venerdì 7 dicembre 2007

L'ARTE

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
(liberamente tratto da testi vari)

Basilio Tatakis a proposito dei due grandi secoli dell'Umanesimo bizantino, il IX e il X, poneva in rilievo che se l'amore ed il gusto per gli autori classici può essere segno di scarsa originalità nel campo delle lettere, lo stesso non si può dire per l'arte bizantina: in special modo per la pittura e l'architettura. E invero soprattutto la grande epoca dell'Umanesimo che s'apre con la dinastia macedone, fu un'epoca dove nell'arte figurata si riuscì a congiungere l’ideale greco dell'armonia con le esigenze dell'emozione religiosa, implicate dal Cristianesimo. Son, questi, gli elementi che resero impossibile - e ciò è davvero di somma importanza nella comprensione della spiritualità bizantina — l'orientalizzazione profonda e completa anche dell'arte bizantina, come del resto della civiltà bizantina stessa. Certo, l'anima bizantina ha cercato anzitutto nel suo fondo greco, e nelle radici della tradizione greca, i mezzi di risolvere i problemi che le si presentavano, fossero essi di natura teologica o artistica. Quanto all'arte, esso è il campo dove lo spirito bizantino trova la sua espressione più completa ed unitaria, e dove per conseguenza, reciprocamente, si trovano i migliori indizi, i più validi per l'interpretazione di una spiritualità tanto complessa quanto sottile. Forse oggi, più che non in un recente passato, noi possiamo ammettere che l’arte bizantina, lungi dall'essere uniforme e senza evoluzione, pur mantenendosi su una indiscutibile unità di tono, è ricca di sfumature e variazioni con cui seppe esprimere tutta la gamma del sentimento religioso dei Bizantini. Per il mondo dell'intuizione, in Bisanzio, l'arte è l'equivalente perfetto ci ciò che la teologia fu peril mondo del pensiero: in altri termini teologia ed arte sono due espressioni, che si completano l'un l'altra, originatesi da un sostrato comune: l'attitudine dell'anima bizantina nei riguardi della religione. Senso profondo del mistero, tendenza ad esprimere un inesprimibile, che è al di là della cosa rappresentata, spiritualità esasperata ed ascetica, rinuncia alla forma a favore dell'interiorità, tali sono i tratti dominanti dell'una come dell'altra. E non si può disconoscere che una simile identità, anzi, per dir meglio, una simile unità nelle espressioni spirituali di così diversa natura, sono proprie soltanto dei grandi periodi d'attività creatrice.

In realtà tutta l'arte bizantina sta nello stesso ambito; quello dell'ortodossia. Essa ci appare valida soprattutto, e lo abbiamo già accennato, nella pittura ed architettura, poiché la scultura, priva della terza dimensione, la profondità, deve in certo qual modo riportarsi alla pittura. Per quel che riguarda la letteratura, bisogna fare un discorso a parte; ma anche per essa va ripetuto che le sue forme più vive si ritrovano nella poesia religiosa, cioè negli inni sacri specialmente del primo periodo, nei «contaci» più che nei «canoni».
Tale arte ha carattere trascendente ed esprime tutta un'aspirazione al sublime: anzi il sublime è la categoria estetica nella quale, secondo i moderni tentativi di rivalutazione, l'arte bizantina va compresa e sotto la quale andrebbe giudicata. Un sublime, tuttavia, - dobbiamo aggiungere - ben diverso dal sublime che l'arte occidentale, in particolare quella del Rinascimento italiano, ci ha abituato a riconoscere ed esaltare. Si confrontino, ad esempio, l'immagine del Cristo Pantokrator bizantino ed il Cristo Giudice, con le sue coorti di angeli e di beati della Sistina michelangiolesca: qui si parte dalla terra per giungere al cielo, è l'umano stesso che si sublima e si fa divino; nel Pantokrator, all'opposto, ci si muove dal cielo per giungere alla terra: il risultato è un'espressione trascendente, che tenti di farsi comprensibile agli uomini. Così il Pantokrator è, in pari tempo, terrificante e benevolo, materiale e smaterializzato, finito e trascendente i limiti del finito, insondabile nella misura stessa che è insondabile l'unico Dio: e, in una parola, sublime.
Il Cristo di Michelangelo, invece, rappresenta anche la resurrezione della carne, la sua esaltazione come immagine divina, di armoniosissima bellezza, di cui lo stesso Creatore si compiace: è, insomma, l'esaltazione del corpo umano, che si manifesta nella stessa sua plastica evidenza ed euritmia, degna di transumanarsi, ed anzi già transumanata, senza la quale il gaudio sublime del Paradiso o la pena eterna - non potrebbero farsi né sì perfetto il primo né così compiuta l'altra.
Tutto ciò corrisponde a due concezioni della vita e dell'uomo, che partendo da uno stesso centro - il sentimento cristiano - giungono anche qui, sviluppandosi in direzioni opposte, a farsi antitetiche nelle estreme conseguenze: il bizantino bramava di entrare, nel corso della sua stessa vita terrena, in stato di grazia: bramava cioè la unione col divino che lo liberasse dall'umanità sua, sentita come peso e come peccato, in una mistica trascendenza. Il cristiano d'occidente, invece, persine nel Medioevo, non ha mai disconosciuto l'importanza dell'agire, in cui le qualità più propriamente umane si affinano e si esaltano.
In realtà, anche per l'arte bizantina si può ripetere il discorso già fatto per quanto riguarda i giudizi sulla storia, sulla filosofia teologica, sulla civiltà in generale.

