Rifiuto di qualsias formai"L'Informale"
RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
Tendenza artistica diffusasi in Europa, America e Giappone negli anni Cinquanta caratterizzata dal" forma, figurativa o astratta, costruita secondo canoni razionali rapportabili alla tradizione culturale precedente.
Le ragioni profonde di tale rifiuto sono da ritrovare nello stato di disagio succeduto all'immane tragedia della seconda guerra mondiale e al disinteresse per una realtà naturale e umana che ha potuto comprendere tale orrore.
La poetica informale risente del portato culturale delle esperienze Dada, surrealiste ed espressioniste, esprimendosi come rifiuto della cultura, ascolto dell'inconscio ed esplosione dell'immagine dal profondo dell'io.
Con il rifiuto di un atteggiamento costruttivo della forma rappresentativa l'essere e il fare dell'artista prendono il sopravvento sugli esiti materiali del suo lavoro e il prodotto artistico è sempre più una risultante più che una meta del fare dell'artista, in linea con la nuova filosofia dell'esistenzialismo francese e del pragmatismo americano.
La perdita di importanza della forma ne fa acquistare alla materia, con la quale l'opera finisce per identificarsi.
La linea, il colore, la figura perdono anch'essi significato e vengono sostituiti dal segno e dalla materia, che può essere di qualsiasi genere: legno, stoffa, vetro, muro, saracinesche, colore stesso ridotto anch'esso a semplice sostanza materica. E' dunque alla materia informe che l'artista si rivolge a causa di una condizione di disarmonia esistenziale, politica e sociale e della materia esplora tutte le possibilità espressive e le possibilità di divenire oggetto d'arte.
Alberto Burri
Rappresentanti significativi dell'Informale per il versante più "materico" sono Fautrier, Dubuffet, Tapies, Burri; per il versante rivolto al gesto e al segno sono Wols, Hartung, Mathieu, Vedova.
Rientrano nella poetica informale anche i fenomeni americani, all'origine dei quali vi è l'opera di derivazione surrealista di Mark Tobey e Arshile Gorky, dell'espressionismo astratto con Bruce Newmann, Rothko, Still, Reinhardt e dell'action painting, con Pollock, de Kooning, Kline, Francis, Gottlieb, Motherwell.
La seconda guerra mondiale segna uno spartiacque netto nel percorso della storia dell'arte del secolo XX. La situazione culturale del momento vede la migrazione di numerosi artisti e intellettuali europei verso gli Stati Uniti, già a partire dagli anni Trenta, con il conseguente sviluppo di nuovi stimoli e conoscenze nella cultura americana che, finita la guerra, diviene il nuovo centro propulsore dell'arte contemporanea, sottraendone il ruolo alla vecchia Europa.
Specialmente a New York precedenti di rilievo si hanno già tra il 1910 e il 1945 quando vi giungono artisti come Duchamp, Masson, Kandinskij, Mondrian, Albers, a fertilizzare un terreno particolarmente ricettivo nei riguardi della ricerca artistica, dato il contemporaneo sviluppo economico e sociale.
Con la dizione "secondo dopoguerra" nella storia dell'arte si intende un'estensione temporale che, sia per la durata ed estensione geografica del conflitto che per le notevoli conseguenze sociali ed economiche va dai primissimi anni Quaranta sino alla fine del decennio e racchiude sia le situazioni europee che quelle dei più avanzati paesi extraeuropei.
Da un lato la consapevolezza che si diffonde della possibilità concreta di un'imminente distruzione dell'intero pianeta, a seguito del lancio della bomba atomica, influisce sulle coscienze più sensibili come segnale della conclusione di un ciclo dell'umanità, ulteriormente appesantita dalle difficoltà materiali del momento, dall'altro gli entusiasmi post-bellici per la circolazione di nuove idee e conoscenze a seguito del riaprirsi delle frontiere, concorrono alla creazione di un panorama culturale variamente sfaccettato, in cui ai drammi del presente si affianca il desiderio di proiezione e aspettativa in un futuro ancora tutto da costruire.
