- Breve interpretazione del RELATIVISMO
di Alberto Manassero - giugno 2007
[Ndr] L'espressione latina Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (La rosa primigenia esiste nel nome, noi possediamo soltanto i nomi) deve la sua fortuna a Umberto Eco che ne ha fatto l'ultima frase del suo romanzo Il nome della rosa.
Un esametro diventato celebre per la sua collocazione, da parte di un filosofo, in un romanzo filosofico, con un linguaggio filosofico, quasi a emendamento per una generazione futura. Un giallo, e insieme romanzo storico, che si può leggere su tre piani diversi a seconda della sensibilità di chi legge. Un libro per tutti e per nessuno annoterebbe la penna pittoresca di Friederich Nietzsche.
Io, in tutta franchezza, eretico per gloria terrena, spererei di poter tenere qualcosa in più di un nome nudo, qualcosa di meglio di una maschera che posso plasmare a mio piacere senza troppi sforzi. Ma questa è presunzione e vanagloria umana. Roba vecchia. Adesso si parla di relativismo.
Non credo che il relativismo sia una cattiva teoria, principalmente perchè non è una teoria. Come è possibile che un sistema gnoseologico, che indaga come un arbitro sulle nostre facoltà conoscitive sia una teoria. E’ e deve essere piuttosto un sistema superiore, una sovrastruttura che si manifesta nella misura in cui è applicata e perde totalmente di significato se rimane appunto teoria.
Esso deve essere arbitro imparziale del nostro modo di guardare alla vita, alla conoscenza, alla società. Non può per sua natura giocare la partita.
Se si fa di esso un giocatore, si finisce per ipostatizzarlo, renderlo acriticamente un dogma inamovibile. Ecco perchè dico che di relativisti non ne ho mai conosciuti: ho conosciuto preti del relativismo, deificanti il dogma del relativismo, ammettendo la assenza di una verità rivelata e deificando scientisticamente una moltitudine assoluta di piccole verità.
Quel relativismo finto e travisato è il risultato del fallimento dell’antropologia moderna. Il risultato di una perdita di identità valoriale, di un’alienazione a se stessi. E tutto ancora infarcito di morale, di belle parole: tant’è che un dogmatico di questa portata è definito, o si definisce umile, ma in realtà sostiene quanto gli altri la propria teoria, e guai a toccargliela. Pecca, se questo è peccato, quanto tutti gli altri.
E' il caso di molti pensatori attuali i quali di fatto escludono dall'ermeneutica relativista ogni altro tipo di speculazione ritenendola del tutto improduttiva, incapace di dare empiriche dimostrazioni della realtà. Ma è forse possibile, è forse consono al sistema possibilista-relativista, la prioritaria eclisse di un sistema gnoseologico in favore di un altro seppur critico e possibilista esso stesso?
Quando dico che il relativismo non è un a teoria e non può essere una teoria, voglio proprio spiegare questo: esso semmai è una premessa, che pone al vaglio le altre teorie e al contempo se stessa, riconoscendo la possibile fecondità di altri sistemi conoscitivi diversi da sè. L'attitudine critica del relativismo non può prescindere da una criticità verso se stessa. Negare il relativismo è il compito del relativismo. Il "tutto è relativo" è una banalizzazione che non può esistere concettualmente, perchè andrebbe a dar vita ad una perfetta tautologia. Se proprio dobbiamo trovare uno slogan meglio dire "Molto può essere relativo, molto altro può non esserlo", ma chi ci assicura la partizione? La distribuzione è omogenea oppure no?
L'esclusione scientista comtiana, per esempio, non emerge nel suo evolversi, ma si manifesta solo alla fine del processo conoscitivo perchè, pur dando vita a ulteriori approfondimenti, esclude, secondo le ipotesi, altri possibili risultati, considerati infecondi e/o oziosi. Così è la tendenza anche dei nuovi scienziati o intellettuali post relativisti, tanto da far sembrare la nostra epoca una reinassaince positivista.
Il bersaglio preferito da queste intellettualità è certamente la Chiesa. Gianni Vattimo ha affermato che se un Dio esiste, certamente è un relativista. Anzi è l'unico relativista possibile. D'altronde dal punto da cui ci osserva non può che esserlo, è l’unico che può davvero svolgere la funzione di arbitro che ho precedentemente descritto; e la dottrina stessa del cristianesimo è nella sua essenza primaria, cioè nella dimostrazione dell'esistenza divina, relativista. "Quando due o più di voi sono riuniti in mio nome, ecco io sarò con loro": si svuota di fatto molta della forza del Vero. Non ci dice dove è o chi è, ma ci indica la strada per trovarlo. Nè l'esistenza di Dio, come dicevo, è un articolo di fede. Quindi sono d’accordo con Antiseri: relativista perchè cristiano, cristiano perchè relativista.
Gianni Vattimo vede nella Caritas cristiana il massimo esempio di relativismo che quindi elude per la prima volta le tematiche gnoseologiche e in perfetto accordo con l'idea di sistema sociale, entra a far parte della quotidianità collettiva come un valore che fino ad ora mai si era pensato in quest'ottica. La carità, cioè come diceva Dante, la capacità di adeguare la propria volontà a quella dell'altro è infatti il miglior esempio di applicazione di una weltanshauung relativista.
Insomma, per farla breve: bisogna relativizzare il relativismo. Cercando di contestualizzare e storicizzare la Verità, accettare una verità storica condivisa: non diciamo allora di esserci messi d’accordo quando abbiamo trovato la Verità, ma piuttosto di aver trovato la Verità quando ci siamo messi d’accordo. Un verità momentanea probabilmente, figlia del nostro periodo storico, figlia dell’uomo di adesso, del nostro uomo.
Attualmente, credo che, nella sua formula originale, non sia una sistema filosofico applicabile. Questo per la brama umana di tener per sè una scoperta, di sostenere una teoria in vista di un traguardo che forse non esiste, di vivere secondo certezze, di ricercarle nella società e sui libri. Di porre esse come baluardo e luce del proprio cammino di formazione, della propria realizzazione. Qualcosa a cui ci si può davvero appoggiare, una fede, un credo che allievi le incessanti domande kierkegaardiane su cosa ci facciamo in questo mondo. Forse la nostra ricerca continua di universalità vuole essere quella prova del nove che altrimenti non avremmo: un qualcosa che ci rassicuri dopo una scelta, un segnale per un bivio.
Il tentativo adesso, di fronte a nessuna soluzione soddisfacente, è quello di concedere attraverso una estensione concettuale, una base etica uguale per tutti, che, di fatto, eluda l'universo relativo e si ponga, sempre in armonia con esso, come universalismo antropologico globalmente condivisibile e difensore di diritti inalienabili. Ma fare tutto ciò non è altro che attenersi alla regola prima, all’essenza prima del relativismo: quella della possibilità di negare se stesso. Quel che appare la via più semplice è un ritorno, senza ulteriori aggiunte, alla sua naturale essenza.
Questa è la mia visione del universo relativo: alla fatidica domanda se io sia un relativista, aggiro l’ostacolo che mi pone la ragione. Per quanto ne so certe teorie mi convincono più di altre, tutto qua.
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