Fino al secolo scorso, l’arte bizantina (e perfino l’arte gotica!) furono ignorate o, peggio, misconosciute: anch'esse erano coinvolte nel giudizio negativo sul Medioevo come età di barbaro oscurantismo. Ma nella rivalutazione romantica del Medioevo e nella scoperta dei valori dell'arte gotica, intesa come slancio dello spirito — e della materia — verso la luce (luce terrestre che simboleggia quella divina), l'arte bizantina non fu compresa: essa restò al di fuori di tale riconoscimento e rivalutazione. Così, mentre l’arte gotica potè per prima liberarsi dalla condanna già formulata dal Vasari, che definiva tutta l'arte cristiana nel suo complesso come «arte barbara», condanna riecheggiata da ogni epoca che, a partire dalla Rinascenza, s'ispirasse ai canoni dell'arte classica - non altrettanto è accaduto per l'arte bizantina. Se Molière ancora nel XVII secolo definisce in blocco i monumenti tutti dell'arte cristiana di Oriente e d'Occidente «mostri odiosi di secoli ignoranti», nell'800, e nei primi del 900, ancora, l'arte bizantina resta isolata a sopportare il peso dell'incomprensione. Lo Schopenhauer rimproverava, nella sua più celebre opera « II mondo come volontà e rappresentazione », agli artisti tutti del Medioevo in genere la soggettività e l'arbitrio, cioè in una parola, la mancanza di significazioni universali o di universalità; ma non manca nel nostro secolo un Bertrand, che, pur ostile all'accademismo e sensibile alla beltà classica e al pittoresco del paesaggio e della arte, dichiarava, nel 1908, essergli la vista della chiesa bizantina della Gorgoepikoos, ai piedi dell'Erechteion e del Partenone, insopportabile: «...Questo sacro colombaio (pigeonnier sacré) m’è sempre sembrato un piccolo mostro rattrappito e sordido. I muratori che l'hanno costruito non hanno saputo nemmeno allineare gli architravi delle porte, hanno mutilato dei bassorilievi pagani per incastrarli nelle loro calcine ed hanno sciabolato di croci tutta una scena squisita di Baccanali!». Nella voce del Bertrand si riconosce però l'inconfondibile stile del decadentismo europeo: non altrimenti avrebbe sentito e parlato il D’Annunzio. Ma ecco come la stessa opera d'arte può essere giudicata secondo punti di vista diametralmente opposti: a proposito della chiesa che suscitava lo sdegno del Bertrand, così scrive invece il Michelis; «Un esempio tipico di grazia mista al sublime è la Gorgoepikoos di Atene... (in essa), in particolare, un certo senso della misura classica ha donato alla chiesa una grazia intensa, se non addirittura la bellezza. La seduzione che se ne sprigiona è in effetti talmente viva che il primo impulso è di qualificarla graziosa, non sublime. Il che è ben naturale, perché noi associamo all'idea di grandezza sublime una immagine di volume massiccio, mentre la grazia evoca una creazione piccola e leggera». E il Michelis, a proposito, ricorda il Bayer_; «La plastica della grazia (sc. nell'architettura) si compie su un'estetica di decomposizione... Essa s'impadronisce delle chiese bizantine».
