Franz Kline
A CURA DI DANILO PICCHIOTTI
Franz Kline nasce il 23 maggio 1910 a Wilkes-Barre, Pennsylvania. Iscritto alla Boston University, frequenta i corsi alla Boston Art Students League dal 1931 al 1935. Nello stesso anno si trasferisce a Londra dove dal 1936 al 1938 frequenta la Heatherly’s Art School. L’anno successivo lascia definitivamente L’Europa per New York.Alla fine degli anni Trenta e nel corso degli anni Quaranta, Kline dipinge vedute urbane di New York e paesaggi del distretto minerario dove aveva trascorso la sua infanzia. Gli vengono commissionati murali e ritratti. In questo periodo, riceve premi in alcune rassegne annuali di Accademie Nazionali di Design.
Alla metà degli anni Quaranta Kline inizia a sviluppare un interesse per le possibilità espressive dell’astrazione e a ridurre e semplificare gli elementi compositivi del suo primo stile realista, in cui faceva ancora ricorso al colore e alla figurazione. Intorno al 1948 ingrandisce, usando un proiettore, alcuni suoi disegni in bianco e nero. Il potere espressivo e le magnificenza delle forme e delle pennellate confermano la sua intenzione di adottare uno stile che si caratterizza per la purezza dell’astrazione.
Nel 1950 Kline espone un dipinto astratto nella mostra Talent 1950 alla Kootz Gallery, organizzata da Clement Greenberg e Meyer Schapiro. Alcuni mesi dopo, la Egan Gallery di New York gli dedica la prima mostra personale. La sua partecipazione al celebre Ninth Street Show, tenutosi al numero 60 della East Ninth Street, e a American Vanguard Art for Paris Exhibition alla Sidney Janis Gallery, confermano l’artista come una delle più significative figure nell’ambito dell’emergente movimento dell’Espressionismo Astratto.
A metà degli anni Cinquanta, Kline reintroduce il colore nella sua tavolozza bianca e nera, inizialmente in modo irregolare e in seguito con segmenti sempre più larghi. Nel 1956, Sidney Janis diviene il suo gallerista di riferimento e organizzandogli, tra l’altro, mostre personali nel 1956, 1958, e 1961. L’artista tiene la sua prima mostra personale in Europa alla Galleria La Tartaruga di Roma, seguita dalla mostra alla Galleria del Naviglio di Milano nella primavera del 1958. In occasione della sua partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1960 compie un viaggio di un mese attraverso l’Italia.
Nel decennio che precede la sua scomparsa, il suo lavoro viene presentato in importanti mostre collettive, tra cui The New Decade: 35 American Painters and Sculptors al Whitney Museum of American Art di New York (1955), 12 Americans al Museum of Modern Art di New York (1956), e nella mostra itinerante The New American Painting, organizzata dall’International Program del Museum of Modern Art nel 1958 e presentata a Basilea, Milano, Madrid, Berlino, Amsterdam, Brussels, Parigi e Londra. L’artista partecipa inoltre a manifestazioni internazionali, come la Biennale di Venezia nel 1956 e nel 1960 e al Carnegie International nel 1955, 1958 e 1961.
Muore il 13 maggio 1962 a New York.
Gli enormi simboli neri di Franz Kline, immersi nello sfondo bianco, appaiono, a prima vista, come ideogrammi cinesi ingigantiti: questa percezione immediata è tuttavia fuorviante; infatti più li si osserva da vicino, più si viene colpiti dalla raffinatezza delle variazioni del tema bianco e nero. Se si potessero prendere le linee verticali e orizzontali di Mondrian, in equilibrio asimmetrico, piegarle, avvolgerle ad anello, attorcigliarle e curvarle a motivi apparentemente semiautomatici, mantenendone l’equilibrio – o la sensazione di equilibrio – si otterrebbe un risultato simile a quello delle tele di Kline. Benché questi simboli emergano come caratteri su uno scudo assiro, sono altresì controllati e trattenuti dalla superficie del dipinto, grazie al sofisticato trattamento dello sfondo bianco.
