lunedì 10 dicembre 2007

"INCANTATE GEOMETRIE " L'attenzione di Balthus per l'arte italiana

DI FABIO Benzi

L'attenzione di Balthus per l'arte italiana - in particolare per Piero della Francesca - si sostanzia di elementi ben noti; meno indagati sono i suoi rapporti con le inquietudini e le allusioni misteriche della cosiddetta Scuola romana, dovuti a un incontro probabilmente avvenuto in occasione di una mostra parigina del 1933. 

Nel dicembre 1933 si inaugura alla galleria Jacques Bonjean di Parigi una mostra, nella cui presentazione il famoso critico d'arte francese Waldemar George conia per un gruppo di pittori italiani il termine, che diverrà in seguito famoso, di "Ecole de Rome": Scuola romana. Questi giovani artisti erano Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli e Corrado Cagli (un quarto pittore, Enzo Sclavi, fece da riempimento "minore" alla mostra). 
La storia comune di questi tre artisti era iniziata l'anno precedente, il 1932, quando insieme a Fausto Pirandello si presentarono in una mostra di gruppo alla Galleria di Roma, fondata e diretta da Pier Maria Bardi, uno dei maggiori intellettuali italiani degli anni tra le due guerre. Il sodalizio tra Capogrossi e Cavalli durava tuttavia già da un decennio, e nel 1927 essi avevano tenuto la loro prima mostra (assieme a Francesco Di Cocco) a Roma, nella quale emergeva un atteggiamento pittorico moderno e anticonformista, una visione della realtà inquieta e misteriosa. Soprattutto Cavalli, che rivestirà sempre il ruolo di ideologo del gruppo, orientava la ricerca pittorica verso un'interpretazione ambigua e febbrile della realtà, che partendo dalla visione classicista-surreale degli Italiens de Paris (soprattutto Campigli, Severini e de Chirico), la rendeva stranamente solenne, astrattiva ed ermetica. 
Caratteristica della loro visione era l'elaborazione di un tonalismo basato su teorie misteriosofiche (Cavalli era iniziato a una società esoterica di stampo teosofico) e sulla composizione astratta degli elementi del quadro. I soggetti avevano quasi sempre dei risvolti simbolici, con allusioni alchemiche mascherate sotto le spoglie di una realtà quotidiana; la gestualità dei personaggi evocava situazioni rituali, dalle lente movenze in cui vive la suggestione degli affreschi pompeiani della Casa dei misteri e di quelli pitagorici di Piero della Francesca; ancora, caratterizzano la loro pittura i nudi femminili e maschili semplificati e ambigui. 
Essi rappresentano una sorta di evoluzione stilistica ed estetica del gruppo degli Italiens de Paris, coi quali avevano anche tentato di esporre nel 1929 nella capitale francese, insieme a Pirandello (erano però stati rifiutati dal gruppo già famoso perché troppo giovani), ma in una chiave più inquieta, in cui prevale un'ambiguità di visione, uno straniamento letterario (bontempelliano e pirandelliano), la presenza di elementi esoterici e psicanalitici (Cavalli aveva sposato la nipote di Edoardo Weiss, allievo di Freud e fondatore della psicoanalisi italiana). La loro presenza a Parigi era comunque assidua, e già Cavalli, insieme agli amici Pirandello e Di Cocco, era riuscito a realizzare una mostra nella casa-galleria di Madame Castellazzi-Bovy nel dicembre 1928. Tra questo gruppo di pittori, Di Cocco è certo il meno conosciuto, ma non il meno originale e, come vedremo, i suoi quadri (che espose a Parigi anche alla mostra degli Italiens de Paris alla galleria Zak nel 1929 - sotto il falso nome di Francesco Pisano - e a quella del 1933 alla Charpentier) furono certamente notati da Balthus. 
Osservando i quadri che Cavalli e Capogrossi esposero in quella famosa mostra parigina del 1933, non può non balzare agli occhi una fortissima analogia linguistica e formale con la contemporanea pittura di Balthus, che a quell'epoca era all'esordio del suo stile maturo, e che sembra echeggiarne immediatamente lo spirito e lo stile. 