Non è, questo, il momento di addentrarci in una discussione che necessariamente sarebbe troppo complessa, poiché dovremmo, per essa, rifarci ai primi principi dell'estetica, e alle categorie del bello, del sublime, del grazioso etc., se non forse, ancora più oltre, alla vexata quaestio, all'eterno problema dell'arte come espressione delle facoltà dello spirito: se l'arte sia intuizione, o espressione razionale (nella formula «tutto è pensiero») o, — come in pratica oggigiorno s'intende l'arte nelle concezioni più ardite, dove la forma è negativa -, espressione dell'irrazionale. Comunque il Michelis ha buon gioco allorché riconosce nell'arte bizantina (con la sua scomposizione delle forme, con l'indifferenza al brutto nei corpi e nei visi, anzi con la smaterializzazione dei corpi stessi) valori estetici pronti a rivivere nell'arte più moderna, a cui la bizantina indicherebbe la via della sublimazione e « la categoria estetica del sublime ». Certo, il nostro tempo, che ha negato tutti i principi classici dell'arte e si sente più vicino all'arte primitiva ed alle orientali che non all'arte classica, ha cominciato anche ad apprezzare l'arte bizantina più profondamente, cioè ad apprezzarla da un punto di vista estetico. «Giacché l'estetica dell'arte moderna, che cerca se stessa, non può trovare la via (aggiunge il Michelis) che nella direzione del sublime. La scienza rigetta ai nostri giorni tutti i suoi fondamenti puramente razionali ; le nozioni di spazio e di tempo assoluto si dissolvono e la filosofia tende verso l'esperienza d'una esistenza personale profonda oppure verso un essere trascendente ».
In realtà, c'è da obiettare che la nostra vita terrena ha per categorie principali il tempo e lo spazio: siano pure categorie relative all'uomo e non assolute forse in sé stesse, l'uomo non ne ha altre a disposizione per misurare e conoscere se stesso o la realtà di cui è parte. Quanto poi alle esperienze, siano esse filosofiche o di natura artistica, è pur vero che esse da un lato tendono ad esplorare i campi più profondi e remoti della psiche umana, gli strati della coscienza non illuminati dalla luce dell'intelletto, l'inconscio, il pa-ralogico, il subconscio e così via, mentre dall'altro tendono alla trascendenza: cioè, a ciò che è prima ed a ciò che è dopo la ragione. Ma, e nell'uno e nell'altro caso, si tratta di esperienze soprattutto individuali e peculiari, difficilmente comunicabili o addirittura sotto il segno della incomunicabilità. Il rifiuto della realtà interpretata e illuminata dalla ragione, mentre conduce nella filosofia all'esistenzialismo ed ai suoi derivati, nell'arte, col rifiuto della forma e di un contenuto intellegibile, produce un'arte informale appunto o astratta; nell'uno e nell'altro caso il particolare si sostituisce all'universale o, nel migliore dei casi, i rapporti sono invertiti. Che cosa ha in comune l'arte bizantina con l'arte moderna?
Il rifiuto....della forma e della realtà naturale. Proprio su questo punto, il Michelis si fonda per insinuare un legame tra le due espressioni, legame che se da un lato vale a nobilitare l'arte moderna, donandole una tradizione e principi lontani nel tempo, d'altro lato renderebbe l'arte bizantina non più conclusa in sé stessa, ma pregnante e feconda.

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