[…] A mano a mano che Abstract Painting, 1952 (1) si sviluppava, Kline si è trovato ad affrontare varie decisioni: inizialmente due forme nere si lanciavano verso il bordo superiore della tela, ma il movimento risultava eccessivamente forte e tendeva a portare l’attenzione dell’osservatore all’esterno della tela. Dopo aver riflettuto - l’applicazione del colore è in effetti solo una piccola parte nella realizzazione di un dipinto - decideva di inserire un’area nera vicino alla parte superiore della tela, per ottenere un movimento orizzontale, lasciando però del bianco subito sopra, per richiamare le aree bianche sottostanti. Si sono successivamente presentati vari altri problemi, risolti con numerosi cambiamenti, ma il dipinto stava assumendo un aspetto semplificato e diretto, come era negli intenti dell’artista. Il dipinto è stato poi nuovamente riposto fino alla fine di luglio: riconsiderandolo subito prima di partire per il Black Mountain College, dove avrebbe insegnato nell’estate, l’artista rimase davanti al dipinto per un lungo periodo di riflessione. Era un po’ perplesso, qualcosa non quadrava. Tutte le forme erano delineate e l’opera era quasi riuscita, ma non del tutto. Decise di riporlo nuovamente, ma mentre toglieva le puntine che trattenevano la tela sul supporto cambiò idea, e lo riappese ruotato su un lato, per provare a fare emergere gli eventuali elementi disarmonici. Di solito in un dipinto astratto la parte superiore e quella inferiore sono definite, c’è una posizione dall’aspetto migliore, anche se non è determinata da oggetti. Spesso i pittori ruotano le tele, per controllare l’organizzazione delle masse, ma uno dei lati tende sempre a ricollocarsi nella posizione superiore. Anche Kline fa spesso questo, ma con Abstract Painting, 1952 sapeva fin dall’inizio quale era il lato superiore e aveva lavorato in questo senso. Ruotare il dipinto su un lato gli diede comunque lo spunto giusto: per ottenere l’equilibrio perfetto era necessario aggiungere un po’ più di nero e parecchio altro bianco a quello che era ora diventato il lato superiore. Per fortuna la tela era più grande di quanto aveva inizialmente previsto per l’opera finale. La ruotò nuovamente e aggiunse circa sette centimetri e mezzo sul lato destro, ottenendo le proporzioni ideali. Qualche altro piccolo ritocco, ed ecco ottenuto l’esatto rapporto di coerenza tra le forme. Il dipinto era finito. Non rimaneva che preparare il telaio e applicarvi la tela. Pochi e semplici tratti di bianco e nero su una tela, ma quanto lavoro per realizzarli: Kline era soddisfatto dei risultati. Il costante contatto con le parole che leggiamo, stampate in nero su carta bianca, ci porta probabilmente a tentare di individuare significati e a vedere il nero per prima cosa, mentre l’artista si relaziona con un rettangolo nel quale ogni area e colore sono analogamente indispensabili nella totalità. Nelle opere di Kline l’impatto visivo del nero non è sempre del tutto eliminato, in parte per la tendenza dell’osservatore ad essere attratto dal nero e, forse, anche in parte per una tendenza simile da parte del pittore, mentre lavora. Le immagini nere predominano in particolare nei lavori di Kline di due o tre anni fa, ma questo non significa che siano incompleti, ma piuttosto rappresentativi di una particolare fase evolutiva dell’artista. Nei dipinti più recenti si nota l’emergere con molta più sicurezza delle aree bianche, una logica conseguenza date le tendenze dell’autore. I molteplici strati di colore, necessari in alcuni dipinti, possono dare un’impressione di spessore, ma se questo accade, è solo un risultato, non un obiettivo perseguito intenzionalmente.
