L'IDEA DEL BENE
RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI
Il lato intelligibile dell'analogia fra il bene e il sole
In che senso il bene rende possibile la conoscenza?
In che senso il bene rende possibile l’essere e l’essenza degli oggetti conoscibili?
In che senso il bene è al di là dell’essenza? In che senso la supera per dignità e potenza?
Socrate afferma che i filosofi governanti, per essere all’altezza del loro compito, devono essere in grado di attingere il mégiston màthema, la cosa più grande che si possa imparare, l’idea del bene (505a). Il suo carattere essenziale è la suprema unità: il bene è assolutamente uno, a differenza dei paradigmi, unitari solo in relazione alle molte cose in cui si esemplificano. In questo senso, non può venir identificato con una cosa.
Per dimostrare questa tesi, occorre innanzitutto mettere in discussione le definizioni che trattano il bene come una cosa, identificandolo con il piacere, o con la phrònesis (intelligenza, senno) (505b). L’identificazione del bene con la phrònesis produce una definizione circolare. La phrònesis può essere bene, infatti, soltanto se ha ad oggetto il bene, e non qualcos’altro. E da questo segue che la phrònesis non può identificarsi col bene: infatti essa è buona non di per sé, bensì solo se viene messa in relazione e orientata al bene. La phrònesis, in altri termini, si comporta come ogni altro oggetto diverso dal bene: può diventare “buona” solo se posta in relazione al bene. Dunque essa non può essere il bene in sé, ma, come le altre cose, può essere buona solo per partecipazione – koinonia o méthexis (505c). L’identificazione del bene col piacere genera una contraddizione, non appena si riconosce che esistono piaceri buoni e piaceri cattivi. Infatti, se il bene è uguale al piacere, allora qualsiasi piacere dovrebbe essere ugualmente bene: affermare, dunque, che un particolare piacere è cattivo, o è migliore o peggiore di un altro, produce una contraddizione rispetto a questo assunto. 45 Dire “che cos’è” il bene sembra una intrapresa molto difficile.
Il bene non può essere ridotto a una cosa, senza produrre circolarità o contraddizioni. Questa sua qualità teoreticamente sfuggente, tuttavia, non lo rende irrilevante ed evanescente dal punto di vista pratico. Il bene, prosegue infatti Socrate, si differenzia dal giusto e dal bello perché noi, pur essendo disposti a fare azioni che appaiono o sono credute giuste o belle, senza in realtà esserlo, non accettiamo, di contro, di compiere atti che appaiono o sono ritenuti bene, ma non lo sono effettivamente. (505d) Il bello e il giusto, in altre parole, tollerano una discrepanza fra realtà e “apparenza”: posso adeguarmi a ciò che normalmente si crede bello o giusto anche se non ne sono convinto, per esempio allo scopo di trar vantaggio dal mio conformismo. Il bene non sopporta questa discrepanza: se mi adeguassi a ciò che si usa credere bene, ma che so non essere tale, andrei, semplicemente, contro il mio interesse. Una giustizia che derivasse interamente dal bene meriterebbe di venir perseguita anche di per se stessa e non solo per le sue conseguenze esteriori: in questa prospettiva, il problema del bene ha un senso politico immediato.
Chi ignora in che modo le cose giuste e belle sono buone, è un custode ben scarso. E nessuno può conoscere adeguatamente il giusto e il bello prima di sapere in che modo è buono. (506a)
Ma come è possibile definire il bene, se sembra sfuggire ad ogni tentativo di identificarlo con una cosa? Una via potrebbe essere quella, soggettiva, dell’opinione: bene è ciò che ciascuno, di volta in volta, ritiene tale. Questa via, però, è preliminarmente esclusa da Socrate. Quando Glaucone gli chiede la sua opinione su che cosa sia il bene, egli risponde che chi ha opinioni ma non ha nous (intelletto) è simile a un cieco che cammina sulla strada giusta: non vedendola, non può esserne consapevole e dunque non può indicarla ad altri. Il bene è esplicitamente pensato per una funzione direttiva anche in politica: la doxa – anche se, per avventura, corretta – è carente di intersoggettività e dunque inadatta a tale funzione. Se attribuiamo un ruolo di indirizzo politico a chi ha soltanto opinioni, otteniamo un potere politico oggettivamente poco trasparente – un potere che sa imporre, ma che non ha gli strumenti per spiegare.
