come ciò si svolgerà, dove si troverà lo spettatore al cospetto di tutto dopo
essersi lasciato andare a vivere fino in fondo questa arte altra (...)”
Nel medesimo saggio, Tapié traccia collegamenti con Dada, pone in rilievo il “mistero”
dell’opera, il suo carattere imprevedibile e “magico” (in sintonia con i suoi interessi per
le culture esoteriche), e soprattutto sottolinea che l’arte attuale consiste nell’azione di
“autentici Individui”, specificando che “L’Individuo degno di questo nome non è
prigioniero del suo passato, ma piuttosto del suo divenire”. Con “feconda anarchia”, gli
artisti sono usciti dal paradigma della forma e gli artisti occidentali, scrive ancora
Tapié, hanno scoperto il “Segno, che esplode nella veemenza di una calligrafia
trascendentale, di un’iper-significazione ebbra della vertigine di un divenire allo stato
puro”.
La tradizione europea legata al segno ha una lunga storia e riguarda tutte le esperienze
che, dal 1910, portano al non figurativo. Si pensi alla “linea – forza” futurista, a sua
volta legata alla “linea-forza” dell’art nouveau, o al segno strutturale di Picasso.
Tuttavia nell’informale il segno-gesto non è più mediato, finalizzato, “guidato”, ma
anela a restituire, nella sua immediatezza, l’energia vitale dell’artista.
Il termine “informale” pur generico, viene assunto come vera e propria categoria
critica, come parola chiave in grado di descrivere una tendenza che nasce quasi
simultaneamente in aree geografico culturali diversissime e che, come rileva lo storico
e critico italiano Maurizio Calvesi, assume “nelle singole nazioni, fisionomie
complessivamente differenziate”.
Per il critico Renato Barilli, per esempio, possono essere definite informali le
esperienze pittoriche di natura segnica, gestuale e materica. Quelle cioè che si
oppongono radicalmente alla forma e quindi a una tradizione dell’arte razionale.
Nell’Informale l’opera è un “campo dell’agire diretto”. Alla “contemplazione” succede
la “partecipazione”, il “coinvolgimento stretto” di un pubblico chiamato ad affrontare
l’opera come esperienza (Barilli, 1979).
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