("Art News", vol. 51, n. 8, New York, dicembre 1952, pp. 36-39, 63-64)
Frank O’Hara: Franz Kline è uno dei più straordinari esempi della pittura contemporanea: leader del cosiddetto "movimento pittorico americano" – nella frequente definizione europea – e qui in America più noto come Espressionismo astratto o Pittura d’azione, esprime nelle sue opere l’individualità, l’audacia e l’imponenza che hanno reso così influente il movimento. I pittori protagonisti del movimento, totalmente diversi l’uno dall’altro, e lontanissimi dal concetto di scuola, hanno donato a noi americani – per la prima volta nella nostra storia – un’arte che ci è possibile apprezzare, emulare e comprendere, alla quale possiamo ambire senza divagazioni o pregiudizi provinciali. L’europeizzazione della nostra sensibilità è stata alla fine esorcizzata, come per magia, con un evento in certo modo violento che Henry James, insieme a Walt Whitman, avrebbe salutato con entusiasmo e che ci permette, come nazione, un’esistenza internazionale. […]
Franz Kline: Quello è un lavoro di Bill, vero? Straordinario! Un de Kooning si distingue sempre, anche se questo non assomiglia ai lavori iniziali, né a quelli recenti. Non che lo stile abbia un aspetto particolare, semplicemente è una summa. Si diventa uno stilista, suppongo, ma questo non è il punto. Qualcuno dirà che il mio stile è il bianco e nero, o che è uno stile calligrafico, ma io non l’ho mai consapevolmente inteso come uno stile o un atteggiamento rispetto alla pittura. A volte si ha un’idea precisa di quello che si sta facendo – in altri momenti sembra che tutto si perda. Non credo che la mia pittura sia la più moderna, contemporanea, inaccettabile o passata, ma nemmeno condivido l’idea di disprezzare il passato. Ho idee molto precise circa singoli dipinti e pittori, siano essi del passato o del presente. Per esempio, Bonnard a volte sembra privo di stile. Qualcuno ha detto che possiede la rara capacità di dimenticare, da un giorno all’altro, quello che ha fatto e vi aggiunge l’esperienza del giorno successivo, come un bambino che insegue un palloncino. Pensa solo a quella scena particolare che ha dipinto con la donna che non riesce a uscire dalla vasca da bagno, e l’uso così vivace del colore. Matisse non avrebbe mai dipinto un particolare così, non si faceva mai coinvolgere troppo da qualcosa. Braque e Gris sembrano avere un’idea predisposta in mente, mentre Bonnard la predispone al momento. In Léger si percepisce esattamente quando ha scoperto come funzionava un meccanismo, come un falegname - ha detto John Kane. Ma che cosa c’è di sbagliato in questo? Lo si vede anche in Barnett Newman, che sa come dovrebbe essere un dipinto, e, appunto, dipinge come pensa che si dovrebbe dipingere, il che è una cosa alquanto eroica.
Considerando l’essiccazione e altri elementi si riesce a capire se un dipinto è stato realizzato in una sola seduta o in stadi successivi. Alcuni Picasso sono chiaramente immediati e spontanei, in altri si vede che il giorno dopo è stata apportata la pennellata che ha completato il lavoro. Prendiamo, per esempio, uno di quei dipinti scuri di Ryders: è quello superficiale ed è spontaneo e immediato, dipinto in una sola seduta, poi ce ne sono sotto altri sette o otto molto più enigmatici.
Non sto affermando che realizzare un dipinto in una sola seduta implichi avere già tutto in mente dall’inizio, o che ti piaccia dipingere in una sola seduta, o quando hai avuto l’idea prima di cominciare. Istintivamente si ama quello che non si riesce a fare. A me piace Fra Angelico: ho provato infinite volte a rifare quegli occhi azzurri, quell’azzurro così vero. Qualcuno una volta mi ha detto di andare a vedere Ingres: in quel periodo amavo Daumier e Rembrandt e mi annoiavo guardando i lavori di Ingres, tuttavia, dopo poco, ha iniziato a piacermi. Si attraversano fasi diverse durante le quali si ammirano vari tipi diversi da te. Si va in un museo con l’intenzione di ammirare Tiziano, e si finisce per vedere altro. Tuttavia il modo in cui si lavorava prima di Cézanne è misterioso: Cézanne è come un analista e sembra essere veramente presente, pare di vederlo mentre dipinge il lato di un naso con il rosso, malgrado volesse dipingere come Velázquez.
Loro dipingevano l’oggetto che si trovavano di fronte, non allestivano uno studio per poi iniziare a dipingere senza soggetto. Io faccio entrambe le cose. Hokusai ha dipinto il Fuji perché lo aveva davanti: ricordandolo, sia Hokusai che altri, hanno tratto ispirazione immaginando come avevano tentato di rappresentarlo dal vero. Quando Hokusai dipinge il Fuji con un pennello – uccelli, nebbia, neve ecc. – non è l’occhio fotografico che agisce, bensì l’immagine mentale portata alla sua semplificazione estrema, senza che diventi per questo un simbolismo. Hokusai richiama più Toulouse-Lautrec, che ritraendo le ballerine voleva disegnare come Degas che, a sua volta, voleva disegnare come Ingres: è qualcosa che ha a che fare con il desiderio di veder ballare. O come Rembrandt, che andava a vedere i paesaggi di Hercules Seghers.
