martedì 4 settembre 2007

DONNA FATALE...

A CURA DI DNILO PICCHIOTTI
Chi si avvicina per la prima volta alla pittura di Klimt non può che essere colpito dalla quasi esclusività dei soggetti femminili nella sua produzione, salvo rare eccezioni. Sono tempi in cui la scoperta del Femminile è al centro del vortice di passioni che sconvolge il "vecchio continente". L'arte scopre la donna, una donna che fiorisce. Klimt è in piena sintonia con l'indirizzo artistico del suo tempo. La donna è al centro del suo impegno creativo, del suo pensiero, e non si limita ad eleggere le donne a protagoniste della sua opera, ma nei suoi ritratti ce le mostra più squisite di quello che sono, le abbellisce aldilà di qualsiasi pretesa realistica. Non segue la tendenza: la inventa, la anticipa. Certamente è in qualche modo in debito con i Preraffaelliti, almeno agli inizi. Dall'influenza preraffaellita Klimt si riscatta tuttavia molto presto, anzi la rielabora in una cifra stilistica personalissima. Così le donne klimtiane sono presto uniche, ognuna irripetibile nel suo fascino: le dame dell'aristocrazia viennese dei suoi ritratti, le figure femminili dei suoi dipinti simbolisti, quasi sempre bellissime, talora orrende (come alcune delle "forze ostili" nel “Fregio di Beethoven”, come l'immagine della vecchiaia nelle “Tre età della donna” ) ma sempre dotate d'una forza, di un carattere che le eleva ad assolute protagoniste. Klimt rivela una dimensione della femminilità ben più tremenda nella sua interpretazione del mito biblico in “Giuditta I e II, ove egli celebra la terribile donna tagliatrice di teste, ma saprà raccontare anche l'incontro tra Maschile e Femminile. Questa ambizione suprema è celebrata nel Fregio di Beethoven e nel “Fregio Stoclet”, in cui la donna è colei che attende l'uomo, lo accoglie e le redime (la Poesia che attende il Cavaliere nel Fregio di Beethoven, la figura femminile protagonista dei pannelli L'attesa e L'abbraccio nel Fregio Stoclet). Nel quadro “Il bacio”, forse l'opera più nota di Klimt, è finalmente la donna ad arrendersi alla passione dell'uomo, in una sorta di "riconciliazione amorosa" tra i sessi, un momento di abbandono a lungo atteso e posticipato. Qui la donna non è più Nemica o Assassina, ma è finalmente l'Amante desiderata e conquistata.è la biblica eroina che sedusse e decapitò Oloferne per salvare Betulia, la sua città e per questo assunse il simbolo della virtù femminile. Il dipinto Giuditta I, che inaugura il "Periodo Aureo" in cui l'oro diventa elemento dominante dei quadri dell'artista viennese, è chiaramente una rappresentazione dell'archetipo femminile klimtiano. Qui Giuditta è rappresentata come un genere di donna contemporanea, una dama della decadente società viennese, come testimonia anche il prezioso collare allora di moda. Con questo dipinto l'artista ha ideato il genere della femme fatale molto prima che Greta Garbo o Marlene Dietrich lo incarnassero e venisse coniato il termine "vamp". Altera e sprezzante ma allo stesso tempo enigmatica, essa ammalia lo spettatore, l'uomo, con il proprio fascino.Non vi è dubbio che la scelta di un soggetto come Giuditta è per Klimt simbolo della punizione inflitta dalla donna all'uomo che egli deve espiare con la morte: è la donna tagliatrice di reste in cui si congiungono Eros e Morte in sintonia con il clima dell'epoca. Il tema della "grande seduttrice crudele" è un luogo comune della letteratura e delle arti visive tra il 1890 e il 1904, una vera e propria ossessione su cui indugia l'intelligenza europea.Il suo corpo rosato appare come un gioiello incastonato tra altri gioielli in un'icona bizantina. Tutta una tradizione remota assimila il gioiello al segno della regolarità, ma anche al simbolismo elementare del femminile: le pietre come acqua solidificata di cui conservano la trasparenza e il riflesso luminoso, i metalli come energia cosmica condensata nel grembo della terra-madre alla quale appartengono. In tutta la letteratura della seconda metà dell'Ottocento, l'associazione tra gemme, metalli preziosi e femminilità demoniaca appare inevitabile. Klimt estenderà la metallizzazione dello scenario anche ai ritratti che oramai saranno solo di donne: è una celebrazione ambivalente della bellezza femminile, dove i paramenti preziosi del suo trionfo sono anche la sua prigione, e dove, murati nella sua piatta parete di gemme, volto e mani acquistano una qualità iperreale e una tensione che la fissità bidimensionale della superficie