Mentre alcuni maestri dell'avanguardia sono ancora attivi e pronti al rinnovamento, come Picasso, Matisse, Mirò, Ernst e in Italia Morandi, Sironi e de Chirico, fervono novità nella scena artistica: tra un tipo di astrazione che ha la sua matrice nella tradizione prebellica e un realismo talvolta affiancato all'impegno politico, si affaccia quasi contemporaneamente negli Stati Uniti e in Europa una coscienza libera finalmente dalle illusioni di una cultura figurativa secolare che ha sempre tenuto stretti legami non solo con l'apparenza del reale, ma anche con le categorie spirituali e razionali che hanno portato il mondo ad uno stato di crisi totale, tenuto in piedi dai meccanismi inarrestabili dell'economia e degli equilibri del terrore.
Questo modo di sentire sfocia in due esperienze principali: l'Action Painting americana e l'Informale europeo, che assieme ad altri contemporanei e successivi avvenimenti, si raccolgono sotto la generica denominazione di Arte Informale.
L'informale abbandona la necessità di rappresentare l'esistente e uno dei principali scopi dell'artista diviene quello di rendere oggettivamente presente nella realtà il suo rapporto con i mezzi e la pratica dell'arte e attraverso questa operazione testimoniare l'opinione disperata che anche l'uomo ha di sé, ormai privo di qualunque orgoglio umanistico e disilluso sulla possibilità di interrogare sia gli spazi della natura che la voce interna della psiche. Il segno tracciato su un qualsiasi materiale, la gestualità insita nel tracciare il segno o nel campire il colore o nell'incidere, graffiare, tagliare, ferire o bucare la materia, più di qualsiasi riporto di riferimenti rappresentativi alla realtà (che rimane sempre nelle pratiche figurative tradizionali un qualcosa d'altro rispetto all'opera) individuano il modo d'essere della nuova condizione di estraneità ed emarginazione dell'artista. E' l'opera che, ribaltando il vecchio rapporto, vuole essere "altro" dalla realtà che la circonda, vuole essere realtà indipendente essa stessa, testimone del fare e dell'essere dell'artista.
Dato il rifiuto di creare un prodotto rappresentazione del mondo, anziché l'immagine che aveva caratterizzato tutta l'arte del passato, fatta eccezione per il fenomeno Dada e alcuni aspetti delle serate futuriste, è privilegiata la materia, quale realtà completamente autonoma, oggetto-soggetto dell'arte autosufficiente in sé, che si presenta in primo piano eliminando qualsiasi rappresentazione che non sia quella di se stessa in tutte le sue caratteristiche di fisicità spazio-temporale che le fanno acquisire una nuova ed elevatissima valenza semiologica, un valore cioè che evidenzia senza allusioni o rimandi il significato della materia e della sua conformazione in rapporto all'uomo in seno alla realtà circostante.
E' evidente che in tal contesto la costruzione della forma, di una forma predeterminata dal pensiero dell'artista, diviene una contraddizione. Per essere se stessa e affinché l'artista abbia con essa un rapporto di assoluta autenticità e verità, la materia non può essere ristrutturata secondo schemi razionali che ne farebbero ancora una volta qualcosa d'altro, ma rimanere con la forma che le è propria in quanto materia, ovvero rimanere informe. Le due esistenze, dell'artista e della materia, tendono ad incontrarsi o a scontrarsi in un rapporto che mantiene intatte e sempre presenti le due identità, facendole confluire nell'opera con le loro originarie peculiarità. E' questo che dà alle opere informali, gestuali, segni che e materiche l'aspetto ibrido e conturbante di materia organica, di reale e umano nello stesso tempo, di materia viva e parlante.
Ad un esame delle opere di artisti che possono essere considerati nell'ambito o vicini alla poetica dell'informale, risulta evidente una notevole diversità di atteggiamenti che mettono in discussione, come del resto in tutta l'arte contemporanea, la validità di ogni definizione univoca e l'applicabilità del termine stesso informale, di per sé piuttosto riduttivo, come ogni etichetta, ad un fenomeno culturale dalle molte facce e dalle rilevanti conseguenze per i successivi sviluppi delle teorie e pratiche dell'arte.
