giovedì 15 novembre 2007

? "“Considerare la tela come l’arena in cui agire,"La tela non è più, dunque, il supporto di una pittura, bensì di un evento.

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Nel 1952, il critico americano Harold Rosenberg descrive in questi termini
l’atteggiamento del nuovo gruppo di artisti attivi a New York:
“Considerare la tela come l’arena in cui agire, invece che come uno spazio in cui
riprodurre, ridisegnare, analizzare o esprimere un oggetto presente o immaginario. La
tela non è più, dunque, il supporto di una pittura, bensì di un evento”.

Come per i migliori esempi dell’Informale europeo l’arte si affranca dal compito di
“rappresentare” e l’opera diventa il luogo di registrazione di un processo, da cui deriva
la definizione Action Painting, una pittura gestuale il cui primo riferimento va al
dripping di Jackson Pollock.
I suoi primi quadri d’inizio anni ’40 sono connotati da pittogrammi, figure e segni
d’ascendenza totemica, che gli erano in gran parte suggeriti dagli archetipi junghiani e
dai suoi studi sulla mitologia degli indiani d’America. Un’attenzione rivolta al mito che
Pollock condivide in quegli anni con altri artisti quali Adolph Gottlieb e Mark Rothko.
Nel 1947 Pollock abbandona le immagini totemiche e il primitivismo e inizia a
realizzare quadri facendo “gocciolare” (to drip) il colore su grandi tele distese al suolo.
In alcuni dei primi dripping (Numero 1, 1948) imprime, nella fitta trama dei colori,
l’impronta della propria mano. Un segno che rimanda direttamente alle pareti della
grotta di Castillo in Spagna, e, ben oltre questioni stilistiche, al nucleo fondamentale del
mitico.
La pratica pittorica del dripping, immortalata e divulgata con la pubblicazione su riviste
d’arte degli scatti fotografici realizzati da Hans Namuth nello studio di Pollock, ebbe
profonde ripercussioni su molti artisti delle generazioni successive che, pur rifiutando
l’eroismo titanico e individualista dell’espressionismo astratto, troveranno nell’azione
di Pollock sulla tela, nella dispersione casuale di segni e nella completa immersione del
corpo e del suo agire all’interno dell’opera, i riferimenti per aprire l’arte all’evento
collettivo (happening) e al linguaggio rituale del corpo (performance).
E’ ancora Rosenberg a sottolineare l’adesione tra ARTE E VITA implicita nell’action
painting:

“Una pittura che è atto risulterà inseparabile dalla biografia dell’artista. La pittura
stessa è un momento nel miscuglio composito della sua vita, sebbene il termine
momento indichi tanto i pochi minuti impiegati attorno alla tela quanto l’intera durata
di un lucido dramma espresso nel linguaggio dei segni. La pittura d’azione ha la stessa
metafisica sostanza dell’esistenza dell’artista: la nuova pittura insomma ha tolto via
ogni separazione fra arte e vita”.

Il critico e teorico americano Clement Greenberg, tra i maggiori sostenitori della
nuova arte americana, rifiutò ogni compromissione dell’opera con la vita dell’artista o
con significati e contenuti interni, interessandosi alla struttura all-over dei quadri e al
particolare tipo di spazio che essi creano, più visivo che tattile, tutto risolto in superfice:
“l’illusione di una profondità indefinita, ma in qualche modo definitivamente limitata,
che richiama ciò a cui erano pervenuti Picasso e Braque con le sfaccettature-piano del
loro cubismo analitico”. La fitta trama di linee che crea una griglia aperta elimina
l’opposizione tra figura e fondo, e quindi i criteri gerarchici della composizione
tradizionale. L’espressione all-over designa proprio questa indistinzione e questo
ripetersi, potenzialmente senza fine, degli elementi pittorici su tutta la tela. Il pittorico
si dissolve in una vera e propria tessitura, dove l’accumulazione delle ripetizioni
testimonia di qualcosa di radicato nella cultura contemporanea. Greenberg ne fa risalire
le origini alle Ninfee di Monet. Si tratta di una lettura “formalista”, che privilegia
nell’opera ciò che pertiene al linguaggio, e che vede nell’astrazione l’espressione della
modernità. Questa lettura sarà fortemente contestata dalla generazione artistica
successiva, e da alcuni degli stessi artisti cui il critico si riferisce, quali ad esempio
Rothko, il quale il suo disinteresse per le pure ragioni formali svincolate al messaggio
dell’opera, che in lui è etico e spirituale.

