ATTUALITA’ E INATTUALITA’ DELL’ESPRESSIONISMO
Jolanda Nigro Covre
Accennerò ad alcuni problemi ancora aperti nella letteratura sull’espressionismo, per circoscrivere poi il tema della gestualità, a mio avviso importante, alla pennellata di Schmidt-Rottluff e a quella di Kandinsky, nonché alla loro incidenza in momenti successivi del Novecento. Inizio con alcune note in ordine sparso: questo perché l’espressionismo non è un fenomeno unitario, contiene aspetti addirittura antitetici, e in secondo luogo la sua incidenza sull’arte e la cultura del Novecento si può giudicare a vari livelli. Se è stato detto che il movimento segna la rivolta più radicale nel secolo, d’altro canto alcuni studiosi ne danno interpretazioni anche di segno negativo, limitando in certo senso quella incidenza stessa.
In sintesi, gli spunti che mi sembrano più interessanti sono i seguenti. Primo: l’ambivalenza tra il carattere tedesco e l’apertura internazionale dell’espressionismo, che si ripete nel cosiddetto neoespressionismo; questa apertura internazionale, nella prima avanguardia, la troviamo ampiamente a Monaco, ma soprattutto nell’ambiente berlinese e grazie a Herwarth Walden. Secondo: l’ingresso evidentissimo nella pittura (soprattutto nella pittura) non solo del brutto, ma del repellente, dell’orrido, del depravato, e al tempo stesso dell’introspezione spietata, che sarà uno degli elementi a condurre all’idea di morte dell’arte. Terzo: l’emergere della gestualità nella poetica espressionista, a discapito della cura della forma. Tale gestualità comporta anche una riflessione sulla teoria dell’Einfühlung, sua importante premessa; d’altra parte per alcuni artisti, per Schmidt-Rottluff ad esempio, comporta una straordinaria velocità dell’esecuzione accompagnata addirittura da un disprezzo della forma, a differenza della più meditata elaborazione dei Fauves e dei pittori del Blaue Reiter, ma anche a differenza della produzione di Kirchner o di Heckel.
L’inattualità emergerà da alcune considerazioni che seguono; ma, in generale, l’espressionismo è apparso, dopo la sua crisi e dunque già ai dadaisti soprattutto berlinesi, inattuale per una reale o presunta evasione dai problemi della società del nostro tempo, per quella che Tafuri definiva “l’utopia della forma” (riferendosi non soltanto all’architettura), e per quella che ancora Tafuri e altri hanno definito “ideologia antiurbana”. Inattualità, considerata sotto questi aspetti, piuttosto discutibile secondo le prospettive di lettura più aggiornate: l’esaltazione del brutto costituisce di per sé una critica sociale e la visione negativa della città costituisce una implicita critica a un determinato ruolo economico ed assetto socialmente determinante della città. Tra l’altro, una ideologia antiurbana è presente nella pittura (lascio all’intervento di Pehnt il problema dell’architettura espressionista, da un lato risolta in una sorta di urbanizzazione cosmica, dall’altro in un processo identificabile, per riprendere il titolo di una raccolta di disegni utopistici di Bruno Taut, nella “dissoluzione delle città”) piuttosto che nella letteratura o nel cinema o nel teatro; nella pittura dove certe critiche non possono essere esplicitate in termini verbali. Ed anche in pittura esistono almeno due eccezioni, concentrate soprattutto nel 1913: la serie degli Straßenbilder di Kirchner e le città apocalittiche di Meidner. In ambedue i casi la città è al tempo stesso amata e odiata.