E' il 1943 quando il pittore americano Jackson Pollock (1912-1956 / "Murale", 1943; "Lucifero", 1947; "Pali blu", 1952; "No. 12", 1952) dipinge il "Murale" nella casa della collezionista Peggy Guggenheim: su quei metri quadrati di superficie da dipingere "eccitanti come l'inferno", come dichiara in seguito Pollock, egli lavora in una sola seduta, ottenendo come risultato il dipinto che più di ogni altro segna il ribaltamento delle sorti dell'arte contemporanea. Qui si realizza pienamente il senso della scrittura automatica pensata dai surrealisti: scavalcata finalmente l'ancora perdurante distinzione tra astratto e figurativo, la volontà di esprimersi dell'artista si realizza in un'assurda e furiosa concatenazione di gesti, effettuati quasi in stato di trance, legittimati dall'idea che il pensiero (o la psiche) possa "dettare" la propria verità, qualora si eviti di sottoporsi ad ogni censura socio-culturale. E' il completo connubio tra la totalità dell'essere artista e l'opera che diviene trascrizione immediata di quello stesso essere.
Pollock e gli altri action painters come Kline, Motherwell, de Kooning, Francis, Gottlieb, ricorrono a tecniche che amplificano il più possibile il modo casuale di operare, proseguendo e portando a piena maturità la ricerca iniziata in America da artisti come Arshile Gorky, Hans Hofmann e Mark Tobey (1890-1976), nella pittura del quale le componenti automatico-gestuali derivano da approfonditi studi delle culture e religioni orientali e in particolare della meditazione zen, attraverso le quali conduce una ricerca incentrata sui valori autonomamente espressivi del segno.
Nell'Action Painting è il materiale pittorico in sé, assunto come materia non ancora trasformata in linguaggio a veicolare il contenuto interiore.
Le opere di Pollock, realizzate da una mano, un braccio, un corpo che, dimenticato di dipendere da una volontà, si liberano in slanci espressivi lontani da qualunque forma di decoro, norma compositiva o accorgimento estetico, travolgendo i sensi e la visione, negano ogni speranza e illusione di riscatto, ogni traccia di gioia di vivere e di tutto ciò che può dare un senso alla vita su questa terra. Dal '47 al '52 l'artista americano usa la tecnica del "dripping", (sgocciolamento), già provata da Max Ernst, attraverso la quale, nel suo corpo a corpo con la superficie da dipingere lascia che il colore cada sulla tela in modo libero e aleatorio, sfruttandone poi gli sgocciolamenti e le macchie così casualmente ottenuti.
"Sorpresa e ispirazione" è il titolo di un'opera del 1943 di un'altro action painter, Robert Motherwell (1915) a sottolineare una sorta di idea moderna di ispirazione necessaria alla creazione artistica, così come necessaria diviene la totale partecipazione dell'artista al gesto che compie attraverso il coinvolgimento totale di corpo e spirito. Un tipo di "espressionismo astratto" che accoglie l'eredità espressionista dei gruppi tedeschi "Die Brücke" e "Der Blaue Reiter", del Fauvismo e quella dada e surrealista, per proiettare sul quadro le lacerazioni dell'io contemporaneo.
Un accenno al reale, seppure deformato, permane tuttavia in alcuni lavori dell'artista di origine irlandese Willem de Kooning (1904-1991 / "Luce d'agosto", 1946; "Donna I", 1950-52; "Porta sul fiume", 1960), altro grande interprete della stagione dell'Action Painting americana, in cui il gesto della mano che dipinge, organizzando sulla tela le energie scaturite dall'interiorità, opera su tracce di un figurativo ambiguo, si accanisce su frammenti di un corpo umano in grado di evocare pulsioni incontrollabili che ne producono lo sfiguramento attraverso una tecnica aggressiva.
Altro esponente di rilievo della cerchia newyorchese è Franz Kline (1910-1962 / "Cifra Otto", 1952; "Iniziale", 1959) che a partire dagli anni Cinquanta definisce il suo lavoro attraverso grandi sigle grafiche, realizzate con gesto ampio, tracciato a pieno braccio col segno pesante di una pennellata nera su fondo bianco (il bianco e nero per Kline "contano come se fossero colori").
