giovedì 27 dicembre 2007

Così per me ogni punto immobile e ogni punto in movimento diventavano vivi e mi manifestavano la loro anima " Kandinsky"

RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI

Kandinsky ha già trent'anni e sembra avviato a tutt'altra carriera quando, nel 1896, abbandona la Russia e si trasferisce a Monaco. I suoi ricordi tuttavia, testimoniati nello scritto "Sguardo al passato", torneranno sempre all'amata Mosca. Parlando di uno dei primi quadri dipinti, La città vecchia, afferma: "Mosca si fonde in questo sole in una macchia che mette in vibrazione il nostro intimo, l'anima intera, come una tuba impazzita" (W. Kandinsky, "Sguardo al passato", in Tutti gli scritti, a cura di P. Sers, vol. II, IV edizione, Feltrinelli, Milano 1989, p. 156). I primi tentativi di rendere pittoricamente il tramonto sulla città lo sconfortano; avverte la debolezza dei mezzi dell'arte rispetto alla natura. In seguito si renderà conto che i fini e i mezzi dei due regni sono "essenzialmente, organicamente e storicamente diversi, e ugualmente grandi. [...] Tutto ciò che era morto vibrava. [...] Così per me ogni punto immobile e ogni punto in movimento (linea) diventavano vivi e mi manifestavano la loro anima" (i
Queste considerazioni furono sufficienti a indicargli la possibilità di un'arte astratta e lo condussero alla fondazione di un linguaggio radicalmente nuovo. Prezioso fu l'incontro avvenuto tra il 1908 e il 1914 con artisti come Marc, Macke, Schönberg, Jawlenskij, che furono all'origine del movimento del Blaue Reiter. Il loro manifesto è un Almanacco che Kandinsky immagina come una grande sintesi di tutte le arti, che liberi dalle vecchie concezioni e faccia crollare le barriere divisorie, dimostrando che il problema dell'arte non è un problema di forma ma di contenuto artistico. Composto da articoli e recensioni di pittori, musicisti e critici, grazie all'estrema libertà intellettuale dimostrata dai suoi animatori, presenta come parte integrante illustrazioni dei grandi maestri del passato, accanto a opere dell'arte popolare e infantile, egiziana e orientale, affiancate agli innovatori del XX secolo, da Cézanne a Picasso.
È in questo contesto che prende forma Lo spirituale nell'arte (1912). Se "l'espressionismo nasce soprattutto dalla previsione terrificante di apocalissi cosmiche debolmente illuminate da vaghi sogni di una mistica rigenerazione", come sostiene L. Mittner, Lo Spirituale nell'arte, risente fortemente di quest'atmosfera. È una dichiarazione di poetica e un manuale di tecnica pittorica, una riflessione sullo stato delle arti e una profezia sull'arte del futuro. Pubblicato negli anni cruciali dell'evoluzione personale e pittorica di Kandinsky, è il risultato di osservazioni ed esperienze "nel campo della sensibilità" accumulate nel corso di diversi anni. La struttura è indicativa: suddiviso in una prima parte di Considerazioni di carattere generale e in una seconda dedicata alla pittura, si chiude con una breve Conclusione, le cui tesi sono esemplificate da illustrazioni di opere del passato e dello stesso Kandinsky. Un procedimento adottato anche nell'Almanacco del Cavaliere Azzurro per integrare costantemente la teoria con la pratica pittorica.
Nella prima parte Kandinsky si rivela figlio del suo tempo e protagonista dell'avanguardia, per l'ardore rivoluzionario, il desiderio di rottura con la tradizione, il tono misticheggiante. Egli crede nel progresso e nella crescita spirituale dell'umanità, sente che l'epoca dello spirito è alle porte; si sta sviluppando anche una nuova arte, che ha il compito profetico di annunciare la nuova era. Il tema centrale di queste Considerazioni è la vita dello spirito, il cui incessante movimento in avanti e verso l'alto è rappresentato da un triangolo acuto. Il progresso per Kandinsky si attua perciò in due direzioni: sul piano orizzontale, mondano e su quello verticale, nel movimento ascensionale. Il triangolo è suddiviso in sezioni e la base è occupata da tutti coloro che hanno fatto proprio il credo materialistico: atei, positivisti e naturalisti. Salendo nelle sezioni troviamo la città spirituale in trasformazione, scossa nelle sue fondamenta da forze incontrollabili. Al vertice, infine, vi è il dominio della certezza, rappresentato da quegli scienziati che non credono più nella solidità della materia e accettano le nuove teorie, come quella degli elettroni, e dai nuovi movimenti spirituali, in primo luogo la società teosofica.
La svolta spirituale è avvertita dapprima dalla letteratura, dalla musica e dall'arte. Alcuni rappresentanti della nuova ricerca dell'interiorità nell'esteriorità sono Maeterlinck per la poesia, Wagner, Debussy e Schönberg per la musica. In pittura il ricercatore della nuova legge della forma attraverso mezzi puri è Cézanne, cui seguono Matisse per il colore e Picasso per la forma. Ciò che li accomuna è la tensione verso il non naturale, l'astratto. Ciò significa che, non potendo più imitare il linguaggio della natura, gli artisti si confrontano con il materiale stesso della loro creazione: essi "pongono sulla bilancia spirituale il valore interiore degli elementi" (W. Kandinsky, Lo Spirituale nell'arte, in Tutti gli scritti, op. cit., vol. II, p. 89).