L’apertura internazionale è evidente nel rapporto Delaunay-Kandinsky-Marc-Macke-Klee, e in parte Delaunay-Meidner, ma anche nello straordinario avvicinamento del linguaggio di Boccioni e di Kandinsky nel corso del 1913, l’anno in cui è più scintillante l’attività espositiva di Walden (e qui il confronto con l’ambiguità di italianità e internazionalità del futurismo comporterebbe qualche osservazione non contenibile nello spazio di questo intervento). I rapporti tra la Transavanguardia italiana e la Heftige Malerei o i Neue Wilden sono più intricati: il neoespressionismo inizia già prima, già nel corso degli anni Sessanta, e non c’è una totale soluzione di continuità con la tradizione dell’espressionismo; anche se può esser vero che la Transavanguardia italiana abbia incoraggiato le sortite dei Nuovi selvaggi.
Il carattere internazionale dell’espressionismo si rivela, ancor più che nella sua diffusione oltre i confini della Germania, nella capacità di assorbire istanze provenienti dall’orfismo, e in particolare da Delaunay, in temi e problemi sviluppati all’interno della Brücke, dopo il trasferimento da Dresda a Berlino, e all’interno del gruppo Der Blaue Reiter. Kirchner, ad esempio, sviluppa strutture in cui la deformazione e le spigolosità tipicamente tedesche si coniugano con rivisitazioni cézanniane e con sfaccettature tipiche del versante dinamico e cromaticamente acceso del cosiddetto “cubismo dei Salons”, ossia dei dissidenti nei confronti della presunta razionalità, staticità e riduzione monocroma di Picasso e Braque, mentre è soprattutto Heckel a dimostrarsi incline a strutture cristalline, trasparenti e cromaticamente accese, vicine all’orfismo. Già al momento della formazione del Blaue Reiter (1911), Kandinsky e i suoi compagni conoscono e apprezzano Delaunay, invitato ad avvicinarsi al movimento; e alcuni studi insistono su una possibile influenza dell’artista francese sulla svolta astratta del pittore russo-tedesco, collocabile tra il 1911 e il 1913 piuttosto che nel 1910, come indicato da una tradizione critica oggi alquanto corretta. Macke, Marc e Klee, tra il 1912 e il 1914, sono fortemente colpiti dalla struttura delle Finestre di Delaunay, e i primi due anche dalle sue Forme circolari, pur insistendo all’interno di una problematica legata ai temi spiritualistici del Blaue Reiter. Meidner, nei suoi temi apocalittici, trae spunti tanto da Delaunay, in particolare dalla serie della Tour Eiffel, quanto dai futuristi italiani, pur dichiarando un’attenzione per le esperienze francesi piuttosto che per quelle italiane.
Un problema critico particolarmente intrigante è costituito dall’avvicinamento, sul piano formale e strutturale, dei dipinti di Kandinsky e di Boccioni nel corso del 1913, quando espressionisti e futuristi, a fianco di Delaunay, si contendono l’attenzione di Walden. Le opere di Kandinsky diventano più dinamiche ed esplosive, in un caotico ribollire di forme plastiche, mentre quelle di Boccioni diventano sempre più astratte, fino ad oscurare totalmente il soggetto originario, nonostante il suo concetto, più volte ribadito, di “astrazione” non intenda affatto prescindere dal punto di partenza reale. I due si conoscono bene e guidano le fila dei due movimenti d’avanguardia forse più organizzati in Europa: una influenza reciproca è del tutto ammissibile. Ma, mentre Boccioni non nasconde il suo interesse per l’Einfühlung e per gli scritti di Kandinsky, quest’ultimo mantiene uno sprezzante riserbo nei confronti del collega italiano, apprezzato invece dai suoi collaboratori.
Veniamo al secondo tema su cui ho proposto di fermare l’attenzione: l’accentuazione del brutto, strettamente connessa all’esasperazione dell’interesse psicologico e dell’introspezione più spietata. E’ noto che gli espressionisti della Brücke (e non altrettanto si può dire per i pittori del Blaue Reiter) assai spesso derivano temi e strutture formali dall’area postimpressionista francese e dai fauves, capovolgendo tuttavia una ricerca ancora sostanzialmente armonica (più armonica in Matisse piuttosto che in Derain o Vlaminck, la cui violenza sulla tradizione non raggiunge comunque i livelli parossistici dei tedeschi), in una esasperazione quasi antiformale, nettamente anticlassica, antiborghese, antiedonistica. Questo è senz’altro un aspetto che rende gli espressionisti tedeschi quasi dei “veggenti” nei confronti di esperienze a noi vicinissime.
