martedì 18 dicembre 2007

"L'ARTE IN ITALIA DOPO GLI ANNI 40"

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Dagli anni Venti fino ai primi anni Quaranta in Italia, nei confronti dell'arte, si ebbe un atteggiamento sostanzialmente conservatore; gli esperimenti d'avanguardia del secondo futurismo non rimasero altro che tentativi. Tuttavia negli anni che seguirono la seconda guerra mondiale il design italiano, l'architettura e il cinema cominciavano ad assumere una dimensione internazionale. Le infrastrutture delle arti visive però si svilupparono ben poco; l'Italia era e rimane tutt'oggi un paese con pochissime istituzioni delegate alla diffusione e alla conoscenza dell'arte contemporanea, fatta eccezione per la Biennale di Venezia. Gli artisti, i critici e gli operatori del settore continuano, come in passato, ad allinearsi ai partiti politici. Si dibatté molto su quali fossero le strade migliori per risollevare le condizioni morali del paese. Di nuovo si trattava di conciliare le tendenze radicali con la tradizione. Pittori come Renato Guttuso, il cui realismo era sostenuto dal Partito comunista, e scultori come Marino Marini e Giacomo Manzù, divennero famosi grazie al loro forte senso della continuità con i modelli del passato. Altri artisti trovarono nell'astrattismo la forma migliore di libertà politica e creativa. Lucio Fontana a Milano, Alberto Burri a Roma ed Emilio Vedova a Venezia furono le figure emergenti dell'esplosione creativa del dopoguerra. Diversamente dagli informali europei gli italiani espressero la loro estetica spirituale lavorando soprattutto sulle diverse qualità dei materiali. Fontana, ad esempio, concretizzava il suo concetto di spazialismo perforando la tela, alla ricerca di quei valori universali che sembravano essere stati distrutti dagli eventi catastrofici del 1943‐45. Gli spazi illimitati suggeriti dalle sue opere ci riconducono alle possibilità dinamiche del futurismo e in particolare al precoce astrattismo di Giacomo Balla. Quando comparvero agli inizi degli anni Cinquanta, i lavori di Burri erano caratterizzati da un estremo radicalismo: il suo impiego di ruvida tela di sacco e in seguito di legno, ferro e plastica, se a un primo sguardo sembrava voler negare qualsiasi legame con la tradizione pittorica, in realtà rappresentava una continuazione del lavoro di Kurt Schwitters e avrebbe poi influenzato artisti americani come Robert Rauschenberg. Per quanto apparissero icone della civiltà industriale, con l'andar del tempo le opere di Burri hanno rivelato una bellezza in cui è possibile intravedere valori metafisici. Di nuovo l'Italia e il suo paesaggio si sono rinnovati secondo un'immagine profondamente segnata dal senso del tempo e dello spazio. Piero Manzoni e Pino Pascali sono partiti entrambi dallo spazialismo di Fontana e dalla matericità di Burri, combinando in modo ancora più radicale materia e metafisica. La loro era una visione particolarmente ottimista o ironica dell'arte, non priva tuttavia di un senso di fatalità, uno stato d'animo che portò al suicidio nel caso di Piero Manzoni e Francesco Lo Savio: la contemplazione dell'infinito fu per loro un peso troppo grande. Da queste posizioni si giunge a un'arte di rottura con i concetti tradizionali di pittura e scultura. Abbandonata la metafisica, l'arte era ormai diventata semplicemente l'oggetto di se stessa. Con Giovanni Anselmo, Luciano Fabro, Giulio Paolini, Jannis Kounellis, Mario Merz, Giuseppe Penone e Gilberto Zorio il concetto di arte si è allargato sfidando le convenzioni dello spazio nelle gallerie e nei musei, come avevano fatto i futuristi oltre mezzo secolo prima. Germano Celant ha assegnato a questo clima artistico un nome molto appropriato: arte povera. Un'arte che utilizza materiali molto semplici per organizzare memorie e associazioni. Come De Chirico, questi artisti isolano l'oggetto, non sulla tela, ma nello spazio, dentro una galleria o fuori, all'aria aperta, conferendogli una significanza poetica e mitologica, quasi arcaica. L'operare artistico si esprime in una dimensione personale, autobiografica, come oggettivazione di immagini illusorie, come veicoli di poesia e ambiguità. Movimenti analoghi esistono anche nel resto d'Europa, soprattutto in Germania. Joseph Beuys (che ha influenzato profondamente la recente arte italiana) concepiva l'arte come riforma sociale e rivelazione. Oggetti e materiali di uso quotidiano assumevano un valore di testimonianza nell'intento di sviluppare la coscienza dell'osservatore e di renderlo consapevole della natura spirituale e materiale del mondo circostante. "Lo spazio dell'Europa è molto differente da quello degli americani", diceva Pino Pascali, "più che appartenere all'azione appartiene alla riflessione sull'azione."