Questa scoperta conduce a un confronto tra i mezzi artistici delle varie discipline e si rivela fondamentale per l'artista che vuole esprimere il suo mondo interiore. La musica, la più immateriale fra le arti, ha già raggiunto lo scopo e alla pittura spetta ora l'analogo compito di indagare il ritmo e la costruzione astratta, tentando di applicarli in modo puramente pittorico alla creazione.
Nella seconda parte del saggio Kandinsky si propone l'analisi specifica degli elementi della pittura. Egli tenta di delineare l'orizzonte di possibilità di un nuovo linguaggio della visione, il cui vocabolario è costituito dal suono interiore dei due elementi pittorici puri, le forme e i colori, e il cui funzionamento è regolato dalle leggi psichiche della necessità interiore. Quest'ultimo principio è l'unica legge immutabile dell'arte ed è in grado di stabilire un contatto efficace con l'anima umana. La necessità interiore deve comunicare con l'interiorità che deve essere a sua volta portata ad espressione, agendo - attraverso l'artista - sullo spettatore. Essa è il prodotto di tre fattori: la personalità del singolo artista, lo stile della propria epoca e, infine, l'elemento dell'artisticità pura ed eterna, l'essenza dell'arte che non conosce spazio né tempo. Occorre penetrare con gli occhi dello spirito i primi due elementi, di natura soggettiva, per far emergere l'elemento oggettivo, quella forza che accomuna tutte le forme di espressione nel loro contenuto mistico.
Secondo Kandinsky vi è dunque una conoscenza della realtà in sé, che si manifesta attraverso la pratica artistica. L'arte può portare alla liberazione dalle catene del mondo delle apparenze, a favore dell'interiorità: è una liberazione dalle limitazioni spazio-temporali e dell'individualità, verso il luogo dello spirito. Soltanto rivolgendosi alla sua vita interiore, l'artista riesce a portare a espressione questa necessità. Egli ha perciò un compito specificamente etico: deve avere un contenuto da esprimere ed essere in grado di adattarlo a una forma sensibile.
Il nuovo problema dell'artista è costituito perciò dalla composizione. Con il tentativo di individuare le leggi della grammatica pittorica - secondo la teoria di Goethe di un basso continuo in pittura - Kandinsky muove i primi passi verso l'elaborazione teorica del linguaggio non figurativo. Il modello d'indagine gli è fornito dal suono musicale che ha un accesso diretto all'anima. Egli ritiene che una simile corrispondenza vi sia anche tra le forme e i colori da un lato, in quanto esseri spirituali che hanno un suono interiore, e l'anima umana dall'altro. Il nesso tra i due elementi instaura una relazione di tipo costitutivo: il colore non può esistere indipendentemente dalla forma che lo circoscrive, dando un involucro oggettivo a una sostanza soggettiva. La composizione è allora "una combinazione di forme grafiche e cromatiche che esistono autonomamente, sono tratte dalla necessità interiore e formano quel tutto che si chiama quadro" (ivi; p. 118).
Cominciamo dall'analisi della forma, che troverà la sua piena esplicitazione soltanto con la pubblicazione di Punto, linea, superficie nel 1926. Kandinsky definisce la forma secondo due punti di vista, che caratterizzano ogni elemento in generale: esteriormente, essa è la delimitazione di una superficie da parte di un'altra; inoltre, poiché ciò che è esteriore cela sempre un'interiorità, essa è l'esteriorizzazione di un contenuto interiore. Compito dell'artista è, toccando questo o quel tasto - questa o quella forma - mettere opportunamente in vibrazione l'anima umana. La varietà delle forme è infinita e si situa fra i due poli del figurativo e dell'astratto. Una rappresentazione interamente materiale, cioè un'arte mimetica, è però impensabile: l'artista è in ogni modo soggetto al suo occhio e alla sua mano, quand'anche egli cercasse soltanto una registrazione fotografica del dato. Egli deve perciò allontanarsi dalla colorazione "letteraria" dell'oggetto, ricercando fini puramente artistici: è la via verso la composizione. Questa comprende due aspetti: la composizione dell'intero quadro e quella delle singole forme, tra loro combinate e subordinate al tutto. Come esempio è citato il quadro di Cézanne Le bagnanti, dove la forma geometrica, il triangolo mistico, è il fine artistico espresso. Quanto alla creazione di forme isolate, bisogna tenere conto del variare della loro sonorità, in ragione del loro associarsi le une alle altre o del cambiamento di orientamento della forma stessa. La possibilità di un contrappunto grafico è data dalla flessibilità della singola forma, dalla sua variabilità nella direzione, dalle infinite combinazioni tra forme e gruppi di forme, dai principi di dissonanza e consonanza. In combinazione con il colore, avremo il grande contrappunto pittorico o composizione, che "in quanto arte veramente pura, si porrà al servizio del divino" (ivi; p. 103).
Il secondo elemento puramente pittorico, il colore, è una sorta di filo d'Arianna che permette a Kandinsky di penetrare nel labirinto dell'astrazione, almeno a livello intuitivo.