Trovo interessante Malevitch, forse perché attraverso il suo movimento è possibile percepire l’infinito portento della pittura, anche senza la definizione di un occhio o di un seno. Vorrebbe dire considerare le cose in modo romantico, cosa che i pittori non fanno. Le cose hanno un proprio fascino, a prescindere dall’idea del bianco su bianco, o di questo sopra quello. In Mondrian si può vedere un individuo che risolve i propri problemi in modo illogico. Ciò che ha fatto con la pittura è illogico per lui, ma può apparire logico ad altre persone. Un giorno ero nello studio di una di queste persone che mi disse di voler aggiungere del rosso in uno dei quadrati, per migliorarlo, e mi chiese che cosa ne pensavo. Gli risposi di provare e poi vedere solo se gli piaceva, non se migliorava il lavoro. […]
Se sei un pittore non sei mai solo, non c’è modo di essere solo. Rifletti, ci tieni e sei insieme a tutti coloro che ci tengono, compresi i giovani che non sono nemmeno ancora consapevoli del loro interesse. Questo Tomlin lo sapeva, ed è evidente nei suoi ultimi lavori. Jackson l’ha sempre saputo: se significa molto per te mentre lo fai, il significato resterà. È come Caruso e Björling. Björling sembra avere la stessa voce di Caruso, ma se pensi a Caruso e McCormack pensi a qualcosa di autentico. Björling ricordava Caruso, ma alla fine è stato apprezzato. Bradley Tomlin no. A meno che... accidenti, probabilmente tutta la pittura di tutto il mondo finirà per essere considerata bella, non so.
La natura dell’angoscia viene espressa in modi diversi. Non abbiamo ancora superato il periodo di apprendimento analitico delle motivazioni. Se si riesce a immaginare la motivazione, dovrebbe andare tutto bene, ma quando le cose "vanno oltre" ciò che conta è quanto qualcuno ci tiene. Si da per scontato che per leggere sia necessaria una capacità superiore a quella di un esperto di calligrafia, ma gettare qualcosa su una tela non richiede più attenzione che affermare "Non me ne importa niente."
Guarda Jackson: non si dipinge nel modo in cui qualcuno - osservando la tua vita - pensa che tu dovresti dipingere, si dipinge per riuscire a dare, e questa è la sostanza della vita stessa: qualcuno guarderà e dirà che è il prodotto della conoscenza, ma non ha niente a che vedere con la conoscenza: ha a che vedere con il dare. Il problema della conoscenza verrà naturalmente considerato errato. Una volta finito l’atto del dare, l’aspetto sorprende te quanto gli altri.
Naturalmente, deve trattarsi di un punto di vista americano. Se Delacroix discute dello spirito, questo deve essere francese, non può essere russo o giapponese. Scrivere i suoi testi non lo rende comunque più informato o pratico, gli aspetti interessanti di Delacroix vanno ben oltre questo. Non è questo il fine in rapporto alla sua pittura: se così fosse, sarebbe stato considerato interessante, alcuni almeno la pensano in questo modo.
Per alcuni pittori parlare di pittura equivale a sentirsi dei ragazzini al primo ballo scolastico, troppo timidi per salire sulla pedana.
Accidenti, mezzo mondo vorrebbe essere come Thoreau a Walden, preoccupato per il rumore del traffico durante il viaggio verso Boston; l’altra metà del mondo passa la vita immerso in quel rumore. A me piace questa seconda metà. Giusto?
Essere nel giusto è una delle condizioni personali più straordinarie, tra quelle di cui non importa niente a nessuno.