Il termine “espressionismo astratto” si deve invece a Alfred H. Barr jr. che la coniò nel
1929 a commento di un quadro di Kandinskij. Rivendicando la presenza dello
“spirituale nell’arte” (dal titolo di un suo celebre libro del 1912), Kandinskij oppone il
“che cosa”, ovvero il soggetto, al “come”, cioè al linguaggio. Il problema del
contenuto, allontanato dalla lettura formalista di Greenberg, occupa molto del dibattito
americano degli anni ‘40 e soprattutto vede gli artisti in prima linea nella difesa della
volontà di significare nonostante l’adozione di un linguaggio astratto e informale. E’
significativo che nel 1948, quando Baziotes, Rothko, Motherwell e Still decisero di
aprire una scuola, la chiamarono “The subjects of the Artist”.

Più vicina al linguaggio dell’Espressionismo storico, è l’opera di Whilem De
Kooning che, nei famosi cicli di donne (Woman), conserva anche una matrice
figurativa.
La Scuola di New York include lavori molto diversi, per cui accanto all’ala gestuale
(Pollock, De Kooning, Motherwell) esiste la pittura di Gorky e di Baziotes, vicina al
biomorfismo di Mirò e quindi al Surrealismo, e le ampie superfici di colore che
assumono effetti solenni e “spirituali” nei quadri di colore-luce pulsante di Mark
Rothko, nei più rigorosi campi cromatici di Cyfford Still, Barnett Newman e Ad
Reinhardt. Per quest’ultima direzione di ricerca si parla anche di color field painting,
consistente in estensioni invariate di colore, che escludono qualsiasi interesse per il
valore del segno, della forma o della materia. La componente spirituale che faceva
avvicinare Pollock a Kandinskij, è in queste opere ancora più evidente: le superfici di
colore pulsante di Rothko, quelle uniformi di Newman, introducono alla
contemplazione del sublime (concetto radicato nella cultura paesaggistica americana),
del mistero dell’essere, assumendo in Rothko una risonanza poetica e spirituale, e in
Newman un valore di assoluta oggettività. Si tratta di una sorta di purificazione
dell’atto pittorico, che apre la strada al Minimalismo degli anni ’60, inteso proprio
come reazione al culto della soggettività dell’ala gestuale dell’Espressionismo Astratto.
Dalla West Coast proviene infine un pittore apparentemente vicino allo stile di
Pollock: Mark Tobey. La sua opera nasce da uno studio intenso della calligrafia
orientale, sulla cui base egli elabora un metodo da lui chiamato white writing (scrittura
bianca), una forma di grafismo che percorre la superficie del quadro in una rete talvolta
fittissima. In una direzione analogamente rivolta al valore del segno si inscrive la
pittura di Franz Kline, mai risolta in termini calligrafici, come avviene in Tobey e
Twombly, quanto in poderose sigle nere come censure sul bianco della tela.

Bibliografia

R. Barilli, Informale oggetto comportamento. La ricerca artistica negli anni ’50 e ’60,
vol. 1, Feltrinelli, Milano, 1979
G. Celant, L’inferno dell’arte italiana. Materiali 1946-1964, costa&nolan, Genova,
1990
G. De Marchis, L’arte in Italia dopo la seconda guerra mondiale, in Il Novecento,
Storia dell’arte italiana, parte II Vol. III, Torino, 1982, pp. 554-628.
D. Riout, L’arte del ventesimo secolo, (2000), Milano 2002, p. 62-82, 219-223.
H. Rosenberg, The American action painting, in “Art News”, n. 8, dicembre 1952
L. Vinca Masini, L’arte del Novecento. Dall’Espressionismo al Multimediale, vol. 4,
Giunti, (1989), 2002, Firenze

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