lunedì 24 settembre 2007

I fondamenti del Buddhismo

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI«
 Il bramino Dona vide il Buddha seduto sotto un albero e fu tanto colpito dall'aura consapevole e serena che emanava, nonché dallo splendore del suo aspetto, che gli chiese:
– Sei per caso un dio?
– No, brâhmana, non sono un dio.
– Allora sei un angelo?
– No davvero, brâhmana.
– Allora sei uno spirito?
– No, non sono uno spirito.
– E allora, che cosa sei?
– Io sono sveglio. »
(Anguttara Nikaya)
I fondamenti del BuddhismoAlla base della dottrina buddhista troviamo le Quattro Nobili Verità. Si narra che il Buddha, meditando sotto l'albero della bodhi, le comprese nel momento del proprio risveglio spirituale.Le quattro nobili veritàIl "Dhammacakkappavattana Sutta" (od anche "Dharmaçakrapravartana Sutra" in sanscrito)il "Discorso della messa in moto della ruota del Dhamma" (od anche Dharma in sanscrito)È il primo discorso pubblico del Buddha, tenuto al parco dei cervi nei pressi di Sarnath vicino Varanasi (attuale Benares) nel 528 a.C. all'età di 35 anni, dopo che nei pressi del villaggio di Bodhgaya dello stato del Bihar (stato fra i più poveri dell'India) aveva raggiunto il "risveglio spirituale", detto "satori" nel Buddhismo Zen.Questo discorso è quindi anche detto "Discorso di Benares", fondamentale per il Buddhismo, che da questo primo discorso pubblico prese le mosse e può considerarsi avviato anche come prima comunità iniziale buddhista (sangha) formata proprio da quei cinque asceti che lo avevano abbandonato anni prima sfiduciati, dopo essere stati a lungo i discepoli più vicini a lui.In questo discorso si identifica il Buddhismo come "La Via di Mezzo" in cui si riconosce che la retta condotta risiede nella linea mediana di condotta di vita (majjhama patipada) evitando eccessi ed assolutismi.Nell'occasione di questo sermone il Buddha rivela le "Quattro Nobili Verità", frutto del proprio "risveglio spirituale" testè raggiunto.Eccone di seguito l'elenco: 1. Duhkha: "esiste la sofferenza esistenziale".Nella vita dell'Uomo è insita una sofferenza di tipo esistenziale: essa affligge l'Uomo a motivo dell'impermanenza della situazione esistenziale che lo accompagna dalla nascita e per effetto della sua nascita immersa nel "samsara".Questa sofferenza esistenziale si rivela ed è percepita non solo quando si constata l'ineluttabilità di malattia, vecchiaia e morte, ma anche quando si è costretti al contatto con ciò che non si ama come, ad esempio, contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi che ci dispiacciono.Ma non solo in questi casi: la sofferenza esistenziale si rivela ed è percepita anche quando si è costretti alla separazione da ciò che si ama, come quando uno è privato di visioni, suoni, odori, sapori o sensazioni tattili desiderabili, gradevoli, attraenti, oppure come quando uno non riesce ad ottenere contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi che producono il suo bene, il suo benessere, il suo agio, la sua libertà dalla schiavitù, od infine quando uno debba subire la forzata separazione da madre, padre, fratelli, sorelle o da amici, compagni, parenti amati. La frustrazione dei desideri è una delle più usuali percezioni del "duhkha", della cosiddetta "sofferenza esistenziale".Più in generale, la constatazione che viene fatta nella "Prima Nobile Verità" è che esiste nella vita dell'Uomo una sofferenza esistenziale associata all'impermanenza di tutte le cose, al fatto che ogni cosa è destinata a finire. 2. Samudaya: "esiste un'origine della sofferenza esistenziale"La sofferenza esistenziale non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è transitorio, spinti dal desiderio (trsna, in pali: «tanha» o «brama») per ciò che non è soddisfacente. Si manifesta nelle tre forme di kamatrsna o «desiderio di oggetti sensuali»; bhavatrsna o «desiderio di essere»; vibhavatrsna o «desiderio di non essere». 3. Nirodha: "esiste l'emancipazione dalla sofferenza esistenziale"Per sperimentare l'emancipazione dalla sofferenza esistenziale, occorre lasciare andare trsna, l'attaccamento alle cose e alle persone, alla scala di valori ingannevoli per cui ciò che è provvisorio è maggiormente desiderabile. 4. Marga: "esiste un percorso di pratica da seguire per emanciparsi dalla sofferenza esistenziale".È la strada da intraprendere per avvicinarsi al NIRVANAEsso è detto il «Nobile Ottuplice Sentiero» •Il Nobile Ottuplice SentieroLa "Quarta Nobile Verità" consiste nel "Nobile Ottuplice Sentiero" (ariyo atthangiko maggo) che conduce alla piena ed esaustiva realizzazione spirituale buddhista attraverso il superamento di quel condizionamento costituito dalla sofferenza esistenziale che si accompagna alla vita dell'Uomo sia dalla sua nascita e sia a motivo della sua nascita • Gli elementi del "Nobile Ottuplice Sentiero"Possono essere considerati secondo tre tipologie. Questo ordinamento, però, non significa affatto che esista un albero gerarchico fra gli otto elementi, né tanto meno che esista un ordine di successione e di importanza fra di essi. Tutti quanti gli otto elementi sono coltivati comtemporaneamente nella pratica buddhista e ciascuno interagisce in una realizzazione sinergica con gli altri. • la "prima tipologia" riguarda la «saggezza»