Uno dei temi in cui convergono il brutto, l’introspezione e al tempo stesso l’impossibilità della traduzione del visibile in termini pittorici è quello dello specchio, ricorrente nell’area espressionista di Dresda e di Berlino: sono specchi che restituiscono assai spesso un’immagine molto viva, ma vistosamente non corrispondente alla realtà fisica che vi si può immaginare riflessa, e che vi viene comunque colta con connotati più deformati, o in altri casi più scialbi, rispetto al soggetto presente nel dipinto. In questa mostra possiamo vedere alcuni esempi di “specchi” di questo tipo: di Kirchner, Fränzi e Marcella (1910) di una Collezione di Berna e l’acquerello di Hannover Ragazza seduta nell’Atelier (1912-1913), di Schmidt-Rottluff, la Ragazza allo specchio di Berlino (1915). Ma possiamo ancora citare, di Kirchner, la Donna distesa del Brücke-Museum (1910) e soprattutto la Donna allo specchio di Düsseldorf, dipinta nel 1912 e ripresa più tardi. Qui, nella tipica esasperazione espressionista della tricromia cézanniana giallo-verde-azzurro e nella contaminazione di espressionismo e cubismo, volta ad ottenere quella spigolosità geometrica e deformazione spaziale tipiche della durezza pessimistica dell’artista, Kirchner dispone la donna con le spalle verso lo spettatore, mostrandone il volto contratto nello specchio, dove la figura si riflette in una posizione diversa da quella in cui la sorprende l’artista, mentre sembra sfiorarsi il volto a sondare invano una identità perduta. E’ un caso tipico di uso del brutto per una spietata introspezione che approda solo a riconoscere l’impossibilità di vedere, proprio nel rifiuto di mostrarsi, l’aspetto esterno e quello interiore del soggetto.
Pensiamo ora a un dipinto come La ragazza di Olmo di Baselitz, del 1981. L’artista, espressionista per tutto il corso degli anni Sessanta, dal ’69 ha iniziato a rovesciare la tela, dipingendola effettivamente con la figura rovesciata, come ha dimostrato in alcuni casi il dato tecnico della direzione delle sgocciolature di colore. Questo procedimento, che comporta significati a vari livelli, dalla negazione dell’arte, o dell’ordine costituito, al tema dell’incomunicabilità, può leggersi anche come ultimo sviluppo dell’espressionistico tema dello specchio, legato all’introspezione. E non a caso in Baselitz ricorre il tema della camera da letto, o della coppia, esattamente come negli specchi del primo Espressionismo.
Prima di abbandonare il tema del “brutto”, dobbiamo aprire una parentesi. Per parlare di un “espressionismo e noi”, il riferimento al neoespressionismo è quasi d’obbligo, anche se, come si vedrà tra poco, non è solo in questo che va rintracciato il nostro rapporto con il primo espressionismo storico, mediato dall’esperienza Informale, e tra i due espressionismi vanno operati dei distinguo. Ci si potrebbe spingere oltre, ad anni più vicini a noi, quando tuttavia la rivoluzione dei media rende più difficile (più difficile, non impossibile) parlare di un rapporto con l’espressionismo, che è tutta manualità; e d’altra parte l’esperienza del “neoespressionismo” non è conclusa, o per lo meno non è detto che non si possa riprendere in altre forme; o che non sia stata ripresa in tante “azioni”, di cui quelle viennesi non sono che la parte più appariscente. Ma, dovendo limitare il campo in qualche modo, restiamo nella pittura.