In tutte le poetiche del segno e del gesto scopertamente evidenti sono le caratteristiche di denuncia, di rifiuto e di protesta e decisa negazione della rappresentazione appare l'affermazione del gesto e del segno come unici significanti di un nuovo alfabeto, di una nuova scrittura, di una nuova arte, che implicitamente è però una negazione, una cancellazione del valore di ogni precedente conoscenza, rifiutata e abbandonata; una "negazione del mondo", una "iconografia del no" (Argan); una identificazione del segno con la propria sofferenza esistenziale di cui si fa diretta trascrizione.
Anche la gestualità è un atto per lo più negativo, tendente alla distruzione dell'esistente, ma liberatorio, vitalistico, e in questo senso progressivo, costruttivo. E'un segno gestuale quello che viene prodotto da questa volontà di lasciare una traccia vivente e immediata del proprio essere in una situazione, del proprio confrontarsi con la vita e la realtà contingente, politica e sociale, attraverso una azione decisa, inequivocabile, una netta presa di posizione. In questo l'arte gestuale e segnica è diversa da quella puramente informale dove la materia, mancando di struttura, è sempre ambigua, polisignificante.
In Europa è il critico francese Tapié a coniare il termine di "art informel" che sottolinea l'avvenuta abolizione della forma. Già dal 1930 l'artista parigino Jean Fautrier (1898-1964 / "Cinghiale squartato", 1927; "Teste di ostaggio", 1943-44; "Costruzioni", anni '40), si attesta su posizioni di ricerca in questo senso, che ne fanno uno dei maestri dell'informale europeo. Nel 1943 dall'abitazione in cui trova rifugio egli vede un campo di concentramento nazista e immaginando l'umanità sofferente e disperata rinchiusa dipinge la serie delle "Teste d'ostaggio", esposte la prima volta alla galleria René Drouin di Parigi nel 1945: sono numerose e piccole carte intelate in ognuna delle quali campeggia un unico grumo di materia a rappresentare un frammento di corpo umano dal profilo appena accennato e tremolante: la forma e la carne sono scomparse, al loro posto una materia rosata, qua e là più verdognola o arrossata, oppure violacea, livida dal freddo e dalla sofferenza. Il messaggio di Fautrier è antiretorico, egli non vuole narrare i drammi della storia, ma denunciare una condizione umana lacerata, in questo caso i prigionieri dei campi di sterminio, che eterna con i mezzi primari della pittura: materia e colore non più usati per rappresentare la realtà, ma per divenire essi stessi il "corpo della pittura", la cui poesia è l'unico riscatto possibile dell'agire umano.
E' questa coscienza che dà alla materia incisa, graffiata, disgregata, impoverita il senso della denuncia, di per sé il contrario per definizione della rassegnazione nichilista, della tragicità della condizione umana o della falsità e inesistenza di conclamati valori legati invece a pregiudizi e presunzioni.
Lo stesso anno, nella stessa galleria, espone anche Wols, pseudonimo di Otto Wolfgang Schulze (1913-1951 / "Gennaio", 1946; "Composizione V", 1946; "Fantasma azzurro", 1951), artista tedesco, figura tipica dell'intellettuale "maledetto", stabilitosi a Parigi nel 1932; le sue opere, costituite con una prevalenza di segno di origine inconscia, sono espressione estrema di una coscienza alienata e alla deriva che compie il tentativo, peraltro ampiamente riuscito, di comunicare una realtà interiore attraverso un estenuato lirismo di segno e colore. Wols giunge all'espressione informale dopo la traumatica esperienza in un campo di concentramento a seguito della quale il suo sottile segno si fa graffiante e rabbioso come in "Gennaio" in cui proprio questo apparentemente insensato groviglio di segni rimanda con estrema corrispondenza ad un momento pietrificato di un gelido inverno, quasi un'ultima propaggine del Romanticismo tedesco di Ölderlin e Friedrich: un'arte quella di Wols che si "lascia avvenire", come la definisce Jean Paul Sartre.