Il bene, dunque, deve essere definito, a dispetto della difficoltà del compito, in una maniera tale che trascenda l’opinione. Socrate sceglie di darne una definizione soltanto indiretta (506e), tramite l’analogia con quel che sembra la progenie del bene.
La funzione dell’analogia è di presentare un termine ignoto tramite il paragone con un termine noto. L’analogia può avere il valore di un espediente meramente didattico, per far comprendere a un ascoltatore la cui esperienza e conoscenza sono limitate un termine ad esse ancora estraneo. Ma può anche avere il valore di uno strumento speculativo, quando serve per alludere ad un contenuto che non può, strutturalmente, essere riempito dall’esperienza e conoscenza di un soggetto finito.
Se l’analogia platonica fosse solo didattica, si potrebbe pensare che Platone abbia altrove, magari in forma non scritta, una dottrina del bene più compiuta: opinioni e analogie avrebbero solo una funzione essoterica, divulgativa. Se invece l’analogia avesse un senso speculativo, ne seguirebbe che un soggetto conoscente finito potrebbe farsi un’idea del bene solo per il tramite della mediazione soggettiva – cioè della sua conoscenza ed esperienza, la quale ha a che fare con cose definite. Essa, in questo caso, sarebbe un limite, ma, nello stesso tempo, una condizione.
Il 505d ha fondato l’importanza del bene sulla circostanza che nessuno si accontenta della sua apparenza. L’idea del bene non può essere, per nessuno, oggetto di una finzione sociale: il bene viene perseguito se e solo se è ritenuto tale dai singoli. Quindi ciò che essi sanno e vogliono è un punto di partenza indispensabile: si potrebbe avere una giustizia esoterica e una giustizia essoterica, ma non potrebbero esserci due idee del bene, una vera e riservata ai pochi, e l’altra vaga o ingannevole, per la massa. Tutti, infatti, aspirano a ciò che è bene veramente. Dalla necessità della mediazione soggettiva segue, inoltre, che è possibile capire che cosa è il bene solo per partecipazione, se prendiamo le mosse da ciò che abbiamo e cerchiamo di ampliarlo a ciò che non abbiamo: il bene non può essere trasmesso come una nozione estrinseca, ma ha bisogno della convinzione personale. Nessuno, a proposito del bene, si accontenta del sapere per sentito dire. Per questo in Platone, come nella filosofia esistenziale di Kierkegaard, il bene può essere comunicato solo indirettamente.
La definizione per analogia, in 507b ss., viene svolta tramite uno schema, nel quale il lato visibile funge da illustrazione analogica del lato intelligibile, ove si colloca il bene.
La vista, per raggiungere le cose visibili, ha bisogno di un medium, la luce: se non c’è luce, non si vede. La luce stessa, prodotta dal sole, non si identifica né col senso della vista, né con gli oggetti della visione; essa ha, tuttavia, una dignità, perché rende possibile il vedere .
