lunedì 24 settembre 2007

Difficile il compito di interpretare le opere d’arte

di Gian Luigi Verzellesi

Il difficile compito interpretativo delle opere d’arte è sempre stato svolto, nel corso del tempo, da una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Sono i protagonisti di cui parla la storia della critica d’arte: persone dotate di

gusto, o talento comprensivo, che riescono a far luce sulle opere determinandone il significato e il valore espressivo o poetico. Senza i loro contributi, o approcci conoscitivi, eseguiti nei secoli con metodi differenziati, le opere resterebbero incomprensibili come oscuri messaggi visivi simili a fatti sfuggenti alla rete delle interpretazioni.

Ma questo modo tradizionale di considerare il rapporto, tra l’attività artistica e quella ermeneutica, è stato sconvolto dalla tesi di Nietzsche, secondo la quale non ci sono fatti «bensì solo interpretazioni». Contro questa conclusioni paradossale sussistono ragionevoli motivi di dissenso: se infatti si perde la nozione di fatto, sfugge ogni possibilità di distinguere le interpretazioni aderenti, o veritiere, delle sovrainterpretazioni arbitrarie, che fanno dire ai testi «quello che non dicono» (Pascal).

Certamente, «si danno diversi gradi d’accettabilità delle interpretazioni» (Eco). E nel settore della critica d’arte italiana del Novecento, un maestro come Roberto Longhi è arrivato a concludere che il lavoro critico-interpretativo può conseguire come risultato una «verosimiglianza non contradicevole». «Pretendere che in critica l’identità raggiungibile con l’opera d’arte sia più che relativa è filosoficamente stolto perché antistorico».

In realtà, nel campo vastissimo dell’arte contemporanea e specialmente delle ultime tendenze post-moderne, non poche sono le cause che rendono sempre più difficile un autentico approccio critico veridicamente interpretativo. La prima è da individuare nella «sdefinizione dell’arte» per cui gli artisti, procedendo impulsivamente al di fuori di ogni criterio tradizionale, rifiutano la figurazione come rappresentazione naturalistica e offrono al pubblico tanti «oggetti ansiosi», che spesso - così dice Harold Rosemberg, pioniere della critica americana - non consentono di stabilire se si tratta di «capolavori misteriosi» o di «paccottiglia» trascurabile.

La seconda causa è nel pubblico massificato, che non dispone degli strumenti culturali necessari per orientarsi nel sottobosco ombroso delle mostre, dove sovrabbondano opere ridotte e manufatti sconcertanti. Di fronte ai quali, la caccia al significato recondito induce l’osservatore a sovrainterpretare attribuendo a ciò che vede un senso forzoso, che non emerge dall’opera ma «si trasferisce dal di fuori» (Betti) come una congettura arbitraria e inverificabile.

Sollecitato da ondate di pubblicità travolgente, il pubblico accorre alle mostre, sempre più accompagnate da cataloghi costosi e di lettura abbastanza disagevole. Spera, il pubblico, di trovare il tempo per leggere le dense considerazioni orientative degli addetti ai lavori, che possano aiutarlo a capire le strane opere in mostra. Ma anche in quei cataloghi grevi, l’impostazione apologetica, o pubblicitaria, spunta e rispunta. Così, in questo clima, lo spazio per le sovrainterpretazioni si dilata. E si restringe quello della critica, che registra le poche ricezioni davvero interpretative.


pubblicato da:"L'Arena"-il 16 Settembre 2007

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