In quest'arte vi è senz'altro una valenza ricorrente di segno negativo: rifiutare la costruzione razionale della forma significa l'abdicazione di una delle linee storico-culturali della civiltà dell'occidente, e soprattutto della vecchia Europa. Il riferimento e l'attenzione alle culture zen ed alle strutture calligrafiche orientali, come avviene per Tobey e per Kline, ne sono testimoni. Si tratta però del rifiuto non della civiltà, ma di una civiltà, quella che ha fornito in maniera drammatica proprio tutte le ragioni di quel rifiuto.
Come abbiamo visto, l'avanguardia americana fiorisce soltanto dopo la fine della guerra, con l'Action Painting e dall'altro attraverso una corrente artistica vicina, almeno in parte, alle istanze dell'astrattismo storico. Unite sotto l'etichetta di "Espressionismo astratto" le due tendenze sono difficilmente distinguibili nell'idea che le anima. Rispetto al Suprematismo di Malevic o al lavoro di Mondrian la nuova tendenza che fa capo ad artisti come Barnett Newman, Mark Rothko, Clifford Still, elimina l'idea stessa di "forma", che sparisce o quanto meno si assottiglia sino a diventare, in alcuni casi, semplice accostamento di pochi colori stesi a grandi campiture.
Questi artisti cercano un assoluto pittorico, lontano dalla violenza dell'Action Painting, ma ugualmente basato sull'idea di una pittura in grado di dar voce alle realtà interiori, così come cercano di concretare sulla tela, in cui l'immagine diviene evento rituale, magico, sacrale.
Esponente di primo piano della "Color-Field-Abstraction", che appunto dopo il 1945 sarà l'altro polo della ricerca informale americana, è Mark Rothko (1903-1970 / "Composizione dorata", 1949; "Numero 10", 1950), trasferitosi dalla Lettonia nel 1913. Inizialmente affascinato dai surrealisti e dalla ricchezza cromatica di Matisse, dal dopoguerra, influenzato anche dalla filosofia Zen, sviluppa una particolare visione contemplativa, immobile, quasi misticheggiante che sfocerà nelle sue opere caratterizzate da grandi campi colorati: forme perlopiù rettangolari dai bordi sfrangiati e non ben definiti, quasi fluttuanti e concatenate l'una all'altra. Rothko è sicuramente lontano dalla pura astrazione geometrica del passato e rientra nella tradizione informale attraverso la vibrazione e il ritmo palpitante che le sue opere, prive di alcuna volontà costruttiva e intellettualistica, trasmettono.
In Francia è il "Tachisme" la principale interpretazione dell'arte informale: per gli esponenti della corrente francese, primo tra tutti l'oriundo tedesco orientale Hans Hartung (1904 / "Pittura", 1958) il cui lavoro è simile a quello di Kline, l'impulso creativo deve necessariamente rinunciare ad esprimersi attraverso una forma data l'impossibilità di effettuare un controllo razionale sulla psiche. Malgrado ciò i dipinti di Hartung, lontani dalla gestualità furiosa dell'Action Painting sono spesso misurati, con la presenza di una scrittura automatica improntata sulla tradizione orientale del calligrafismo, di cui si nota l'influenza in altri artisti dell'avanguardia europea come Pierre Soulages e Georges Mathieu.
Nella scultura informale il rifiuto della rappresentazione e l'attenzione massima al medium trova il terreno di azione più naturale. La scultura è per sua natura materia; la tridimensionalità è il suo stato di partenza e di arrivo. Per obbedire alle stesse esigenze di verità che hanno portato all'accumulo della materia nella pittura, la scultura segue un cammino inverso: distrugge la propria solidità in un processo di erosione e annientamento come in Alberto Giacometti o di sublimazione in un diverso stato fisico di immaterialità o di esplosione dinamica e centrifuga, come nell'opera degli italiani Alberto Viani e Umberto Mastroianni.