("Evergreen Review", vol. 2, n. 6, New York, 1958, pp. 58-68)
"La luna appartiene a tutti" dice Franz Kline "e le cose migliori, le più belle della vita, sono gratuite". Franz Kline ha dipinto, nel passato, nature morte, paesaggi e ritratti di stile impressionista e cubista. I suoi disegni, che erano di piccolo formato, in bianco e nero, rappresentavano treni, cavalli, edifici, personaggi, sinché, alla fine, l’immagine obbiettiva veniva sopraffatta dai suoi stessi contorni e la linea, che ora è una pesante pennellata, non più descriveva delle forme solide e obbiettive ma è diventata essa stessa l’unica forma solida carica di brutalità e di violenza. Dopo Pollock e de Kooning, Franz Kline è divenuto in questo ultimo decennio, assieme a Mark Rothko, uno degli esponenti più autorevoli del primo movimento pittorico che può dirsi veramente nato e cresciuto in America e che, nello stesso tempo, sia assurto al livello di una tendenza pittorica mondiale ampiamente riconosciuta nei principali centri artistici mondiali: da Roma a Tokio, Berlino, Parigi, New York. […] E’ importante sottolineare che le varie personalità artistiche che fanno capo o parte dell’Espressionismo astratto hanno una ben chiara distinzione delle visioni e delle forme che sono il mezzo e la possibilità di comunicare aspetti e problemi di una stessa realtà. Alcuni di loro, infatti, concepiscono la loro visione come un automatismo (Pollock), oppure la tramutano da un espressionismo naturalistico (de Kooning), o da un astrattismo cromatico (Rothko). Le astrazioni di Kline, oggi, sono di dimensioni immense e qualche volta egli trova delle difficoltà nel concepire le sue "comunicazioni" entro spazi limitati dalle carte, che abitualmente usa, o dai telai. Il suo occhio esercitato scopre sempre come popolare uno spazio vuoto e in esso fonde sempre un dramma (espressione) accennandolo violentemente con le elaborate strutture dei neri (positivo) in opposizione alle masse solide e massicce del bianco (negativo). […]
Katharine Kuh: Pensa che i grandi artisti siano sempre stati innovatori?
Franz Kline: Tutta la storia della pittura è attraversata da grandi figure, di solito innovatrici, e credo che, in effetti, tutti i più grandi artisti siano stati innovatori. Non ho mai consapevolmente pensato a me stesso in questi termini e, per quanto riguarda gli artisti contemporanei, alcuni mi hanno influenzato e a mia volta ho influito su alcuni di loro. So che alcuni artisti affermano che essere influenzati sminuisce la loro reputazione, ma non è necessario che un dipinto assomigli al lavoro di un altro artista per dichiarare un’influenza. L’artista medio, che matura intorno ai quarant’anni, come è successo a me per esempio (a quell’età ho tenuto la mia prima personale alla Egan Gallery), ha subito l’influenza sia degli antichi maestri sia dei suoi contemporanei. Per quanto mi riguarda mi sono sempre piaciuti Tintoretto, Goya, Velázquez e Rembrandt. E basterebbero da soli i disegni di Rembrandt! Poi hanno influito su di me anche artisti come Earl Kerkam: ho parlato moltissimo di disegno con lui. Credo che il motivo per cui il suo lavoro non si è affermato maggiormente risieda proprio nella sua totale sincerità circa gli artisti da cui è stato influenzato. Non lo ha mai nascosto: se gli piaceva Cézanne, usava Cézanne. Crede fermamente in questo tipo di influenza, ma naturalmente non è un imitatore.
K.K: Preferisce Velázquez a El Greco?
F.K.: Sì, lo preferisco di gran lunga, eccome! In Velázquez trovo una solidità – c’è molto più di questo, ma su di lui è già stato detto talmente tanto che non ha certo bisogno dei miei commenti.
K.K.: I critici affermano che lei ha subito l’influsso dell’arte calligrafica orientale. Ritiene che ci sia del vero in questa affermazione?
F.K.: No. Non ho mai considerato il mio lavoro in rapporto alla calligrafia. Secondo i critici, anche Pollock e de Kooning sono artisti calligrafici, ma non abbiamo niente a che vedere con la calligrafia. È interessante come questo tipo di osservazioni non provenga mai da critici orientali: il concetto orientale di spazio è infinito, non è uno spazio dipinto, mentre il nostro sì. Innanzitutto la calligrafia è una forma di scrittura e io non scrivo. Alcuni, talvolta, pensano che io prenda una tela bianca e ci dipinga sopra un segno nero, ma non è così. Oltre al nero dipingo anche il bianco, che è altrettanto importante. Per esempio, in questa tela che stiamo guardano in questo momento, si vede che ho dipinto aree di nero con i miei bianchi. […]
K.K.: Nei suoi dipinti sono presenti simbolismi?