Neoespressionista può considerarsi Penck con i suoi segni e graffiti; c’è anche il legame con discipline scientifiche o con sistemi politici, ma soprattutto una iperproduzione di segni, stilizzati, arcaici, infantili, o matematici, che spesso ricordano l’ultimo Klee: basti pensare a La morte e il fuoco, realizzato dall’artista svizzero nel 1940, e ad uno Standart di Penck del 1971, che si trova a Stoccarda.
Dahn e Dokoupil appartengono al gruppo di Colonia, quindi ai neoespressionisti di seconda generazione, cui ora farò cenno. Alcuni prodotti rinviano anche in questo caso a Klee o a combinazioni che sfiorano il surrealismo: ad esempio, Pensieri sono fuoco, del 1981, uno dei quadri dipinti a quattro mani dai due artisti.
Altri nomi che appartengono alla prima o seconda generazione neoespressionista sono, rispettivamente, Kiefer, Richter, Hoedicke e Fetting. A parte il caso di Kiefer, di cui si occuperà Marisa Volpi, per gli altri artisti i riferimenti, che sono stati finora avanzati sui rapporti con l’espressionismo come avanguardia storica, sono estremamente generici. Va dunque fatta qualche precisazione su tali rapporti in generale, per poi circoscrivere, come ho accennato all’inizio, l’analisi ad un caso particolare, ossia a Helmut Middendorf.
Middendorf, con Salomé e Rainer Fetting, fa parte all’inizio degli anni Ottanta del gruppo della Heftige Malerei di Berlino, preparato da Hoedicke, che aveva prima presentato una tendenza pop. Questa definizione, come quella di Neue Wilden riferita ai più giovani tra i cosiddetti neoespressionisti, indica in realtà una corrente che, dal punto di vista dei significati, esula dal primo espressionismo tedesco: aderenza al tema urbano, a immagini “moderne”, comuni, anche banali: pensiamo a quadri come La bella e la bestia di Hoedicke, del 1979, o alle “docce” di Fetting, di cui la Doccia III, del 1980, costituisce uno degli esempi più intenzionalmente sbrigativi. Si accetta il tema urbano senza uno spirito di evasione, o comunque con una contestazione di diverso tipo rispetto all’espressionismo della prima avanguardia, che appartiene al clima del post-moderno; quello che Bonito Oliva definisce “atteggiamento nomade di reversibilità di tutti i linguaggi del passato” può, in parte, adattarsi anche al movimento tedesco. In realtà numerose figure presentano caratteri più costanti e complessi rispetto alla transavanguardia italiana; tuttavia, ciò che distingue i Nuovi selvaggi dall’Espressionismo è la caduta dell’aspirazione a prefigurare attraverso l’arte una visione totalizzante del mondo (il che non vale per una figura come Kiefer, che infatti va staccata dal gruppo). Eppure, un legame c’è: sono i mezzi linguistici che si riallacciano a indicazioni della Brücke, con cui vengono in genere indicati rapporti generici. Mezzi linguistici e significati non sempre coincidono. Qualche volta, e si tratta allora di rapporti difficili, divergono.
Ed entriamo a questo punto nel terzo tema che si è indicato all’inizio, quello della gestualità. La pennellata larga e trasandata di Schmidt-Rottluff, assai più delle spigolosità di Kirchner o delle strutture cristalline di Heckel, ad esempio, apre la strada al linguaggio di Middendorf. Proviamo a confrontare, una coppia dopo l’altra, tre dipinti di Schmidt-Rottluff con tre dipinti di Middendorf: del primo, Paesaggio a Dangast, del 1910, di Amsterdam, Rottura della diga, dello stesso anno, del Brücke-Museum, Case di notte, del 1912, del MoMA di New York; del secondo, Cantante rosso-giallo (1981), Rosso (1980), Città delle notti rosse (1981). In Schmidt-Rottluff spesso i temi non sono riconoscibili, mentre una pennellata non articolata, quasi sbadatamente, in realtà intenzionalmente, esce dal quadro. In Middendorf i contenuti sono totalmente diversi: la musica rock, la città con cui l’individuo si confronta, la vita notturna. Ma sul piano del linguaggio, le stesure piatte e quasi indolenti di colore, le strutture diagonali, le stesse preferenze per toni gialli e rossi che si espandono indefinitamente, non possono non ricordare le pennellate di dipinti espressionisti, costruiti più sul gesto ampio della pittura che sui contenuti.