Se nella pittura, che è già difficile però chiamare con questo nome, la materia informe si aggruma in alti spessori, si costituisce in intonaco, corteccia, scheggia di legno o metallo, nella scultura trova ovvia identificazione con l'oggetto, la cosa senza alcun riferimento di appartenenza ad un universo naturale e neppure ad un universo funzional-tecnologico. Questa cosa che come la materia informe è solo se stessa è l'oggetto abbandonato che ha perduto il suo valore e significato d'uso o di relazione con il resto delle cose e con l'uomo. Il più comune tra gli oggetti abbandonati nella società produttivo-tecnologica è il rifiuto, lo scarto dell'industria; piccoli e grandi pezzi di macchine, incapaci ormai di servire alla produzione economica, vengono recuperati e assunti ad oggetti d'arte come in Ettore Colla e acquistano valore estetico nel loro essersi liberati dalla schiacciante schiavitù della funzionalità finalizzata alla produzione.
Esiste un evidente valore di contrapposizione positiva alla precedente condizione costrittiva in un oggetto che da semplice anello di una catena, comune ingranaggio anonimo e sostituibile, diviene oggetto unico, insostituibile nella sua qualità di significante estetico . L'opposizione dell'arte ad un sistema che tende a mettere fuori campo ogni valore di umanità è chiaro anche quando l'artista non solo recupera il relitto, l'oggetto in disuso, ma del sistema evidenzia la violenza distruttiva o la corsa affannosa in un ciclo ripetitivo ormai fine a se stesso.
In Italia gli artisti che più di altri aprono la strada alle successive sperimentazioni degli anni Sessanta sono Alberto Burri e Lucio Fontana.
Nell'opera di Alberto Burri (1915 / "Sacco", 1953; "Grande sacco", 1954; "Ferro grande", 1958; "Cretto G2", 1975), l'informale europeo raggiunge una delle vette più alte. Nelle sue opere la materia è costituita da sacchi lacerati o plastiche bruciate che divengono significanti del degradarsi e del decomporsi della realtà contemporanea (degrado non più però rappresentato, ma direttamente presentato dalla materia senza mediazioni metaforiche, simboliche, illusionistiche).
In Burri vi è la convinzione che l'autentica espressione della materia può avvenire attraverso la sperimentazione di nuovi materiali, estranei al tradizionale bagaglio tecnico dell'artista; questi sono già ricchi di per sé di un contenuto psicologico-culturale o comunque di un vissuto che riversano all'interno della spazio rappresentativo attraverso la sensibilità dell'artista. I rifiuti, dunque, i sacchi, i lenzuoli, sporchi, deteriorati, consumati, rattoppati, ricuciti, ma anche ferri, legni, plastiche disposti all'interno di una cornice. Con i suoi sacchi Burri manifesta la capacità di trasporre in pura espressione e poesia i più umili frammenti della realtà, anche attraverso l'organizzazione di uno spazio sulla tela che rimanda al neoplasticismo di Mondrian, talmente la composizione appare misurata e solenne: egli riesce, paradossalmente, a dare forma all'informe, ad ordinare in modo sublime una materia relitto di una contemporaneità consapevole, come lo stesso Burri, dell'impossibilità raggiunta di un qualsiasi percorso umanistico all'interno dell'opera.
Un discorso a parte all'interno della grande esperienza dell'arte informale, merita Lucio Fontana (1899-1968 / "Scultura" 1934; "Ambiente spaziale", 1948; "Ambiente spaziale con forme spaziali e luce nera", 1949; "Concetto spaziale: Attese", 1957; "Concetto spaziale: Venezia era tutta d'oro", 1961; "Concetto spaziale: fine di Dio, 1963) che identifica il suo lavoro attraverso il termine "Spazialismo".
In Fontana il segno-gesto, giunge persino a trapassare la superficie, tagliandola o bucandola con un atto di autoaggressione, aumentando la verità dell'atto creando una spazialità tridimensionale che annulla ancora una volta l'illusione della rappresentazione del gesto pittorico e lascia al suo posto la viva conseguenza dell'azione dell'artista. Attraverso un approfondimento delle tecniche di realizzazione dell'arte Fontana perviene i fatti ad una nuova concezione dello spazio che significa l'ambiente vitale dell'opera e quindi dell'artista e del fruitore e ad una necessità di far sconfinare l'opera nello spazio della realtà, rifiutando il concetto di quadro come luogo chiuso, universo a sé senza alcuna interazione con il vissuto sociale e individuale.
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