1.Retto intendimento (samma ditthi) cioè il riconoscimento delle "Quattro Nobili Verità" attraverso la loro corretta conoscenza e la conseguente loro corretta visione.2.Retta risoluzione (samma sankappa) cioè il corretto impegno sostenuto dalla corretta intenzione nel padroneggiare il trsna (l'attaccamento al desiderio di vivere, alla brama ed all'avidità di esistere, di divenire o di liberarsi, al desiderio di affermare il proprio «sé esistente») in modo da manterene la corretta aspirazione che consegue alla corretta motivazione, al fine di non lasciarsi condizionare dalla «sete di esistere», causa del Samsāra.la "seconda tipologia" riguarda la «moralità» (sila).1.Retta Parola (samma vaca) cioè l'assunzione della personale responsabilità delle nostre parole, ponendo attenzione nella loro scelta e ponderandole in modo che esse non producano effetti nocivi agli altri e di conseguenza a noi stessi; ciò significa anche che il nostro agire deve essere improntato al nostro parlare e corrispondere ad esso.
2.Retta Azione (samma kammanta) cioè l'azione non motivata dalla ricerca di egoistici vantaggi, svolta senza attaccamento verso i suoi frutti. È anche "l'azione che si conforma correttamente alla situazione", nel senso in cui non c'è più distinzione fra l'azione individuale e personale e l'azione del karma cosmico in relazione all'evento in cui l'agire individuale e personale si determina. In questo caso il corretto agire individuale armonizza in modo talmente perfetto il karma specifico prodotto dall'azione individuale al karma cosmico, da non consentire più che il karma individuale si distingua da quello universale e di esso viene quindi a costituire una sua intima ed indistinguibile componente. Per questo motivo la "retta azione" è anche considerata un "agire senza agire".3.Retta Condotta di vita (samma ajiva) cioè vivere in modo equilibrato evitando gli eccessi, procurandosi un sostentamento adeguato con mezzi che non possano arrecare danno o sofferenza agli altri. Questo comporta anche la corretta padronanza delle proprie intenzioni, in modo che esse siano sempre orientate e dirette lungo la linea mediana di condotta di vita (majjhama patipada) attraverso una corretta azione • la "terza tipologia" riguarda la specificità della «meditazione buddhista» 1. Retto Sforzo (samma vayama) cioè lasciare andare gli stati non salutari e coltivare quelli salutari. Significa anche confidare nella bontà della propria pratica buddhista perseverando con un corretto ed equilibrato impegno nello sforzo, motivato dalla fede (saddhâ) che al buddhista praticante proviene dai risultati ottenuti nell'avanzamento lungo il persorso della propria personale realizzazione spirituale e nell'avanzamento verso una sempre maggiore capacità di esercitare una corretta azione (samma kammanta) nella propria pratica buddhista. 2. Retta Consapevolezza (samma sati) cioè la capacità di mantenere la mente priva di confusione, non influenzata dalla brama e dall'attaccamento (trsna) 3. Retta pratica della meditazione (samma samadhi) cioè la capacità di mantenere il corretto atteggiamento interiore che porta alla corretta padronanza di sé stessi durante la pratica della meditazione (dhyāna).Nel Buddhismo Zen si usa il termine giapponese "zanmai" anziché il termine sanscrito "samadhi", con lo stesso significato di raggiungimento del livello più elevato di "unione", riunificazione, identificazione del sé individuale con la realtà esistente. L'uso del termine "zanmai" è particolarmente indicato nel caso dell'ottavo elemento dell'ottuplice sentiero, poiché esso implica uno stato interiore nel quale la mente è assolutamente libera da distrazione ed è assorbita in intensa e decisa concentrazione, la quale, correttamente applicata, è una specifica caratteristica richiesta nella "retta pratica della meditazione"Vi sono quattro dhyāna (sanscrito) o jhana (pali). 1. Il primo dhyāna è una condizione di soddisfazione dovuta alla riflessione e all'investigazione. 2. Il secondo stadio è la tranquillità senza riflessione nell'investigazione.