Tra i suoi primi ricordi vi sono soprattutto le impressioni cromatiche, come l'emozione provata davanti ai colori che, quando escono dal tubetto, sembrano esseri viventi, "viventi sostanze" - non a caso il sottotitolo del saggio doveva essere Il linguaggio dei colori. L'esperienza cui si richiama per determinarne il valore interiore è facilmente ripetibile. Si tratta di far scorrere lo sguardo su una tavolozza colorata per osservarne gli effetti. Questi sono di due tipi: si può avere un'impressione meramente fisica e superficiale, di breve durata, che scompare quando lo stimolo viene meno; oppure un effetto psichico, un'azione più profonda che provoca una vibrazione spirituale: è la via che conduce il colore all'anima. "Il colore è il tasto, l'occhio il martelletto, l'anima è il pianoforte dalle molte corde" (ivi; p. 96), l'artista è la mano che toccando questo o quel tasto mette in vibrazione l'anima umana. Il colore possiede una forte carica emotiva e pertanto va considerato dapprima isolatamente. L'analisi è condotta su un duplice piano, la teoria e la sua esemplificazione attraverso tre tavole grafiche. Viene messa in luce una vera e propria dinamica cromatica - che corrisponde all'ipotesi di un itinerario di conoscenza insito nella dimensione artistica - basata su quattro contrasti di otto colori.
Ogni colore viene colto attraverso la sua risonanza interna, la funzione psichica di base, la posizione occupata nella genesi dell'ordine dei colori e il suo significato spirituale; ma anche in assonanza con stati d'animo, oggetti, suono di strumenti musicali. Così, per esempio, del giallo leggiamo che è il tipico colore terreno ed è rappresentazione cromatica della follia, mentre il blu ci appare come il colore del cielo, che rimanda alla profondità, che richiama l'uomo verso l'infinito e che assomiglia al suono del violoncello.
Queste considerazioni si legano del resto ad un tentativo di esposizione del sistema cromatico fondato su una serie di interne polarità che si esprimono in coppie di colori contrapposti. Le prime due forme di contrasto hanno luogo tra le polarità caldo-freddo e chiaro-scuro; a ogni colore corrisponderanno dunque quattro differenti sonorità. La polarità cromatica caldo-freddo si esprime in un'inclinazione verso il giallo o il blu, e quindi, dal punto di vista espressivo, verso la materialità o l'immaterialità. Vi è un duplice movimento: vi è - sul piano orizzontale - un approssimarsi allo spettatore per i colori caldi e un allontanarsi da lui per i colori freddi, ma vi è anche un movimento eccentrico o concentrico - un cerchio giallo, a differenza di uno blu, ha infatti la proprietà di irraggiarsi verso lo spettatore.
Bianco e nero costituiscono il secondo contrasto, l'inclinazione del colore verso il chiaro o lo scuro. Il movimento verso lo spettatore permane, anche se ridotto a una mera potenzialità. Il contrasto in questione rappresenta così i poli o limiti del movimento stesso: il bianco è simbolo di un mondo in cui tutti i colori sono scomparsi, dove regna un gran silenzio, e tuttavia vi è la possibilità della rinascita; il nero invece è un nulla privo di possibilità, silenzio eterno.
Nella terza tavola vengono infine riassunti tutti i colori in un cerchio formato da coppie bipolari, come un grande serpente che si morde la coda, che rappresenta la vita dei colori tra la nascita (bianco) e la morte (nero). Osservando l'illustrazione di copertina del saggio, vediamo un'allusione alla città spirituale descritta nel capitolo sul triangolo, quando Kandinsky si chiede: "se il sole presenta macchie e si oscura, dove trovare qualcosa che lo sostituisca nella lotta contro le tenebre?" (ivi; p. 81). La risposta a questo interrogativo può trovarsi in questo nuovo sole costituito dalla gamma dei colori, la cui genesi è simile al movimento di vita e morte dell'astro. La teoria dei colori propone allora un itinerario dell'anima che, partendo dalla natura fisica, ci conduce per tappe successive alla partecipazione con il divino. Blu e giallo indicano lo spazio della progressione, dalla terra al cielo, mentre il bianco e il nero alludono al tempo in cui quel cammino si scandisce. L'armonia cromatica, nell'attuale epoca tormentata, non può che nascere dal principio del contrasto, dalla lotta dei toni, dalle contraddizioni - così nelle Madonne dell'arte sacra il contrasto tra rosso della tunica e manto blu esprime la grazia celeste inviata agli uomini, l'umano ricoperto dal divino.
Nella Conclusione Kandinsky commenta le otto riproduzioni allegate, dividendole in due gruppi: le composizioni melodiche, subordinate a una forma semplice, e quelle sinfoniche, dove forme complesse sono subordinate a una principale. Poi vi sono forme di transizione, come nella musica. Alla base delle prime si trovano forme geometriche elementari o linee semplici orientate verso un movimento generale, come i mosaici di Ravenna. Le icone russe sono invece esempi di composizioni ritmiche complesse con un accenno al principio sinfonico. Esempi di nuove composizioni sinfoniche sono infine tre quadri di Kandinsky: Impressione V, Improvvisazione 18 e Composizione II.
Di Francesca Molteni -