F.K.: Ci sono delle immagini: il simbolismo è un concetto difficile, non sono un simbolista. In altre parole, le mie sono esperienze di pittura; questo non vuol dire che io decida in anticipo che dipingerò un’esperienza definita ma, mentre dipingo, questa diventa un’esperienza vera, autentica per me. Non è simbolismo, come non è calligrafia. Non dipingo ponti, grattacieli o scontrini della lavanderia. Come lei saprà, si dipinge in bianco e nero da secoli, e l’unica differenza reale tra il mio lavoro e quello di chi mi ha preceduto è che loro usavano una specie di metafora sviluppata dal contenuto, dall’argomento. Io non dipingo in modo oggettivo, come in quel periodo, non dipingo un oggetto dato – una figura o un tavolo: dipingo un’organizzazione che diventa un quadro. Se osservi un quadro astratto puoi immaginare che si tratti di una testa, di un ponte, quasi qualsiasi cosa – ma non sono queste le cose che mi hanno indotto a dipingere quel quadro. […]
K.K.: Prepara in anticipo le sue composizioni o lavora direttamente?
F.K.: Entrambe le cose. A volte faccio dei disegni preliminari, altre dipingo direttamente, in altri casi ancora inizio un quadro e poi copro tutto finché non diventa un altro quadro o niente del tutto. Se un dipinto non funziona, lo butto. Quando lavoro in base a schizzi preliminari, non li ingrandisco, preferisco programmare le sezioni di un dipinto di grandi dimensioni usando piccoli disegni per ogni area distinta. Poi le combino in un quadro finale, spesso aggiungendo o togliendo elementi degli schizzi originali. Quando lavoro direttamente, è tutto molto rapido: in realtà lavoro rapidamente nella maggior parte dei casi, tuttavia non tutto quello che c’è in un dipinto si realizza mentre dipingi. Ci sono delle tele qui nel mio studio – per esempio quella piccola laggiù – sulle quali ho lavorato per sei mesi buoni, coprendo quasi tutto e poi ridipingendo sopra e ancora sopra. Penso che adesso ci siamo.
K.K.: Che rapporto hanno le dimensioni con ciò che vuole trasmettere?
F.K.: Credo che la realizzazione di un grande dipinto comporti una differenza notevole, rispetto a uno di piccole dimensioni. Un’opera piccola può avere altrettanta presenza, vigore, spazio, ma a me piace dipingere grandi quadri. Trovo stimolanti le grandi dimensioni e penso che ci si confronti meglio con una grande tela, ma non so esattamente il perché.
K.K.: Pensa che l’aggiunta del colore negli ultimi anni abbia cambiato il suo lavoro?
F.K.: Non la considero un’aggiunta, e non penso in termini di aggiunta di colore. Voglio solo sentirmi libero di dipingere a colori o in bianco e nero. Inizialmente dipingevo a colori e, infine, sono arrivato al bianco e nero a forza di coprire il colore. Poi ho iniziato con il solo colore, il bianco e niente nero – poi colore e bianco e nero. Non perseguo necessariamente lo stesso obiettivo con queste diverse combinazioni, perché anche se alcuni affermano che il bianco e nero è colore, per me il colore è un’altra cosa. In altre parole un’area colorata di azzurro intenso, o il rapporto tra due diversi colori, non equivale al bianco e nero. Nell’usare il colore non penso mai in termini di aggiungere o di decorare un dipinto in bianco e nero: voglio solo essere libero di lavorare in entrambi i modi. E, comunque, un pittore che usa il rosa, il giallo e il rosso non necessariamente diventa un colorista. [...]
(Il metodo di lavoro
Con essi cioè (come con Van Gogh per altro), in modo sia pure opposto, si raggiunge il massimo contenuto della pittura, poiché tutto il quadro parla, e non per un distaccato senso di bellezza.