Una pennellata come quella di Schmidt-Rottluff aveva aperto la strada, d’altra parte, a pittori della generazione dell’Informale, soprattutto negli Stati Uniti, in particolare alla gestualità di Kline: pensiamo alla pennellata che esce dal dipinto, in entrambi, alla presenza dei neri e dei rossi (in Kline dopo gli anni dei neri e bianchi), al dinamismo presente nelle pennellate incrociate e nelle direttive diagonali.
Ricordo, da uno scritto di Marisa Volpi pubblicato sull’”Avanti” il 10 novembre 1963 in occasione di una mostra di Kline alla Galleria Civica d’arte moderna di Torino, la riflessione di Kline sul Greco e Cézanne, due punti di riferimento per gli espressionisti tedeschi, oltre che su Pascin e Soutine. Inoltre, mentre “De Kooning è decisamente espressionista, egli forza il segno, lo spezza e gli impone perfino un’immagine, Kline viceversa scandisce lo spazio servendosi di una calligrafia gigantesca che gli permette di sintetizzare la sua volontà espressiva al momento, di dipingere di getto, senza deformazioni.” Questa nota potrebbe riferirsi altrettanto ai dipinti di Schmidt-Rottluff che qui ho proposto all’attenzione, anche nell’allusione a una calligrafia gigantesca. La sua pennellata ha sempre qualcosa di abnorme: troppo ampia, troppo semplificata, e proprio per questo, senza deformare, risulta “troppo violenta”. E per lo stesso motivo possiamo trovarne una simile nella Heftige Malerei, nella Pittura violenta.
De Kooning è, si diceva, più “espressionista”. Una gestualità espressionista, in realtà, trova nella pittura tedesca una linea di continuità: pensiamo a un dipinto di Fritz Winter contemporaneo ad uno di De Kooning, ma totalmente astratto: rispettivamente, Facendo cerchi (è pressoché intraducibile il titolo tedesco Kreisend) e Donna in bicicletta. Siamo nel 1953 in entrambi i casi, pur nei diversi percorsi dell’astrattismo europeo e dell’espressionismo astratto americano.
Un altro esempio di gestualità arriva negli Stati Uniti attraverso la pittura della cosiddetta “astrazione lirica” di Kandinsky, in modo certo più documentato. E a Kandinsky si possono avvicinare alcune opere, anteriori alla Action Painting, di Gorky, ancora legate a sviluppi surrealisti. E’ proprio ad una radice teorica dell’astrazione kandinskyana che possiamo riferirci per trovare una continuità tra il gesto espressionista, quello surrealista ed altri che appartengono a poetiche e a situazioni successive.
E’ noto che tanto nella pittura quanto negli scritti teorici di Kandinsky la teoria della Einfühlung è ben presente, come una delle componenti più significative tratte dalla cultura tedesca e dalle sue radici romantiche. E’ in Robert Vischer che troviamo chiaramente espressa l’idea dell’esistenza di un’affinità simbolica non tra gli oggetti dell’esperienza sensibile e i sentimenti, bensì tra le loro forme, astratte dalla loro definizione di oggetti, e l’emozione dell’uomo, la sua facoltà di sentire dentro, e, di conseguenza, tra quelle forme e le forme ricreate dall’artista, capaci di ridestare nello spettatore le stesse emozioni in virtù di quella stessa affinità simbolica.