Il lato visibile dell’analogia fra il bene e il sole
Nell’ambito di ciò che è fisicamente visibile, il sole, che nella religione popolare greca ha una dignità divina, permette alla vista di vedere e alle cose visibili di essere viste. La vista non si identifica col sole, né di per se stessa né in relazione all’occhio, l’organo in cui viene ad essere. Fra i sensi, tuttavia, è quella di aspetto più solare. Proprio perché non si può vedere senza luce, la capacità (dynamis) della vista è data dal sole. Il sole, che è causa della vista, è esso stesso oggetto di visione Il sole è analogo al bene, in questo senso: il ruolo svolto dal bene per il nous (intelletto) e per gli oggetti intelligibili,nell’ambito intelligibile (noeton), è paragonabile al ruolo svolto dal sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili (508c). Il sole dà agli oggetti visibili la dynamis o possibilità di essere visti: infatti, quando guardano oggetti poco o nulla illuminati, gli occhi si comportano come se fossero ciechi. Inoltre, il sole dà agli oggetti visibili anche la génesis (il venire ad essere), la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso stesso génesis. (509c) Gli enti visibili di cui parla Platone sono evidentemente le creature viventi, le quali, appunto, sono soggette a genesi, crescita e nutrimento. In questo senso, il 509c si potrebbe intendere, in altre parole, così: il sole dà la vita, pur non essendo esso stesso vita.
Il lato intelligibile dell'analogia fra il bene e il sole
Il lato visibile dell’analogia suggerisce che il sole mette in atto la potenzialità della vista: quando guardiamo oggetti illuminati dal sole, riusciamo a vedere; quando guardiamo oggetti oscuri, è come se fossimo ciechi. Similmente, quando l’anima si fissa su ciò che è illuminato dalla verità e da ciò che è (to on), lo coglie e lo conosce: si rende, in questo modo, chiaro che essa ha nous o intelletto, come la capacità di vedere si manifesta solo tramite la visione di oggetti, in presenza di luce. Quando invece l’anima si fissa su ciò che è misto di tenebra e viene ad essere e perisce, allora essa ha solo opinioni, si offusca e somiglia a chi non ha nous (508d). Quindi la prima funzione del bene è rendere possibile la conoscenza, in una maniera peculiare, se dobbiamo prendere sul serio l’analogia: come ci accorgiamo di non essere ciechi solo vedendo qualcosa nella luce, così scopriamo la nostra facoltà di conoscere soltanto mettendola in atto.
L’idea del bene – viene fatto dire a Socrate – apporta verità a ciò che è conosciuto e dà dynamis (potenzialità, facoltà) a chi conosce. È causa della epistéme (scienza) e della verità; però è altro da esse e più bella. Scienza e verità non si identificano col bene, che è di maggior pregio, per quanto anche scienza e verità siano di valore (508e) Gli oggetti conoscibili ricevono dal bene non solo l’esser conosciuti, ma anche l’éinai e l’ousìa, cioè l’essere e l’essenza. Ma il bene non è ousìa, perché è al di là dell’ousìa per anzianità o dignità e potenza (dynamis) Per comprendere queste parole di Socrate, dobbiamo ricordare, in via preliminare, che il problema del bene è introdotto mentre si discute di un progetto politico e della sua realizzabilità: la prospettiva originaria, nello svolgimento del dialogo, è quella della ragion pratica. Il bene è, certamente, anche il culmine della metafisica platonica. Tuttavia il contesto in cui viene presentato invita a proporre un esperimento: cercare, innanzitutto, di chiarire le parole di Platone dal punto di vista della ragion pratica.
In che senso il bene rende possibile la conoscenza?
Il sole non produce il senso dello vista: quando non c’è luce io non vedo, non perché i miei occhi sono fisicamente danneggiati, ma perché manca il medium che permette loro di funzionare. Se i miei occhi sono sani, sono fisiologicamente funzionali anche al buio, sebbene non distinguano nulla perché manca la luce (508c-508d). Similmente, il bene non produce, in me, la facoltà di conoscere. Essa è funzionale sia in presenza del bene, sia in sua assenza. Si dice, infatti, che quando l’anima guarda ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, ha nous (intelletto); quando non lo guarda, ha opinioni e si comporta come se non avesse nous. Con o senza bene si ha, in ogni caso, conoscenza, dal lato del soggetto conoscente. Ma la sola conoscenza “intelligente”, che si distingue dall’opinione, è quella “illuminata” dal bene.