3. Il terzo porta all'assenza di ogni condizionamento proveniente dal trsna che sta alla base della sofferenza, premessa questa indispensabile al conseguimento del successivo stadio. 4. Il quarto consiste nel nirvana, cioè nel superamento della sofferenza esistenziale attraverso il "pensiero-senza-pensiero" e l' «agire-senza-agire» conseguenti alla realizzazione del perfetto «risveglio spirituale buddhista», la cosiddetta "buddhità", vale a dire la «qualità di Buddha» presente in ogni essere umano, talvolta anche definita con il termine «vacuità».La parola dhyāna è all'origine della parola sinogiapponese zen: quando il Buddhismo arrivò in Cina, fu adattata alla lingua cinese (chan). In seguito il Buddhismo fu introdotto in Giappone e un'importante scuola porta questo nome.
Diversi approcci nella definizione di BuddhismoRiguardo alla definizione del Buddhismo ci sono diverse opinioni. Il Dalai Lama ha definito il Buddhismo "a science of mind" una scienza della mente. Secondo alcuni per certi aspetti sarebbe possibile definirlo una religione, o presenterebbe comunque aspetti di tipo religioso; secondo altri, invece, sarebbe possibile definirlo una filosofia di vita, o presenterebbe comunque aspetti di tipo filosofico; secondo altri ancora nel Buddhismo sarebbero compresenti aspetti sia religiosi sia filosofici; infine altri negano che il Buddhismo rientri in una di queste predefinite specifiche categorie, dal momento che il Buddha stesso, quando era in vita, a chi esplicitamente gli domandava se i suoi insegnamenti fossero «teisti», «atei», o costituissero una «filosofia di vita», invariabilmente tacque sempre su questi punti specifici, senza mai soddisfare a queste domande.Ma proprio questa assenza di indicazioni fece anche sì che nel corso del suo millenario sviluppo in ogni parte del mondo, il Buddhismo legittimamente tollerasse una grande varietà di pratiche al suo interno, fino ad assumere quella complessità di manifestazioni e di aspetti oggi presenti e che sono anche motivo di queste diversità di orientamenti di opinione sulla sua definizione.Buddhismo e religione Alla sua origine il Buddhismo era effettivamente estraneo da qualunque preoccupazione religiosa. Buddha, nella sua ricerca e nella sua predicazione, si rifiuta di affrontare questioni di tipo religioso riguardanti l'esistenza di un principio divino assoluto, o l'eventuale natura di un'anima separata dal corpo: questioni di questo genere non vengono né negate né affermate, ma semplicemente lasciate nel silenzio. Da questo punto di vista il Buddhismo, nelle sue prime fasi, si distacca nettamente dall'induismo del tempo, il quale aveva invece al suo centro l'identità tra l'io individuale e l'Assoluto divino. Anche riguardo al Nirvana, che pure è l'obiettivo ultimo della pratica Buddhista, il Buddha e la letteratura Buddhista successiva preferiscono definirlo in negativo, senza affermarne nulla al riguardo. Ciò non significa che il Nirvana consista nel nulla: significa semplicemente che è al di là della possibilità del linguaggio e del pensiero, che è inesprimibile attraverso delle categorie concettuali avendo la sostanza della vacuità.Tuttavia, già entro un breve tempo successivo alla scomparsa del Buddha, si verificò un processo di «divinizzazione» del maestro, concepito sempre meno come semplice uomo e sempre più come creatura dotata di facoltà prodigiose e sovrumane. A questo processo di divinizzazione si affiancò un vero e proprio culto popolare relativo al Buddha e alle sue reliquie (vedi la voce stupa).