Leggiamo da una pagina di un saggio sul Sentimento ottico della forma, scritta da Robert Vischer intorno al 1873:
“Ogni essere umano sensibile viene a tal punto guidato dalle impressioni, e in particolare la sua mano, quale il più nobile medium dell’impulso pratico, viene a tal punto trascinato via da tali movimenti, che per il ricevente ha luogo una sorta di descrizione di ciò che viene immaginato. - Ma niente è più naturale del fatto che questa mano, che disegna nell’aria, tenti di rappresentare anche su di un oggetto solido la sua immagine come rappresentazione durevole [...] L’attività dell’occhio ha suscitato un processo in tutto il complesso del sistema nervoso e della psiche, in tutto il complesso dell’uomo. Rappresentare tutto questo è lo scopo recondito di ogni immaginazione ingenua e chi crede che si tratti di rappresentare il modello naturale si inganna.”
In questo teorico di impostazione ancora romantica, tra l’altro interessato al sogno, c’è un precorrimento dell’automatismo surrealista, oltre che della gestualità espressionista. Gestualità che, in un altro suo scritto del 1890, precorre, in una significativa coincidenza con la denominazione del primo gruppo espressionista, nell’idea del “ponte”, con cui mi piace concludere: “Anticamente nota è la sua [della natura] apparenza, e pure così incomprensibilmente estranea. Un profondo abisso separa l’uomo da lei. Ma egli nel suo spirito vi costruisce sopra un ponte.”
WHY MODENA?
WHY ACTION PAINTING?
...and beyond
di Elena Ciresola
PREMESSA
L’iniziativa di formazione “Educare all’arte del ‘900”, un progetto promosso dalla Fondazione Cassa di
Risparmio di Modena e curato da Elena Ciresola, è giunta quest’anno alla seconda edizione.
Circa duecento docenti provenienti dalle scuole di Modena e provincia – scuole d’infanzia, primarie,
secondarie di primo e secondo grado - hanno preso parte attivamente ai tre incontri organizzati in
relazione alla mostra “Action Painting. Arte americana 1940 – 1970”: un corso di formazione ad accesso
gratuito, riconosciuto come attività d’aggiornamento dal Ministero dell’Istruzione.
Il progetto ha registrato un alto livello di gradimento tra i partecipanti e si è articolato in un primo
incontro introduttivo, comune a tutti e tre gli ordini di scuola, a fine novembre, e in due successivi
appuntamenti più specifici, differenziati in base alle tipologie delle scuole, tenutisi nel mese di dicembre.
Nel corso delle lezioni il curatore della mostra, Luca Massimo Barbero, ha esposto i criteri
dell’allestimento; il responsabile educativo, Elena Ciresola, ha presentato alcuni percorsi didattici da
sviluppare a scuola, mentre l’artista Arthur Duff ha completato l’itinerario formativo con attività di
laboratorio. Tali incontri sono stati propedeutici all’ingresso alla mostra da parte dei singoli docenti e
delle loro classi: sono stati forniti, infatti, tutti gli strumenti per comprendere al meglio il percorso
espositivo e sono stati suggeriti itinerari didattici multidisciplinari da impostare nelle aule. Il percorso
didattico prosegue, inoltre, con un concorso rivolto agli studenti, la cui partecipazione è aperta a tutte le
scuole del territorio: l’elaborazione personale da parte dei ragazzi, invitati a creare con le proprie mani
opere ispirate ai temi della mostra, costituisce il coronamento dell’esperienza educativa avviata nel corso
degli incontri con i docenti.
La vocazione territoriale che contraddistingue l’operato della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena sin
dalla sua nascita, nel 1991, ha condotto a selezionare necessariamente le numerose richieste di
partecipazione al corso e a privilegiare i docenti attivi sul territorio locale.
Quel che segue è un abstract del book didattico fornito ai docenti delle scuole di Modena e provincia.
Il testo fornisce alcuni brevi input nella speranza di essere stimolo alla conoscenza per altre realtà
scolastiche o altri pubblici. Quindi è solo una traccia parziale di Vie possibili nell’Arte esposta per tre mesi
al Foro Boario di Modena, di viaggi dello sguardo tra l’Arte americana esposta e la città di Modena.
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