Il senso di questa tesi è già spiegato in 505d: il bene si differenzia dal giusto e dal bello perché siamo disposti ad accettare di fare cose che si limitano ad apparire giuste o belle, ma non accettiamo di fare cose che appaiono o sono ritenute bene senza esserlo effettivamente. Quando non poniamo il problema del bene, possiamo accettare forme di conoscenza legate alle convenzioni diffuse, o a discipline settoriali limitate; possiamo accontentarci dei valori e delle pratiche condivise nella nostra cultura, senza preoccuparci della loro verità in un orizzonte più ampio. Quando poniamo il problema del bene questo non basta; di contro, un sapere particolare, settoriale, limitato ed esposto alla doppiezza può esserci utile solo per scopi settoriali e limitati.
Il bene rende possibile la conoscenza, nel senso di intelligenza o comprensione, perché obbliga a porre in maniera radicale il problema della verità. Questa prospettiva non ha a che fare con contenuti determinati di conoscenza, ma con l’orientamento e l’interesse del soggetto conoscente. Perfino Trasimaco, quando smaschera la giustizia come utile del più forte, ragiona col presupposto dell’esigenza di trasparenza e verità posta dal bene. Anche per questo si fa confutare sulla base del suo desiderio di appartenere alla comunità dei conoscenti. Questo desiderio è in contrasto sia con i contenuti della sua teoria, sia col suo atteggiamento competitivo; esso, tuttavia, è necessariamente presente in chi professa la sapienza. In generale, se è vero che tutti hanno interesse al bene nella sua verità, allora la scelta della vita teoretica e della sua condivisione di conoscenza non può essere, in linea di principio, una strada riservata a pochi.
In che senso il bene rende possibile l’essere e l’essenza degli oggetti conoscibili?
Lo spettro semantico di éinai, nella lingua greca, è molto ampio: éinai può indicare sia il semplice esistere, sia, in vari sensi, l’essere vero. 46 In 509c viene detto che il sole dà agli oggetti visibili la dynamis di essere visti, ma anche la génesis (il venire ad essere), la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso stesso génesis. Gli enti conoscibili, inoltre, ricevono dal bene non solo l’esser conosciuti, ma anche l’éinai e l’ousìa, cioè l’essere e l’essenza.
L’analogia fra il sole e il bene può essere svolta punto per punto: il sole rende possibile vedere gli oggetti sensibili, mentre il bene, come già menzionato, rende possibile conoscere gli oggetti intelligibili. Il sole dà agli oggetti sensibili génesis, mentre il bene dà agli oggetti conoscibili éinai. Il sole dà agli oggetti sensibili crescita e nutrimento, mentre il bene dà agli oggetti conoscibili ousìa.
Una volta sviluppata l’analogia, si impone un interrogativo: in che senso la génesis, cioè la generazione o il venire ad essere degli oggetti sensibili, può venir paragonata all’essere degli oggetti intelligibili?
Quando ci si riferisce agli oggetti sensibili, si usa il termine génesis: gli enti sensibili, infatti, sono enti che vengono ad essere, sono generati e divengono, grazie alla luce del sole. Quando ci si riferisce agli oggetti intelligibili si usa un termine statico, come éinai. Però, se il bene è come il sole, la sua funzione deve essere, in qualche senso, dinamica. Nell’universo platonico, un ente intelligibile è (vero) in un senso statico, atemporale. Esiste, tuttavia, una vita del pensiero che deve essere intesa in senso dinamico: che cosa induce a pensare alle cose e ad affrontare radicalmente il problema della loro verità? Che cosa induce a sottoporre le nostre nozioni a una discussione non finalizzata alla competizione e al marketing? L’interesse per il bene, in quanto interesse per la verità, mette in movimento il pensiero. Il bene è ciò che fa “essere” – pensate, corroborate e rese coerenti fra loro – delle nozioni, nel modo peculiare in cui il loro essere è, in un senso parziale, dinamico.