Nei secoli posteriori, quindi, venne sviluppandosi all'interno del Buddhismo tutta una fenomenologia devozionale, composta di templi, preghiere e mitologia che si configura entro certi limiti come una vera e propria religione. Da questo punto di vista c'è chi afferma che, specie per quanto riguarda il Buddhismo Mahayana, e soprattutto per quanto riguarda l'Amidismo, il Buddhismo o alcune sue tradizioni, siano a tutti gli effetti una religione.Da parte sua, inoltre, se le diverse scuole del Buddhismo sono concordi nel rifiutarsi di definire in senso positivo un eventuale principio divino Assoluto, non viene comunque negata l'esistenza di entità superiori all'uomo, cioè le varie divinità del politeismo. Il Buddhismo, in tal senso, non negò l'esistenza dei deva nell'induismo così come non negò quella dei kami giapponesi e anzi ne aggiunse d'altri propri: soltanto, dal punto di vista Buddhista anche queste divinità (non concepite come eterne o incorruttibili) fanno parte, assieme all'uomo e a tutte le altre creature viventi, del ciclo del divenire e della sofferenza. Il buddhismo inventò perciò molti episodi in cui uno di essi, o una folla di divinità, discende dal cielo per ascoltare rispettosamente la parola del Buddha o per rendergli qualche servizio, «annoverandoli fra i laici», facendone devoti modello e protettori del buddhismo.Da notare infine che, attualmente, nei paesi a maggioranza Buddhista o dove il Buddhismo ha avuto una larga influenza culturale (ad esempio il Giappone o l'Indocina), nella percezione popolare il Buddhismo viene visto e vissuto come una religione.Buddhismo ed ateismo Alcuni pensano che poiché il Buddha ha sempre accuratamente e volutamente evitato di fare affermazioni sull'Assoluto, il suo insegnamento sia certamente «ateo»Altri sostengono che il Buddhismo sia sostanzialmente ateo per il fatto che, nonostante il Buddha non abbia mai negato le tradizionali divinità specifiche del brahmanesimo (che successivamente diventerà induismo), queste divinità non possono evitare all'Uomo le sofferenze della vita, per cui credere o non credere in loro non cambia le cose e l'Uomo, secondo il Buddha, deve invece trovare il cammino che conduce al proprio «risveglio interiore» ed alla personale completa realizzazione spirituale, attraverso la propria pratica individuale ed il vaglio della propria personale esperienza (il dhamma-vicaya) seguendo il metodo introspettivo indicato dal Buddha stesso (il Bodhipakkhika Dhamma).Anche papa Giovanni Paolo II, ha attribuito al Buddhismo un sostanziale ateismo, alimentando la tesi e le argomentazioni di chi cerca di ravvisare nel Buddhismo un sistema sostanzialmente ateo, infatti afferma nel libro-intervista Varcare la soglia della speranza[2], che «il Buddismo è in misura rilevante un sistema ateo» dal momento che è privo di avvicinamento a Dio: «La pienezza del distacco buddhista non è l'unione con Dio, ma il cosiddetto nirvana, ovvero uno stato di perfetta indifferenza nei riguardi del mondo» e ancora «il Buddhismo è, al pari del Cristianesimo, una religione di salvezza, ma le dottrine di salvezza dell'uno e dell'altro sono tra loro "contrarie"». Si sottolinea quindi l'esclusione di riferimenti ai termini «Dio» e/o «Divinità», riferendosi genericamente ad un «aiuto superiore» ma non sarebbe un aiuto «divino».Queste opinioni sul Buddhismo espresse dal più autorevole rappresentante dalla Chiesa cattolica, sono sostanzialmente allineate con un precedente documento del Concilio Vaticano II (Nostra Aetate - 28 ottobre 1965) nonostante qui si usino termini più concilianti in ottica di una precedente politica interreligiosa più moderata: «Nel Buddhismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema sia per mezzo dei propri sforzi sia con l'aiuto venuto dall'alto»,Queste sono le principali ragioni di chi vorrebbe identificare il Buddhismo come una sorta di ateismo.Questa