È del 1958 la frase di Kline "Ma il metodo di lavoro, prima di Cézanne, è un segreto. Cézanne invece è come un analista, pare che sia proprio lì e pare di vederlo mentre dipinge il lato di un naso in rosso. Anche se lui avrebbe voluto dipingere come Velázquez". Ed ecco una cosa che rimane scoperta in Kline: lo straordinario amore per la pittura che evoca Rembrandt appunto, Manet, Velázquez, Goya. Un quadro come Astrazione, 1950-51 mi è sembrata la testimonianza più leggibile di tale amore; ma in tutti i suoi quadri vive questo senso acuto della fragranza pittorica (si pensi a Shenandoah, 1956, a Il Ponte, 1955, a Antracite, nero e bruno, 1958). La sua citazione di Bonnard nell’intervista del 1958, il riferimento a Newmann e a Malevitch ("l’incessante meraviglia di quella che potrebbe essere la pittura, senza descrivere un occhio o un seno"), confermano una attitudine ben diversa da quella di de Kooning, cui pure somiglia il fare grande e melodrammatico, l’uso di una tecnica a braccia che stende il colore sulle tele bianche, come uno che urli in un ambiente vuoto.
de Kooning è decisamente espressionista, egli forza il segno, lo spezza e gli impone perfino un’immagine, Kline, viceversa, scandisce lo spazio servendosi di una calligrafia gigantesca che gli permette di sintetizzare la sua volontà espressiva al momento, di dipingere di getto, senza deformazioni. Il contrasto di bianco e nero gli serve a questo: il bianco è come il cielo sul quale Kline traccia giunture, potenti delineazioni, masse che si scardinano o che procedono velocemente, strutture romanticamente pittoriche, crolli, tensioni, sbarramenti. "Egli non desiderava essere dentro la sua pittura, come Pollock, ma creare un segno del suo passaggio... attraverso il mondo", scrive O’Hara.
Semplicità di forme
Ed è lui il vero erede del romanticismo di Ryder, il pittore paesaggista americano dell’ottocento sul quale convogliarono, ad un certo momento, gli interessi di Pollock e di Kline. Nella semplicità delle forme adottate da Kline non ci riesce di vedere alcun riflesso della Bauhaus (O’Hara parla a proposito della sua "sgraziata geometria" di un "combattimento tra Guernica e la Bauhaus"). La rinuncia di Kline al suo pittoricismo non è di tipo ascetico-sociale ma coincide con l’adozione dell’atteggiamento dell’Action painting, l’adozione cioè di un estremo soggettivismo di nuovo genere, in cui la fragranza del rapporto dell’artista con il quadro doveva assumere una totalità senza precedenti per affermarsi come l’unica oggettività possibile. Dipingere insomma voleva dire non solo tradurre momento per momento particolari emozioni nel segno, ma seguire il segno addirittura, mosso dall’abilità e da un’energia espressiva non più applicata all’oggetto naturale. Non è un caso che quasi tutti i pittori dell’Action painting abbiano avuto un più o meno lungo tirocinio figurativo con grande libertà di riferimenti al di fuori delle avanguardie europee e Kline tra tutti fu uno dei più restii ad abbandonare la figurazione (dipingeva paesaggi post-impressionisti, campi di ferro degli incroci ferroviari, strutture d’acciaio, e continuò ad intitolare i quadri astratti con nomi di luoghi della Pennsylvania, Lehig (cat. n. 34); Shenandoah (cat. n. 33), Harelton (cat. n. 39), o delle locomotive dei treni che trasportavano carbone nelle miniere in Chief, Cardinal ecc.). La rinuncia alla figurazione avviene dunque al di là delle giustificazioni culturali offerte dalla pittura europea; Picasso è un grande stimolo ma enigmatico, così come Miró e Klee. Il passo compiuto dagli americani, apre una voragine, con sullo sfondo quei riferimenti, quasi una propedeutica verso l’ignoto, ma affrettatamente seguita e giudicata sommariamente. (Il più europeo tra tutti rimane Gorky).
Kline, rinunciando alla figurazione, rinuncia alla grande pittura che amava, rinuncia alla natura della luce per ottenere degli spazi puri su cui concentrare la forza del gesto. Il bianco e nero sono tra il ’45 e il ’52 un’esperienza importante anche per de Kooning e Pollock, ma per Kline essi costituiscono un modo essenziale di esprimersi. I bianchi non sono spazi negativi o positivi ma hanno lo stesso valore dei neri, come il pittore ha ripetutamente affermato. Egli brucia il colore in questo dinamismo essenziale, sebbene non programmatico, il colore riappare, ogni tanto anche negli ultimi anni, ma non è il fatto essenziale della sua pittura, determinata soprattutto dalla generosità del gesto, dalla gigantesca sintesi di energia che si comunica allo spettatore come particolare amore per la vita.
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