Disponiamo dell’ousìa di un oggetto conoscibile, cioè della sua essenza o della sua sostanza, quando siamo in grado di definirlo in maniera rigorosa e univoca. L’interesse per il bene e la disposizione a sottoporre ogni nostra tesi alla prova della dialettica è ciò che rende possibile concepire l’ousìa. Se l’interesse per il bene non agisse su di noi, potremmo accontentarci, a un livello inferiore, delle convenzioni sociali e culturali (doxa), e, a un livello superiore, specialistico, di una molteplicità di paradigmi meramente “tecnici” e settoriali. Non ci interesserebbe sapere che cosa sono veramente le cose.
In che senso il bene è al di là dell’essenza? In che senso la supera per dignità e potenza?
Il bene (509b) non è ousìa o essenza, ma è al di là dell’ousìa. In 505b, erano falliti due tentativi di definizione del bene tramite la sua identificazione con una sostanza, perché avevano prodotto ora una definizione circolare, ora una contraddittoria. Il bene è intelligenza – ma di che cosa? Il bene è piacere – ma come si ordinano, in rapporto al bene, i differenti piaceri? La debolezza delle due definizioni era la medesima: identificare il bene con una cosa isolata, dotata di ousìa, quando l’esigenza ad esso intrinseca riguarda le relazioni fra le cose.
Ipotizziamo che il bene sia al di là della sostanza perché non è una cosa, bensì un principio di relazione e di ordine. In quanto principio di ordine, non può essere un oggetto. Deve, tuttavia, essere un principio superiore e unitario, altrimenti non produrrebbe un ordine. Inteso in questi termini, cioè come esigenza di unità e di ordine, il bene può apparire come un principio misticamente vuoto e retorico, e quindi del tutto superfluo, se non, pericolosamente, utilizzabile per giustificare qualsiasi autoritarismo. Possiamo sottrarci a questa impressione soltanto se riusciamo a spiegare in che senso e in che modo un principio che contiene solo l’esigenza di un ordine unitario può imporre dei vincoli, pur non essendo una cosa.
Dal momento che il bene viene introdotto in un contesto politico, e può essere compreso solo per analogia, ci permettiamo di illustrarlo con una analogia politica. Immaginiamo una trattativa fra un numero indefinito di parti, i cui partecipanti parlano ciascuno per conto proprio, senza ascoltarsi a vicenda: anche se qualcuno di loro stesse enunciando una soluzione accettabile da tutti, questa soluzione non potrebbe mai essere accolta, perché manca una relazione fra di loro. Se i partecipanti parlano fra loro, di contro, alla fine verrà pattuita la soluzione enunciata da qualcuno. Quale elemento di questa situazione è paragonabile al bene? La soluzione o il fatto di essersi risolti a entrare in una relazione per pattuire una soluzione? Dal punto di vista del contenuto la conclusione della trattativa non aggiunge nulla di nuovo. Gli schemi di azione possibili erano già conoscibili e presenti. Ma la relazione aggiunge qualcosa in più: una pace conclusa, in luogo di una moltitudine di parole. Il bene non è paragonabile alla soluzione decisa – a un contenuto definito – ma alla relazione che ha reso possibile raggiungere quella soluzione.
Fuor di metafora: il bene, nella sua vuotezza, contiene tuttavia, in quanto principio, dei vincoli. In primo luogo, esso contiene l’esigenza dell’unità, sia sul piano soggettivo, sia su quello oggettivo. Sul piano soggettivo, il bene deve essere qualcosa di valido per tutti, e quindi qualcosa che tutti possano, sinceramente, volere: questo significa anche, se ricordiamo che il bene è stato introdotto in un contesto politico, che non si possono imporre nemmeno alla comunità politica princìpi personali, arbitrari e occasionali. Sul piano oggettivo, il principio del bene deve essere universale, cioè deve essere lo stesso in tutti i casi, e deve essere assolutamente trasparente, cioè deve essere privo di doppiezza, in tutte le accezioni del termine. In questo senso, il bene non è una sostanza o cosa, ma è al di là delle cose: è, infatti, la mera esigenza di un principio unitario di relazione per ordinare e coordinare le sostanze in modo trasparente e coerente. Questa esigenza costituisce la vita del pensiero. Quando facciamo delle scelte, teoretiche o pratiche, abbiamo sempre ad oggetto dei contenuti; ma chi sceglie sulla base del bene avverte l’esigenza di orientarsi secondo un principio unitario valido per tutto e per tutti, e sulla base di una relazione unitaria di tutti con tutti. Su questa falsariga, possiamo anche comprendere perché il bene supera ogni contenuto per dignità e potenza: supera le cose per dignità, perché è ciò che le orienta alla ricerca di un senso unitario, e le supera per potenzialità, perché è l’esigenza che mette in moto la vita del pensiero.