mercoledì 26 dicembre 2007

I poeti della commedia "antica"

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
(liberamente tratto da testi vari)

Secondo Aristotele i primi comici ateniesi furono Chionide e Magnete, delle cui opere ci resta ben poco. Comunque sappiamo che consistevano probabilmente in prevalenza di parti corali inframmezzate da scene legate da un sottile filo conduttore.

Cratete fu il primo a costruire una commedia con un vero filo conduttore. Conosciamo, fra le altre, una sua commedia intitolata Bestie, in cui veniva descritta la vita semplice vista come un'utopia in cui l'uomo riceveva dalla natura tutto ciò di cui aveva bisogno, gli attrezzi lavoravano da soli e i pesci si cucinavano da soli, mentre un coro di animali celebrava la cucina vegetariana.

Ma il pubblico ateniese, alla semplicità di Cratete preferiva la polemica e i temi attuali di Ferecrate, della generazione successiva a Cratete. Il tema di fondo è sempre la comicità d'evasione e di fantasia, ma è posta in un ambiente diverso, si parla di civiltà, di regge... Comunque Ferecrate è famoso soprattutto per la purezza della lingua.
Colui che condusse alla pienezza la commedia attica fu Cratino, la cui attività inizia con la seconda generazione dei comici (contemporaneo di Ferecrate). Abbiamo vari frammenti ma di un papiro riusciamo a ricostruire la storia. Si tratta di Dionisalessandro: Dioniso, travestito da Alessandro (Paride), giudica il concorso di bellezza tra le tre dee facendo vincere Afrodite. Rapisce Elena ma, sorpreso, la camuffa da oca e la nasconde in una cesta, trasformandosi a sua volta in un montone, ma veniva ugualmente scoperto da Paride. La commedia è attualissima, perché dietro le figure di Dioniso e Elena si nascondono Pericle e Aspasia, poiché Pericle era stato accusato di aver scatenato la guerra del Peloponneso per i suoi amori. Pericle viene spesso preso in giro da Cratino che lo beffeggia una volta per la testa a forma di cipolla.

Ma Cratino non ci parla solo di Pericle. Il suo capolavoro si intitola la Bottiglia: nei Cavalieri Aristofane, rivale ma anche ammiratore di Cratino (poiché da lui riprende molti temi), celebra il vigore giovanile del rivale che abbatteva con impeto ogni avversario, mentre ora si era ridotto ad essere un vecchio ubriacone passato di moda. Cratino risponde con grande fantasia, fingendo di essere stato chiamato in giudizio da sua moglie Commedia che lo accusava di averla abbandonata per Bottiglia: ma Cratino risponde con una lunga orazione in cui dice di non aver mai trascurato Commedia, mentre Bottiglia è un dono offertogli dal dio della commedia per sostentare la sua creazione, perché "il bevitore d'acqua non crea mai cose belle". Dopo la sua morte, Cratino verrà denominato da Aristofane "sbranatore del toro", un epiteto di Dioniso, attraverso il quale viene celebrata la sua divinizzazione e il furore della sua poesia.

Contemporaneo di Aristofane e suo maggior rivale fu Eupoli, appartenente alla terza generazione di comici. Composte 14 commedie e per la metà vinse un premio. Dapprima era amico di Aristofane, ma poi si accusarono a vicenda di plagio e litigarono. Con Eupoli la commedia esalta il suo carattere battagliero contro la prevaricazione del potere politico e la degenerazione in cui la città era trascinata dai demagoghi: nei Battezzatori si accusava Alcibiade di aver partecipato al culto orgiastico della dea Cotitto; nella Città si denunciava lo sfruttamento da parte di Atene delle città alleate. La più importante opera sono i Demi, densa di amarezza patriottica ma anche di speranza. La salvezza si trova solo nell'oltretomba e il buon governo è vivo solo nel ricordo.

Alcune commedie di Aristofane

Acarnesi: il contadino Diceopoli vorrebbe che in assemblea si discutesse della pace e non si facessero buoni affari con la guerra. Poiché nessuno lo ascolta decide di stipulare un accordo di pace personale di 30 anni con Sparta, azione vista come un tradimento. Ma Diceopoli riesce a convincere coloro che lo accusano alla causa della pace e apre un mercato libero al quale accorrono tutti i venditori della Grecia. Rimpilzatosi di leccornie, Diceopoli si reca ad un banchetto di una festa, mentre il guerrafondaio Lamaco parte per la guerra: nella scena finale sono contrapposte le immagini di Lamaco ferito e sorretto dai compagni e quella di Diceopoli ubriaco sorretto da due ragazze.

Cavalieri: è un attacco contro Cleone, uomo politico odiatissimo da Aristofane, rappresentato sotto le spoglie dello schiavo Paflagone, che con varie astuzie si è assicurato il favore del padrone (cioè il popolo). Altri due servi (tra cui anche uno che raffigura Demostene) ricorrono ad un Salsicciaio, ignorante e privo di freni morali, che si impone su Paflagone e ottiene al suo posto il favore del padrone. Nell'ultima scena viene esaltato Demos, che ora appare ringiovanito.