interpretazione atea del Buddhismo è però confutata da chi sostiene che, essendo l'ateismo la negazione assoluta di Dio, l'ateismo costituisce esso stesso un assolutismo, il quale assolutismo deve ritenersi totalmente estraneo al Buddhismo che si fonda invece sull'equilibrata "Via di mezzo" (il Nobile Ottuplice Sentiero) che, prescindendo per sua stessa natura da qualsiasi forma di assolutismo, rifugge quindi da entrambi, sia quello del teismo sia a maggior ragione quello dell'ateismo. In questo senso deve quindi intendersi lo scrupolo che il Buddha sempre si diede nell'evitare accuratamente di esprimersi sulla questione dell'Assoluto e quindi senza cadere mai nell'assolutismo delle posizioni che da esso deriva.Rifuggendo quindi da ogni tipo e forma di assolutismo, il Buddhismo in quanto espressione della «Via di mezzo» indicata dal Buddha nel suo famoso e fondamentale «discorso di Benares», non può che prescindere da queste questioni esistenziali proposte invece, peraltro entrambe in modo irrisolto ed irrisolvibile, sia dall'ideologia del teismo sia da quella dell'ateismo.Queste sono le principali ragioni di chi esclude decisamente che esista la possibilità di identificare il Buddhismo come una sorta di ateismo e quindi conseguentemente come negazione assoluta di Divinità (deismo) e/o di uno specifico Dio (teismo).Ma se si vuol considerare l'ateismo come l'attitudine ad affrontare «in modo critico» le vicissitudini senza trascendere la realtà («senza appigli»), allora si deve riconoscere che senza questa attitudine è impossibile «abbracciare» il buddhismo, cioè svegliarsi[4]. Il «buddhismo non nega nulla», nonostante ciò «è una religione senza dio», senz'anima (e senza sé), senza culto e senza mistero, basata sulla comprensione delle concezioni su cui poggia e non sulla fede. C'è stata «una sola setta», la mahàsàmghika dei lokottaravàdin che consideravano buddha un essere trascendente (lokottara, cioè un dio) e il buddha storico solo un fantasma (nirmànakàya) emanato da questo. Furono loro a scolpire gli enormi monumenti del buddha nelle rocce del Bamiyan, proprio quelli bombardati dai talebani che da musulmani iconoclasti sono incappati nell'errore di considerare idolatre quelle sculture. Anche se nell'intenzione della setta «c'era idolatria», le statue rappresentavano un uomo e non un dio, e i talebani hanno distrutto una raffigurazione umana e non divina perché buddha è comunque solamente un uomo.Anche l'assolutismo, nell'accezione non trascendente, cioè nel decidere di considerare «definitivo» un solo elemento tra molti presi in esame, non è estraneo al buddhismo, anzi il buddhismo argomenta come l'insegnamento della Legge da parte degli Svegliati si svolge in base a due verità: la verità relativa del mondo e la «verità assoluta». Quest'ultima è «l'illusione dell'esistenza di quelle quattro sante verità che il buddista «abbraccia» quando mette in moto la Ruota della Legge, fino ad allora il buddista conosce le quattro sante verità, ma non le abbraccia e si illude che esistano, e «questa è la verità relativa» del mondo.Buddhismo e filosofia Riguardo ai rapporti tra Buddhismo e filosofia, la questione è resa più complessa dalla già difficile definizione dello stesso concetto di filosofia.Nella concezione moderna, successiva al XVI secolo e alla rivoluzione scientifica, per filosofia si intende comunemente lo «studio del significato e della giustificazione della conoscenza del più generale, od universale, aspetto delle cose». La filosofia sarebbe dunque una forma di indagine del sapere, volta a descrivere la natura più profonda della realtà. In questo senso è possibile ravvisare aspetti filosofici all'interno del Buddhismo. La presenza di questioni viste come incongruenti nella dottrina del Buddhismo più antico (ad esempio la negazione dell'esistenza di un io individuale) generò difatti, nei secoli posteriori, ampie