ornata esalta a dismisura.La Giuditta di Klimt rappresentò una vera provocazione per quella classe sociale che in altri casi aveva accettato le trasgressioni dell'artista, cioè la ricca borghesia ebraica. Questa volta Klimt aveva infranto un tabù religioso. Pareva impossibile che il pittore, con quella donna dalle palpebre abbassate e dalle labbra socchiuse quasi fosse immersa in un'estasi erotica, avesse inteso rappresentare la pia vedova ebrea che, senza provare alcun piacere, aveva portato a termine il tremendo compito affidatole dal Cielo: la decapitazione del malvagio Oloferne. Era certamente Salomè la "tagliatrice di teste" a cui Klimt si riferiva, la tipica "bella assassina" che già aveva affascinato così tanti artisti e intellettuali del tempo. E infatti nei cataloghi e negli articoli delle riviste sempre più spesso i dipinti di "Giuditta" apparivano con il titolo modificato di "Salomè". Che Klimt avesse deliberatamente voluto rendere Giuditta con le fattezze di Salomè, non possiamo saperlo, in ogni caso egli ha ritratto una fiera e bruciante rappresentazione dell'Eros e dato vita all'immaginario moderno della "donna fatale": una visione che esprimerà ancora, con rinnovata potenza, in “Giuditta II”.Questa volta Klimt dipinge Giuditta II mantenendole distanze dalla leggenda che per la prima versione gli aveva procurato tanta ostilità. Ma, come nel caso del primo dipinto risalente al 1901, sorge la questione se si tratti di una Giuditta che ha impiegato le proprie arti seduttive per far cadere Oloferne in un tranello mortale oppure di una Salomè che chiede la testa del Battista perché egli non ha ceduto al suo fascino (anche perché questo dipinto è spesso apparso nei cataloghi col titolo Salomè). Insomma, ancora una donna fatale? L'ondeggiare del corpo e dell'abito trasmette l'idea della danza, allo stesso tempo qui appare soprattutto rappresentata una donna della decadente società viennese che si è abbandonata alla propria passione. Ella pare un uccello multicolore che sminuzza e divora la preda preferita (l'uomo), prigioniera in una gabbia dalla quale non può fuggire. Il formato del dipinto è allungatissimo, il decorativismo è esasperato: l'opera è una sorta di arazzo variopinto in cui risalta l'isterismo delle mani bellissime e febbrili che si aggrappano alla gonna, il movimento nervoso delle braccia sottili coperte di gioielli. Di fronte a un dipinto come questo, è inevitabile interrogarsi non tanto sulla qualità dell'esecuzione tecnica - che in Klimt è indiscutibile - ma sull'interpretazione del messaggio che l'artista affida alla tela. Un messaggio che si esprime non tanto nella sfida al tempo che caratterizza la stragrande maggioranza delle opere d'arte, bensì in un viaggio fuori dal tempo, alla scoperta di un'icona, di un mito, quello della donna tagliatrice di teste.In Giuditta II, Klimt riesuma l'icona della tagliatrice di teste, ma senza evocare l'atto della decapitazione di Oloferne: la testa del conquistatore assiro è questa volta in disparte, pare sprofondare tra i tessuti lussureggianti dello sfondo come in un pozzo. La decapitazione, il sangue, la morte violenta, noi non li vediamo: sono cose già avvenute, ovvie, e Klimt sapientemente non ci mostra ciò che già sappiamo e abbiamo visto in altre opere.Dunque Klimt costruisce un dipinto il cui unico obiettivo è l'evocazione del mito di Giuditta, o di Salomè, un'opera che non racconta una storia, non coglie l'attimo, ma esprime un'angoscia che fa parte del nostro subconscio. La morte di Oloferne qui è un assunto, è già diventata un'icona dell'immaginazione collettiva che Klimt impreziosisce, perfeziona. E infatti questo dipinto racchiude, sintetizza le visioni di tutti gli artisti che lo hanno preceduto e ci mostra la decapitatrice in preda alla nevrosi, con le mani stravolte dall'isteria, forse alle prese con i turbamenti e le angosce del delitto, forse insoddisfatta: l'agonia del morto non è bastata a placarne la furia di femme fatale spietata, incattivita. Senza l'inquietante dolcezza della voluttà appagata che soffondeva l'opera precedente, questa nuova Giuditta rivela l'isteria che la consuma, e incede sottraendosi a ogni rapporto diretto con l'osservatore, catturata nelle trame del proprio arazzo come un animale selvatico prigioniero, crudele e ribelle. Questa Giuditta non è semplicemente la trionfatrice che conquista un trofeo, ma una creatura angosciata, contorta e spezzata.

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