Nuvole: il contadino Strepsiade ha sposato una donna di alto rango e ne ha avuto un figlio, che però non ha freno nello spendere. Ossessionato dai debitori, Strepsiade vorrebbe imparare da Socrate e dai suoi discepoli assistiti dalle Nuvole (il coro) l'arte di truffare, ma non impara nulla. Per cui manda suo figlio Fidippide a imparare, ma questi è talmente bravo che in una lite con il padre finisce per bastonarlo e lo convince che i figli hanno il diritto di bastonare i genitori. Accortosi dell'errore che ha fatto, Strepsiade corre ad incendiare il Pensatoio di Socrate.

Vespe: le vespe, interpretate dal coro, rappresentano l'irascibilità dei politici e la litigiosità del popolo ateniese. Il vecchio Filocleone (cioè ammiratore di Cleone) è ossessionato dai processi e li vuole vedere tutti quanti. Per farlo restare un po' a casa, suo figlio Bdelicleone (cioè odiatore di Cleone) lo rinchiude in casa, mostrandogli l'assurdità del suo comportamento. Per calmare il vecchio che vuole fuggire in tribunale, Bdelicleone può solo improvvisare una causa contro un cane, dopodiché incita il padre a frequentare gente diversa. Ma in un banchetto il vecchio si comporta orribilmente, portandosi via una flautista e provocando zuffe e disastri.

Pace: il vignaiolo Trigeo sale all'Olimpo per chiedere a Zeus quando ristabilirà la pace per i Greci. Ma al suo posto trova Ermes, che dice che Zeus e tutti gli dei se ne sono andati disgustati dal comportamento dei greci, ed è rimasto solo Polemos, dio della guerra, che ha imprigionato Eirene, la dea della pace e vuole mettere tutte le città della Grecia in un mortaio e ridurle in poltiglia. In un momento di distrazione di Polemos, Trigeo chiama tutti i Greci (il coro) per liberare la dea: ci riescono ed Eirene, accompagnata dalla dea dell'abbondanza e da quella della festa, porta la pace e la felicità ai Greci.

Uccelli: due vecchi Ateniesi, Pisetero e Evelpide, disgustati dal comportamento dei cittadini, chiedono consiglio ad Upupa, che un tempo era stato il re Tereo. Insoddisfatto dei consigli dell'uccello, Pisetero decide di fondare nel cielo un regno degli uccelli riducendo così alla fame gli dei e Zeus, costringendolo a cedergli il suo potere. Il coro, formato dagli Uccelli, è d'accordo. Gli uomini perdono fiducia negli dei tradizionali che, alla fame, vengono ai patti: Pisetero, signore degli Uccelli, ha il diritto di succedere a Zeus.

Tesmoforiazuse: Euripide viene a sapere che le donne, da lui spesso calunniate nelle tragedie, hanno deciso di vendicarsi in occasione delle Tesmoforie, una festa femminile. Per questo decide di mandare una spia da loro: vorrebbe mandare un suo amico effemminato, ma questo non si lascia convincere costringendo Euripide a ripiegare sul suo amico Mnesiloco, che però prende a calunniare i vizi delle donne proprio davanti a loro ed è scoperto. Nella seconda parte dell'opera vengono descritti vari tentativi di Euripide di liberare il suo amico, finché non riesce a sedurre la guardia grazie ad una prostituta, aiutato dal coro a cui aveva promesso di non calunniare più le donne.

Lisistrata: l'ateniese Lisistrata, stanca della guerra, convince tutte le donne di Atene a non fare più l'amore con i mariti finché non sarà tornata la pace, e per di più nasconde il tesoro dello Stato necessario per la guerra. Forte è la contrapposizione tra i due cori (donne e vecchi di Atene) e fra Lisistrata e il funzionario che deve ritirare i soldi. Alla fine torna la pace e si festeggia.

Rane: Dioniso ha deciso di scendere nell'Ade per riportare sulla terra Euripide, che ha lasciato vuota la scena della tragedia. Travestitosi da Eracle compie il viaggio, infastidito dal rumore delle Rane (il secondo coro). Il travestimento gli crea non pochi problemi. Giunto a destinazione si trova di fronte ad una disputa di cui diventa giudice fra Eschilo ed Euripide, che vogliono entrambi ottenere il titolo di poeta massimo dell'Ade. Dopo molte incertezze, Dioniso sceglie Eschilo per l'impegno politico e civile.

Ecclesiazuse: le donne, insoddisfatte del governo maschile, si introducono travestite all'assemblea, guidate da Prassagora, per far passare proposte rivoluzionarie, tra cui quella di mettere tutti i beni in comune. Nella scena successiva vengono descritti gli esiti di questa proposta: alcuni tengono fede all'impegno, altri invece no. Buffa è la proposta che un giovane non possa fare l'amore con una ragazza se prima non ha soddisfatto una vecchia, per cui nella scena finale si vedono tre megere che si contendono i favori di un bel ragazzo.

Pluto: il vecchio Cremilo è andato a consultare l'oracolo di Apollo a Delfi, e gli è stato ordinato di ospitare in casa la prima persona incontrata davanti al tempio: è Plauto, il dio della ricchezza, la cui cecità crea le ingiustizie a riguardo sulla terra. Portato in un tempio, Plauto guarisce e la ricchezza viene distribuita equamente. Lo stesso Zeus è costernato perché gli uomini non offrono più sacrifici agli dei. Cremilo, visti gli inconvenienti, decide di insediare il dio nel tempio di Atena.