speculazioni teoriche nel tentativo di risolverli. Speculazioni teoriche spesso estremamente complesse, basate su sofisticati sistemi di logica, che discutono questioni come quelle dell'esistenza dell'io, o di un principio di causalità, che possono trovare dei paralleli all'interno della filosofia di origine europea. Tali speculazioni si trovano ad esempio nella scuola del Madhyamaka o del Vijnanavada.C'è chi fa notare che, tuttavia, nel Buddhismo queste speculazioni teoriche non sarebbero volte a definire una descrizione definitiva della realtà (ambizione, questa, tipica della filosofia europea moderna), ma piuttosto sarebbero degli strumenti momentanei e transitorî per permettere al praticante Buddhista di dissolvere i proprî preconcetti razionali rispetto alla realtà in vista dell'ascesa al Nirvana.Tuttavia, vi è chi risponde che anche nella filosofia europea più antica, cioè in quella greca, il sapere razionale non era fine a sé stesso ma aveva una funzione strumentale in vista di un'ascesi spirituale. Così la dialettica platonica serviva per poter ascendere al puro mondo delle idee, e allo stesso modo le scuole ellenistiche adoperavano la ricerca speculativa per ottenere uno stato mentale al riparo dai turbamenti emotivi (come nello Stoicismo o nell'Epicureismo) o, di nuovo, per ascendere a una realtà ulteriore non definibile verbalmente (come nel Neoplatonismo). Da notare che, nell'ambito della filosofia greca, l'ascesi filosofica non era sempre puramente mentale, ma si combinava anche con esercizi fisici, come ad esempio il controllo del respiro, similari a quelli buddhisti (tale ad esempio è la teoria di Pierre Hadot, studioso del pensiero greco antico).Infine, per chi afferma la possibilità di tracciare paralleli tra la filosofia europea e il Buddhismo, non sono da tralasciare le somiglianze con la cosiddetta teologia negativa, che affonda le sue radici nel Neoplatonismo e, tramite lo Pseudo-Dionigi e Meister Heckart arriva con Nicola Cusano sino alle soglie della modernità.Secondo il punto di vista del buddhismo, lo spazio è senza tempo e presente ovunque come tutte le qualità inerenti alla mente stessa. Lo spazio contiene conoscenza, sperimenta felicità e si esprime in modo gioioso e pieno di significato. Riconoscere questo spazio in sé ed in ogni cosa è raggiungere la piena illuminazione. Spesso erroneamente interpretato come un niente, una mancanza o un buco nero, esso invece connette ogni cosa. Dal Buddha lo spazio viene definito vacuità che comprende e riconosce tutti i tempi e tutte le direzioni.Né teismo e religione, né ateismo, né filosofia di vitaLe posizioni di coloro che sono favorevoli a definire il Buddhismo una «disciplina spirituale di anagogia individuale» che prescinde dai concetti di teismo, ateismo e filosofia di vita e quindi non lo annoverano fra le religioni, né fra le ideologie e le filosofie, poggiano su diversi ordini di motivi. • C'è chi fa notare che i concetti di religione e filosofia sono nati e si sono sviluppati nel cosiddetto Occidente, cioè all'interno della tradizione europea, e soprattutto nella lunga storia del Cristianesimo e della sua influenza sulla cultura europea, storia che avrebbe molto poco a che vedere con quelle che sono le visioni del mondo proprio dell'Asia Orientale. In tal senso sarebbe un'assurdità di principio applicare concetti come quelli di religione e filosofia a qualcosa come il Buddhismo, nato e formatosi in culture che, sino a qualche secolo fa, ignoravano del tutto tali concetti. Ad esempio lo studioso italiano Mario Piantelli afferma che assimilare i diversi tipi di Buddhismo «sic et simpliciter agli altri "oggetti-religione" costruiti in modo più o meno arbitrario ritagliandoli all'interno del contesto prodigiosamente complesso del mondo indiano può risultare, per il primo periodo della loro storia, alquanto fuorviante». Sempre Piantelli, inoltre, fa notare