UN MODELLO ITALIANO 

Diversi elementi concreti suggeriscono che egli dovette vedere la mostra degli italiani, lui che già da un decennio si dedicava allo studio dell'arte italiana, di cui era appassionato: l'esposizione era stata organizzata - in una galleria tra le più in vista e frequentate della capitale - dal conte Sarmiento, un signore italiano che viveva a Parigi, amico dei principi Caetani (Balthus eseguì ben due ritratti di Lelia Caetani nel 1935), e fu inoltre presentata in catalogo da un critico allora molto alla moda e famoso per il suo gusto italianizzante. Gli elementi perché Balthus la visitasse ci sono evidentemente tutti. Certamente una sensibilità surrealista, "riformata" sotto spoglie di silenziosa e insistita semplicità, e un'ispirazione pierfrancescana manifesta furono gli elementi che Balthus riconobbe nel gruppo di giovani italiani come consonanti con le sue aspirazioni e con i suoi stessi interessi per le geometrie compositive classicheggianti (ricordiamo gli studi che eseguì sugli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo durante il suo viaggio in Italia nel 1926). In quello stesso periodo Balthus dipinse i suoi primi quadri maturi, in cui le movenze dei personaggi richiamano la rigida ritualità e ambiguità delle figure di Cavalli e Capogrossi. Persino la tecnica "ad affresco" e i colori spenti riconducono a una simile matrice poetica, in cui il mistero insito nei soggetti quotidiani e tuttavia inquietanti delle sue tele, esposte per la prima volta nell'aprile 1934 nella galleria di Pierre Loeb, sembra riverberato dai quadri dei giovani artisti italiani. 

LA SVOLTA 

La critica si è sempre interrogata sul repentino cambiamento che si registra nella pittura di Balthus nel 1933, e che costituisce il discrimine tra le prove giovanili, caratterizzate da una "sciolta maniera impressionista" e la sua fase matura, "di forme nitidamente definite", secondo le definizioni di Sabine Rewald. John Russel e Jean Leymarie pensavano di attribuire questo mutamento stilistico all'impressione ricevuta dalla limpida luce del Marocco durante un viaggio nel 1932, mentre Sabine Rewald propende per legare questa evoluzione agli studi eseguiti da Balthus nel museo di Berna su dei quadri settecenteschi (dello svizzero Joseph Reinhardt) raffiguranti dei personaggi in costume regionale. Ma in effetti nessuna di queste due interpretazioni riesce a dare in termini di evoluzione artistica una spiegazione plausibile: la luce dei quadri di Balthus è molto più italiana che marocchina, e il problema del rinnovamento della sua pittura non è certo solo legato alla luce ma soprattutto alla forma e all'ambiguo e polivalente significato delle sue figure immobilizzate; inoltre è decisamente riduttivo collegare così strettamente alle mediocri e naturalistiche tele di Reinhardt un passaggio stilistico così radicale, che peraltro non è nemmeno suggerito dalle iconografie curiose ma non certo originali dei quadri, né dalla tecnica pedissequa e oleografica con cui sono dipinti. Balthus li copiò probabilmente perché attratto dall'aria naïve dei soggetti, di un gusto ovviamente congeniale soprattutto per l'aria attonita dei personaggi. 
D'altra parte va considerato attentamente un dato significativo: se infatti il quadro La strada (il primo eseguito compiutamente nel nuovo stile "maturo") fosse stato dipinto nella primavera del 1933, dunque qualche mese prima della mostra dell'"Ecole de Rome" a Parigi, verrebbe apparentemente indebolita questa invece evidente connessione con Cavalli e Capogrossi; tuttavia è ben vero (e ampiamente noto) che Balthus non terminava mai un quadro alla prima stesura, ma vi rilavorava sopra incessantemente: cosa che senza dubbio ha continuato a fare nei mesi successivi alla mostra alla galleria Bonjean (dicembre 1933) e fino alla sua personale da Loeb (13 aprile 1934); e che continuò peraltro a fare anche in seguito, quando ancora nel 1954 cambiò varie figure e ritoccò il dipinto. Così le immagini sospese e apparentemente autonome (ma in arte vi è sempre un punto di partenza: e molti di quelli legati alla pittura francese o italiana antica sono stati accuratamente indagati nei più recenti contributi monografici) che Balthus presentò nei suoi primi capolavori alla mostra del 1934 alla galleria Pierre, erano filtrate attraverso lo spirito italianeggiante della Scuola romana, anche se singolarmente introiettato e accuratamente celato dallo stesso Balthus, il quale come è noto si ostinava caparbiamente a non rivelare l'origine della sua arte, né le suggestioni che gli avevano suggerito i quadri. 