PITTURA E FUTURO

RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI

Molte interpretazioni sono state proposte sull’idea di futuro, quella su cui vale la pena di insistere scaturisce dall’esigenza di valutare come può essere immaginato il domani da parte degli artisti che ne hanno fatto la storia e continuano a sostenere il ruolo del dipingere ininterrottamente, nella misura in cui la realtà del presente lo rende possibile. La maggior parte degli autori invitati a questa edizione del Premio Suzzara ha iniziato l’attività negli anni Cinquanta del secolo scorso, alcuni fin dagli anni Quaranta, altri nella prima metà degli anni Sessanta.
Le identità espressive della pittura italiana sono testimoniate nell’ampia gamma di linguaggi e di
variazioni tematiche che hanno delineato stagione dopo stagione le diverse anime del colore,
come forme di sensibilità libere dai dogmi della rappresentazione tradizionale e, nello stesso
tempo, capaci di riutilizzarne gli aspetti più problematici. Nei vari dibattiti a cui si è assistito negli ultimi vent’anni si è soliti gettare la croce addosso alla pittura per il fatto che il suo ventaglio di stili sembra non essere più in grado di produrre svolte linguistiche, qualcosa di veramente nuovo, differente dai codici esistenti. Il significato di questi autori non sta nel fatto di voler essere innovatori a tutti i costi, di assecondare le trasgressioni del linguaggio come ossessiva
ricerca del nuovo, non a caso la mitologia dell’artista d’avanguardia è poco sentita dai pittori in
questione. Più profonda è la necessità di comunicare il desiderio di affinità elettiva con la pittura
come genesi infinita, più felice è la sensazione di dipingere al di sopra di tutte le forme memorizzate, di sentirsi parte di una genealogia di anime creative la cui unica morale è fare arte senza al cuna alternativa: non sapremo mai che cosa avrebbero potuto fare di diverso.
Questo tipo di approccio ha scatenato una serie di perplessità intorno alla figura del pittore custo-de di una tradizione nella quale egli vive e dipinge e, al tempo stesso, orgoglioso di esibire un
comportamento creativo che progetta il futuro con lo stesso ardore con cui guarda il passato.
Se la pittura è considerata un linguaggio dalle conseguenze prevedibili le sue pratiche e le sue
idee non lo sono affatto, basta considerare le vie aperte verso la sperimentazione delle materie cromatiche. Basta osservare le avventure del segno dentro e fuori i codici figurali delle forme, le lacerazioni e le ricomposizioni della trama pittorica, l’ordine geometrico e la disgregazione dei pigmenti, la metafisica dei colori quotidiani e l’enigma della visione fuori del tempo, i movimenti azzardati del gesto e la costruzione fisica della luce che si espande nel suo infinito rivelarsi.
A voler giocare nel giardino degli stili incontriamo modulazioni geometriche di forme in bilico tra
punti vicini e lontani, rapporti e misure che si perdono nelle vibrazioni del segno. Incontriamo colori che si rincorrono nelle geografie immaginarie della città, allucinazioni che scaturiscono da pa-saggi surreali ed echi di nature perdute dove ombre notturne svaniscono alla luce del mattino.
Si tratta di prefigurazioni della memoria, presagi di un futuro senza destinazione, nodi d’intersezione fantastica, disgregate grafie del tempo quotidiano, precipizi enigmatici dove lo sguardo è affascinato dal mistero della materia dissociata in mille rivoli oppure dispersa da energie che galleggiano nel vuoto, dalla forza imponderabile dei segni che slittano dai percorsi stabiliti. Il repertorio delle forme dipinte equivale agli stili di vita dei pittori, l’orizzonte di questa mostra è al tempo stesso sguardo sulla storia del passato e calibrata messa a punto del presente, in una durata che contiene in sé le tracce del futuro, gli intrecci che sono tanto più vitali quanto più le immagini si assottigliano. Le opere dipinte in questi primi anni del nuovo millennio, sono la memoria viva delle mosse disposte sulla scacchiera del secondo 900, ma sono anche l’attuale rispondenza ad una militanza della pittura che non rinuncia a stare dentro il flusso delle forme possibili. L’aspetto sorprendente è l’entusiasmo che ancora provano questi pittori di lungo corso, il loro desiderio di giocare in modo magistrale con la materia sensuale del colore, come se il tempo dedicato alla pittura non avesse già suscitato sufficienti emozioni, pensieri, riflessioni.
Come se tutto dovesse essere di nuovo sul punto di affiorare dalla logica misteriosa e complessa
che la pittura tiene in sé, dilatando le profondità dell’evento creativo in cui si aprono spiragli im-provvisi, bagliori visionari, ma anche abissi dove l’artista ritrova pensieri più imprevedibili di quelli
che le ragioni della storia contemplano. Per questo il futuro è ciò che della tradizione ha
la forza di sopravvivere, di continuare ad essere energia viva, vera presenza senza menzogne,
estranea all’indolenza dei calcoli linguistici, alla rappresentazione inanimata della comunicazione. Nel caso della pittura il futuro della tradizione è continuare a pensare lo spazio come luogo per possedere il colore, per cercare i fantasmi del segno, per creare equilibri nei movimenti tellurici del sogno, non per sudditanza a principi teorici ma come adesione alla pittura in atto. Il concetto astratto di futuro diventa allora un filtro tangibile per cogliere la qualità della ricerca pittorica nel cammino sempre aperto del colore, i pittori già lo sanno, bisogna che se ne ricordi anche il pubblico, per poter godere di quelle energie non ancora esplorate che sono il fondamento interiore dell’arte di fronte all’universo instabile del visibile.
DI Claudio Cerritelli