come il Buddhismo, alla sua origine, comporti «un'opzione soteriologica sotto diversi aspetti «anti-religiosa», almeno secondo un modo tradizionale di definire la religione». • C'è chi fa notare come il Buddha stesso, quando era in vita, a chi esplicitamente gli domandava se i suoi insegnamenti fossero teisti, atei, o costituissero una filosofia di vita, invariabilmente tacque sempre su questi punti specifici, senza mai soddisfare a queste domande • C'è chi fa notare come il Buddha paragonasse sé stesso al medico che, trovandosi di fronte ad un uomo colpito da una freccia, si prodiga innanzi tutto nel curare la ferita mosso dalla priorità di salvargli la vita, anziché preoccuparsi prioritariamente di scovare l'arciere che ha scagliato la freccia lasciando nel frattempo morire il ferito. Per il Buddha, quindi, prendere posizione su questioni quali teismo, ateismo, filosofia di vita, equivale ad affannarsi nella ricerca dell'arciere, come fanno le religioni, gli atei e le filosofie, ma queste prese di posizione sono invece totalmente estranee agli insegnamenti del Buddha che prescindono da esse e conseguentemente anche il Buddhismo, in nuce, trae la propria ragion d'essere in modo completamente indipendente da queste questioni esistenziali, prefiggendosi esclusivamente di curare la sofferenza posta al centro delle Quattro Nobili Verità oggetto dell'illuminazione del Buddha e del suo messaggio, anziché preoccuparsi di disquisire di come o per opera di chi si origini la sofferenza stessa e perché l'Uomo ne sia colpito. • C'è chi fa notare che questo modo di esprimersi del Buddha di fronte all'esplicita richiesta di prendere posizione fra teismo, ateismo, filosofia di vita, sia determinante nel dirimere la questione di come debbano essere considerate queste rispettive posizioni esistenziali nel Buddhismo così come esso si è successivamente sviluppato dopo la morte del Buddha, nel senso che ne deducono che il Buddha stesso intendesse volontariamente prescindere da esse nei suoi insegnamenti, non potendosi neppure interpretare come ritrosia questo comportamento, dal momento che ancora poco prima di morire il Buddha stesso fu assai esplicito nel dichiarare chiaramente «che lui aveva ormai risposto ad ogni possibile domanda di insegnamento che gli era provenuta dalla comunità dei suoi monaci» e questa sua dichiarazione, resa proprio poco prima della sua morte, convince alcuni a propendere per una volontà da parte del Buddha nel non voler aggiungere nulla di più e nel non voler modificare neppure in punto di morte il suo atteggiamento di «prescindere totalmente dalle suddette posizioni esistenziali di teismo, ateismo e di filosofia di vita».Si legge infatti nel Mahâparinibbânasuttanta («il grande discorso del nibbâna definitivo»), seconda sezione, versoTesti I testi sacri del Buddhismo sono attualmente raccolti in tre canoni: il Canone Pali (Tipitaka), il Canone cinese (Dazangjing), e il Canone tibetano (Bka'-gyur) a seconda delle lingue degli scritti. Il Canone Pali è proprio del Buddhismo Theravada, e si compone di tre pitaka, o canestri: il Vinaya Pitaka, o canestro della disciplina, con le regole di vita dei monaci; il Sutta Pitaka o canestro della dottrina, con i sermoni del Buddha; infine l'Abhidhamma Pitaka o canestro della fenomenologia in ambito cosmologico, psicologico e metafisico, che raccoglie gli approfondimenti alla dottrina esposta nel Sutta Pitaka. I Canoni cinese e tibetano si rifanno ad un precedente Canone tradotto in lingua sanscrita sotto l'impero Kushano e poi andato perduto. Questi due Canoni furono adottati dalla tradizione Mahayana che prevalse sia in Cina che in Tibet. Il Canone tibetano si suddivide in due raccolte, il Kangiur (che riporta discorsi pronunciati dal Buddha Shakyamuni) e il Tanjur (Raccolta di commenti e insegnamenti), mentre il Canone cinese si compone di circa 3.500 sutra e oltre 2.000 