LA VIA MISTERIOSOFICA 

Balthus meditò a fondo, in un momento cruciale per la sua evoluzione pittorica, sulle figure solenni e ambigue, sulle situazioni morbosamente tratteggiate da Cavalli e Capogrossi: osservando Lo spogliatoio degli uomini di Capogrossi, che allude all'iniziazione esoterica dell'anima, o Amicizia di Cavalli, non può sfuggire la stretta relazione, anche tecnica ed esecutiva, con le altrettanto ambigue e morbose situazioni predilette da Balthus. 
Quanto influì, anche concettualmente, la concezione misterica, ieratica ed esoterica del gruppo della Scuola romana sull'animo del giovane Balthus, lo indica a distanza ancora di molti anni un confronto tra alcune considerazioni sulla pittura scritte da Cavalli negli anni Trenta e il pensiero dello stesso Balthus: nel Manifesto del primordialismo plastico, stilato nell'ottobre 1933 in previsione della mostra del dicembre a Parigi, Cavalli (assieme a Capogrossi e Melli) scrive: "Come l'universo è determinato dallo spazio e dalla luce: dal volume come accidente dello spazio, e dal colore come accidente della luce, così l'arte della pittura deve essere spazio, luce, volume, colore ai fini della creazione"; e ancora: "Un oggetto [...] senza le condizioni accidentali di luce, senza che lo percepiamo per colore o per chiaroscuro, ha pure la sua forma. Forma precisa e assoluta. Quella io perseguo. Generata da luoghi geometrici interni"(1). È impressionante constatare quanta aderenza a questi principi vi sia ancora in alcune frasi espresse nell'ultima intervista rilasciata da Balthus: "Dietro le apparenze, esiste una geometria che regge tutte le cose e struttura l'universo. Questa sola consente di leggere il profondo ordine del mondo. Questa sola mi interessa, e non i turbinii che agitano la superficie delle cose"(2). 
Altro elemento di stupefacente contatto con la Scuola romana è in un dipinto di Francesco Di Cocco, Lavandaie, dipinto a Parigi intorno al 1928 ed esposto a Roma nel 1929 (e forse anche alla galleria Zak di Parigi nello stesso anno). Confrontando questo curioso dipinto con la scenografia realizzata nel 1934 da Balthus per As you like it di Shakespeare, appare evidente l'ispirazione a questo, o più probabilmente a un analogo dipinto del pittore italiano che Balthus dovette vedere a Parigi. Ispirazione non isolata, peraltro, che compare anche in diversi dipinti di data anteriore, come Le quai, del 1928-1929. L'aria sognante, la fisionomia tipica e singolare degli alberi, le figurine incantate sono indiscutibilmente le stesse, e rientrano bene in quel quadro di simpatia e di emulazione di Balthus per la giovane arte italiana che abbiamo appena descritto. 
E forse può costituire un ulteriore dato culturale, che illustra l'impressione che il gruppo romano dovette suscitare con la sua apparizione parigina nel 1933, una precisa citazione del grande storico d'arte André Chastel contenuta nella succinta Storia dell'arte italiana pubblicata nel 1957, nella quale egli trova però lo spazio per menzionare il gruppo della Scuola romana e riproduce anche un quadro di Cavalli. Eppure allora le vicende dell'"Ecole de Rome" erano decisamente archiviate, perfino nella cultura italiana, in un limbo che lo stesso Capogrossi aveva contribuito sostanzialmente a creare, dopo il suo passaggio, nel 1949, alla pittura astratta: aspetto che viene riecheggiato persino nella traduzione italiana del libro, dove la citazione viene omessa redazionalmente, probabilmente perché ritenuta allusiva a un fenomeno allora "fuori moda". È molto probabile dunque che il riferimento del critico francese dovesse risalire a un chiaro ricordo della sua giovinezza, e cioè proprio a quell'occasione in cui, parallelamente a Balthus, dovette visitare la mostra della giovane Scuola romana alla galleria Bonjean. Un periodo in cui la giovane arte italiana era ancora in grado di influenzare uno dei più grandi pittori del secolo.

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