Kounellis, come De Chirico, è nato in Grecia e si è trasferito a Roma nel 1946. Il suo lavoro analizza le tensioni e i paradossi insiti nella cultura mediterranea. Già i suoi primi "alfabeti" riflettono un'osservazione dell'eterno vagare attraverso lo spazio e il tempo: "Io credo che nessun artista, di ieri o di oggi, possa instaurare un dialogo con il presente, il presente nel significato peggiore; al contrario, è costantemente impegnato in un dialogo con la cultura del passato. Questo, almeno, è il caso dell'Europa." In una delle sue opere più importanti, Cavalli, "espose" dodici cavalli vivi in una galleria. Al momento sembrò un'azione estremista e anarchica, anche se la si ricorda come una forma particolare di contemplazione, proprio come un quadro di De Chirico, un momento di riflessione in cui il cavallo è assunto a simbolo della storia e dell'arte. Merz, come Kounellis, è un altro dei grandi nomi dell'arte povera; è un futurista, nel senso che la sua è l'arte di un profeta, ma anche un metafisico che riflette continuamente sulla condizione umana. L’igloo, l'immagine centrale della sua scultura, rappresenta "il mondo e il suo equilibrio". La sfericità di questa struttura è infinitamente ricca di significati e suggerisce la visione postapocalittica di un mondo che non è ancora stato completamente distrutto; l'igloo offre protezione e contemporaneamente è penetrato da un'energia dinamica, è il riflesso del tempo e del movimento, di una civiltà onnivora da cui l'uomo, il nomade, deve difendersi. Il suo lavoro evoca i tempi in cui le tribù attraversavano l'Europa amalgamando la loro cultura barbarica con quella di Roma. Merz dipinge anche animali primitivi molto lontani dallo spirito ottimista del futurismo di inizio secolo. Come Beuys, al quale spesso viene accostato, si presenta al mondo come un medico che offre rimedi contro una società arida e materialistica. Appartiene a quella tradizione dell'arte italiana che si occupa soprattutto di problemi metafisici; per questo il suo lavoro può essere considerato un'estensione delle idee di De Chirico. L'arte italiana di questo secolo è come Giano bifronte: movimenti che sembrano contraddirsi l'un l'altro e che sono invece due aspetti di un'unica problematica fondamentale. Una decina di anni dopo l'ottimismo radicale del '68 e dell'arte povera si è prodotta una reazione dei giovani artisti contro l'arte concettuale. All'inizio degli anni Ottanta si è parlato molto di un ritorno alla tradizione in pittura e scultura, anche se tale genere non era mai morto, né in Italia, né all'estero. Fu un critico italiano, Achille Bonito Oliva, che chiamò questa ripresa "transavanguardia". Come la maggior parte di queste formule, il termine è ambiguo, e tuttavia riesce a rendere bene l'idea di un'arte di rottura con il clima concettuale internazionale e che mira a rifondarsi su tradizioni più locali. Probabilmente è proprio a causa della sua ricca eredità culturale che l'Italia è diventata trainante nel revival della pittura internazionale. La mostra "A New Spirit in Painting", svoltasi nel 1981 alla Royal Academy di Londra, fu uno dei sintomi della nuova visione artistica, in Germania, negli Stati Uniti e in Italia. Artisti come Sandro Chia, Mimmo Paladino, Enzo Cucchi e Francesco Clemente divennero subito personaggi di primo piano sul palcoscenico dell'arte e l'Italia si trovò al centro dell'attenzione mondiale come non era più accaduto dai tempi del futurismo. La figurazione primitiva della transavanguardia tuttavia non ha mai abbandonato completamente alcune valenze dell'arte concettuale; carica di ambiguità e di mitologie personali, ha attinto moltissimo, almeno all'inizio, dall'arte povera. Tuttavia è risultato subito evidente come questi artisti guardassero anche al resto dell'arte italiana, soprattutto a quella degli anni Venti e Trenta. Questo voluto eclettismo, unito a un'opulenza manierista, contrasta con la purezza e il rigore della generazione precedente. La transavanguardia è diventata così pericolosamente cannibalesca nei suoi riferimenti che in essa si è ravvisata addirittura la fine del concetto d'avanguardia. Nulla potrebbe essere più falso. Ora possiamo collocare la transavanguardia, così come l'arte povera, in quella continuità di risposte alla tradizione culturale avviata all'inizio del secolo. La transavanguardia è qualcosa di più di un semplice "rappel à l'ordre" e anche di un ritorno a mitologie private, anche se questi aspetti rimangono due elementi importanti per la nuova generazione di artisti italiani. In ultima analisi si tratta di utilizzare nuovi mezzi per esprimere, ancora una volta, verità psicologiche e soggettive insite nella tradizione della pittura figurativa. La transavanguardia, che fa ormai parte della storia, deve essere considerata un momento vitale e non la fine dell'avanguardia. Come tutti i movimenti paga una tassa al passato ed è giusto che nel suo svilupparsi si sia appropriata di tutte le tendenze dell'arte italiana di questo secolo. Sembra dunque che l'arte italiana abbia oggi raggiunto una tale unità di intenti da permetterci di guardare al passato con una sensibilità più profonda e precisa.
Norman Rosenthal

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