testi di commento ed è suddiviso in 24 sezioni principali.Il canone sanscrito riportava tutti i testi delle differenti antiche scuole e dei differenti insegnamenti presenti nell'impero Kushano. La traduzione di tutte queste opere dalle originali lingue pracritiche a quella sanscrita (una sorta di lingua dotta 'internazionale' come lo fu il latino nel nostro Medioevo) fu voluta dagli stessi imperatori. Buona parte di questi testi furono successivamente trasferiti in Tibet e in Cina sia da missionari kushani (ma anche persiani e sogdiani), sia riportati in patria da pellegrini. Da segnalare che le regole monastiche (Vinaya) delle scuole presenti oggi in Tibet e in Cina derivano da due antichissime scuole indiane, rispettivamente dalla Sarvastivada (Mulasarvastivada) e dalla Dharmaguptaka.Correnti del buddhismo [In IndiaIl Buddhismo si estinse in India, paese d'origine, approssimativamente attorno al XIV secolo. Tuttavia durante più di 1500 anni di storia il Buddhismo Indiano ha sviluppato indirizzi e interpretazioni diverse, anche estremamente complesse. Lo sviluppo di tale complessità si rese necessaria con il continuo confronto dottrinale sia all'esterno delle Comunità monastiche con le scuole Brahmaniche e Jaina, sia all'interno delle stesse per svelare progressivamente gli insegnamenti (soprattutto i c.d. "insesprimibili") contenuti negli antichi Agama/Nikaya (Suttapitaka nel Canone pali, sezione degli Ahanjiing nel Canone cinese). Attualmente le scuole buddhiste possono essere suddivise in tre ambiti: • Il Buddhismo Theravada anche noto come il «Buddhismo degli Anziani» o degli Sthavira (titolo onorifico per i monaci anziani). Rappresenta la più longeva scuola originatasi da quelle antiche comunità che, a loro detta, scelsero sempre un approccio più ortodosso e letterale all'insegnamento del Buddha storico, in special modo in contrapposizione ad alcuni insegnamenti ritenuti innovativi proposti dai Prajnaparamita Sutra. La tradizione Theravada è stata recentemente reintrodotta in India, sebbene rappresenti una sparuta minoranza, ma fiorì soprattutto in Sri Lanka e da lì, per le vie commerciali meridionali si diffuse in alcuni paesi dell'Indocina. Il Buddhismo Theravada ha sviluppato un approccio per lo più indipendente dagli altri sviluppi del Buddhismo in Asia. La tradizione letteraria è trasmessa in Pāli, una lingua scritta basata su un dialetto pracrito presumibilmente dell'India centro-settentrionale e il cui utilizzo è attestato alcuni secoli dopo le predicazioni del Buddha storico. • Buddhismo Mahayana o del «Grande Veicolo», sviluppatosi anch'esso, come la scuola Theravada, a partire da alcune comunità buddhiste antiche ma con l'accolgimento degli insegnamenti riportati nei Prajnaparamita Sutra. Buona parte del Buddhismo Indiano a partire dal II secolo fino alla sua scomparsa è rappresentato o influenzato da questa corrente, in seno alla quale meritano particolare menzione gli indirizzi Madhyamika, Cittamatrin e il Buddhismo Vajrayana. La quasi totalità delle differenti scuole oggi presenti in Estremo Oriente appartengono a questo Veicolo. • Il Buddhismo Tantrico anch'esso Mahayana, rappresenta la controparte buddhista di un fenomeno più ampio nelle religioni dell'India, il Tantrismo, che ha influenzato anche l'Induismo. Si sviluppò in seno al Buddhismo Mahayana e ne influenzò profondamente la pratica, almeno dal VI secolo in poi. Anche noto come Mantrayana, la sua forma più organizzata è più conosciuta come Buddhismo Vajrayana o Veicolo del Diamante. Storie del buddhismo molto importanti come quella del tibetano Taranatha attestano che, almeno dal X secolo, i centri universitari buddhisti in India dispensavano soprattutto insegnamenti tantrici. Pressocché tutte le scuole tibetane, ma anche diverse scuole estremo-orientali, appartengono oggi a questo Veicolo.

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