PITTURA E IMMAGINAZIONE

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

La questione della pittura è raramente legata alle ideologie avanguardistiche, non si confronta con il concetto evolutivo dell’innovazione ma intende dialogare con tutto il corpo dei linguaggi pittorici esistenti, esprimendo semmai l’esigenza di seguire nuove motivazioni e nuove intenzioni. Non è dunque questione di astratto e di figurativo ma di materia visibile, di materia vivente dove non ci sono soluzioni ma solo processi di sconfinamento e di avvicinamento verso l’altrove, verso altre tentazioni, altre tensioni che caricano la pittura d’azione e di emozione. I propositi programmatici non servono, il colloquio tra opera e spettatore si costruisce volta per volta, come possibilità del lettore di entrare nel dinamismo segreto dell’evento creativo. Le idee e i sentimenti racchiusi nella superficie sono presenza tattile e fisica, una vera presenza di sensi pittorici che si trasmettono al corpo-mente dello spettatore che, assumendo il punto di vista del pittore, speri-menta la propria capacità di sentire l’immagine. Cosi’ evita di ridurre il senso dell’opera ad una
serie di dogmi che esprimono situazioni chiuse, incapaci di verificare le tensioni conoscitive del
fare, senza possibilità di coltivare uno sguardo in bilico tra memoria e immaginazione. La dialettica tra memoria e immaginazione è necessaria per costruire un terreno di lettura dove i
nutrimenti del passato contribuiscono a costruire un territorio mobile dove l’immaginazione inventa nuovi modi di cogliere la materia dei sogni pittorici. La lettura si apre nei confronti del colore come 11 evento materialistico e insieme immaginativo, si tratta di una sorta di immaginazione materiale in grado di sconfinare dalle sue stesse procedure, in presenza del loro esercizio fisico. Questo atteggiamento si rafforza soprattutto nei casi in cui la pittura pretende di essere se stessa senza funzioni illusorie, illusive, illudenti, presentandosi nella sua nuda e cruda realtà di linguaggio possibile, alle prese con le infinite possibilità dello sguardo. Quello che bisogna cogliere è la diversa identità del colore, l’origine e il destino della sua messa in opera e, soprattutto, è necessario leggere la pittura come esperienza non confrontabile con la questione
della letteratura, della psicanalisi, della sociologia. E’ infatti riferibile solo al dipingere e dipingere significa porsi in una discontinuità, in un processo mai uguale a se stesso, in una situazione dove il fluire delle immagini si costruisce e si decostruisce continuamente. La pittura non è intesa come un linguaggio persuasivo, è un’etica dello sguardo che si rivolge agli stupori dell’immagine, all’incanto che va svelato volta per volta, sollecitato al di fuori di ogni regola stilistica. Non esiste uno stile in cui il corpo della pittura può identificarsi ma esiste un insieme di movimenti slittanti, di ipotesi a venire, di eventi provvisori e possibili, in cui la pittura riconosce la persistenza di molteplici vie verso le fonti del colore. Ben sapendo che il futuro che l’artista ha alle spalle ( la cosiddetta tradizione del nuovo) è un canto sospeso che continua a valere attraverso l’impegno del dipingere. Si tratta allora di conoscere senza pregiudizi le opere di questi pittori che amano la tradizione, di questi sognatori che abitano la dimora della pittura senza curarsi dei clamori esteriori, pittura come luogo di ritrovamento degli occhi, la cui capacità è purtroppo distratta, spesso spenta quando non addirittura accecata da falsi miti linguistici.
Per questa intima passione nei confronti della pura sensibilità cromatica i pittori esplorano il pre-sente come fonte di nuove visioni, come storia e attualità indivisibili, con vocazione autentica di testimoniare in modo poetico il futuro possibile attraverso le dismisure dell’immaginazione.
DI Claudio Cerritelli