Secondo il neokantiano Hermann Cohen, Platone ha il merito di essersi posto il problema dell’etica nella sua forma più radicale. Egli, infatti, non ha incentrato la sua indagine su quello che gli uomini considerano beni – indagine che lo avrebbe lasciato prigioniero del mondo della sua esperienza – ma si è interrogato sulla possibilità di un tipo di realtà diverso da quello che può affermare la natura mediante la validità scientifica: una realtà costituita dall’autonomia del pensiero, la quale orienta direttamente la ragion pratica, e, indirettamente, la ragion teoretica. A questa domanda, Platone risponde stabilendo un rapporto fra metafisica e filosofia morale: l’idea del bene è l’espressione più alta e significativa del valore critico della teoria delle idee, perché esprime l’esigenza della loro unità di senso; ed è, nello stesso tempo, l’indicazione delle sue conseguenze per la fondazione dell’etica, 47 in quanto esigenza, per la ragion pratica, di universalità e di trasparenza.
Gli enti intelligibili possono aspirare a un senso complessivo solo se non sono intesi come discreti e separati, ma vengono idealmente orientati a formare un complesso unitario e coerente. Lo sviluppo del pensiero in un unico movimento sistematico del sapere richiede una condizione di unità, comunanza, trasparenza. Questa condizione, a sua volta, non si identifica con dei fatti o delle cose, ma con un valore e una possibilità. La vita della ragione teoretica e pratica ha bisogno di uno spazio virtuale di interazione unitario e condiviso, che viene mantenuto aperto da un principio di ordine, al di là delle singole nozioni. Questa caratterizzazione della ragione teoretica e pratica è immediatamente politica, perché Platone l’ha introdotta allo scopo di descrivere il sapere dei filosofi al governo – un sapere, quindi, finalizzato all’indirizzo politico.
Per quanto il tema del bene sia metafisicamente complesso, le sue implicazioni per il regime della conoscenza sono chiare: sapere non significa possedere, individualmente, una collezione di nozioni statiche e separate fra loro. Significa, piuttosto, essere in grado di fare interagire queste nozioni entro uno spazio comune sia sul piano oggettivo, sia su quello soggettivo. Sul piano oggettivo, una collezione di nozioni discrete è viva nella misura in cui esse si confrontano reciprocamente, per progredire e muoversi verso il sistema; sul piano soggettivo, il loro confronto può aver luogo solo se le nozioni sono universalmente discusse e condivise nella prospettiva di un interesse genuino per la verità. Il carattere primariamente pratico di questo interesse è messo in luce dal fatto che esso si manifesta, come si afferma in 505d, nella circostanza che, per quanto riguarda il bene, nessuno si accontenta della sua apparenza. Quanto detto per il regime del conoscere vale anche per il regime politico, perché l’idea del bene è stata introdotta, come abbiamo ripetutamente ricordato, proprio allo scopo di descrivere il conoscere capace di indirizzo politico.
Se il sapere fosse un patrimonio soltanto individuale, e non fosse orientato da una sua specifica etica sovrapersonale, non esisterebbero né il dibattito scientifico, né quello, propriamente, politico; ci sarebbero solo nozioni private, episodiche e sconnesse, ispirate da interessi occasionali, vari e slegati. Nel VI libro della Repubblica si trova la chiave della confutazione di Trasimaco.
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