Alberto Giacometti "SCULTORE

RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI

Alberto Giacometti (Borgonovo di Stampa, 10 ottobre 1901 – Coira, 11 gennaio 1966) è stato un pittore e scultore svizzero.
Figlio del pittore postimpressionista Giovanni Giacometti e di Annetta Stampa, cominciò a disegnare, a dipingere e a scolpire assai giovane.
Dopo aver frequentato la Scuola di arti e di mestieri di Ginevra (1919) si iscrisse a Parigi ai corsi di scultura di Émile-Antoine Bourdelle, all'Accademia della Grande Chaumière (1922). Disparate esperienze culturali orientarono in direzioni diverse la sua operatività di questi anni. Lo testimoniano i suoi disegni, caretterizzati dalla frantumazione cubista, analitica, di ogni dettaglio, e sculture.
Ne sono esempi Torso (1925, Zurigo, Kunsthaus) e Donna cucchiaio (Zurigo, Kunsthaus) che, sulla base di un lavoro di memoria, intendono portare alla luce l'essenza concettuale delle cose.
Nel 1928 Giacometti entrò a far parte del gruppo surrealista (con cui ruppe nel 1935, pur partecipando alle mostre fino al 1938). In questo periodo, sul lavoro a memoria prevalgono l'immaginazione e, spesso, l'inconscio, che conducono Giacometti alla creazione di sculture assai importanti per l'idea surrealista di oggetto a funzionamento simbolico: Uomo e donna , Parigi), e Boule pendu (Sfera sospesa, 1930, Zurigo, Kunsthaus). Quest'ultima, una forma sferica oscillante che sfiora una mezza luna allungata dentro un'ingabbiatura di ferro, introduce il problema dello spazio e della sua delimitazione, che da allora si precisa come una costante della ricerca estetica di Giacometti.
Nelle sculture dei primi anni '30 ricorrono alcuni elementi che ni costituiscono la chiave interpretativa: allusioni a parti anatomiche e organi sessuali, posti in dialettico rapporto con le strutture lineari e geometriche entro cui sono inseriti (Gabbia, 1931, Stoccolma, Moderna Museet; Palazzo alle 4 del mattino, . New York, The Museum of Modern Art).
Il ricorso alla Gabbia pone l'idea della scultura come costruzione trasparente, corrispondente plastico dello spazio illusionistico della pittura. La stessa tematica e gli stessi elementi chiave compaiono nei disegni di Oggetti mobili e muti (1931), forme inquietanti in quanto difficilmente identificabili, come scrive lo stesso Giacometti. La sua opera degli anni successivi tende a chiudere la parentesi surrealista.
L'oggetto invisibile New York) rappresenta un punto di riferimento: il parallelepipedo su cui poggia la donna e l'incastellatura alle sue spalle prefigurano la strutturazione di molte sue opere pittoriche successive, nelle quali ricompare la stessa delimitazione dello spazio a inquadrare le immagini. Nel decennio egli lavora appartato occupandosi ancora prevalentemente di scultura.

Il suo interesse si sposta dal mito e dal sogno all'osservazione diretta della realtà, che si accompagna a una più consapevole preoccapazione per i materiali e le tecniche e implica una notevole trasformazione stilistica che lo conduce ad una sorta di naturismo schematico (Le mele sul buffet, 1937, New York).
Dal 1947 riprende a dipingere e disegnare intensamente, continuando a lavorare dal vero. I temi preferiti, pochi e di continuo rivisitati, sono i familiari (la madre e il fratello Diego), gli oggetti che lo circondano, paesaggi visti e vissuti. Le figure sono fisse, immobili rigidamente frontali: la conrice che Giacometti costruisce attorno ad esse ha la funzione di allontanarle isolandole dallo spazio, creando attorno ad esse vuoto.
Giacometti è vicino alle problematiche esistenzialistiche; non a caso della sua pittura è stato interprete attento Sartre, che ne ha colto i riferimenti all'incaccessibilità degli oggetti e delle distanze esistenti tra gli uomini. Lo strumento stilistico scelto per tradurre in immagini le apparenze della realtà visibile è, in pittura, un segno che si infittisce e si dirada per esprimere la trama di realzioni degli oggetti fra loro e con loro nello spazio circostante, mentre in scultura grumi di materia apparentemente informi si coagulano lungo fondamentali linee di forza.



'Woman of Venice (II)', painted bronze sculpture by Alberto Giacometti, 1956, Metropolitan Museum of Art

domenica 23 dicembre 2007

Le nuove categorie estetiche: il pittoresco e il sublime

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
(liberamente tratto da testi vari)

La categoria estetica del neoclassicismo è stata sempre e solo una: il bello. Il bello è qualcosa che deve ispirare sensazioni estetiche piacevoli, gradevoli, e per far ciò deve nascere dalla perfezione delle forme, dalla loro armonia, regolarità, equilibrio, eccetera. Il bello, già dalle sue prime formulazioni teoriche presso gli antichi greci, conserva al suo fondo una regolarità geometrica che è il frutto della capacità umana di immaginare e realizzare forme perfette. Pertanto, nella concezione propriamente neoclassica, il bello è la qualità specifica dell'operare umano. La natura non produce il bello, ma produce immagini che possono ispirare due sentimenti fondamentali: il pittoresco o il sublime. Il sublime conosce la sua prima definizione teorica grazie a E. Burke, nel 1756, con un saggio dal titolo: Ricerca filosofica sulla origine delle idee del sublime e del bello. Burke considera il bello e il sublime tra loro opposti. Il sublime non nasce dal piacere della misura e della forma bella, né dalla contemplazione disinteressata dell'oggetto, ma ha la sua radice nei sentimenti di paura e di orrore suscitati dall'infinito, dalla dismisura, da "tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili" (per es. il vuoto, l'oscurità, la solitudine, il silenzio, ecc.; riprendendo questi esempi Immanuel Kant dirà: sono sublimi le alte querce e belle le aiuole; la notte è sublime, il giorno è bello). Immanuel Kant approfondisce il significato del sublime. Il sublime non deriva, come il bello, dal libero gioco tra sensibilità e intelletto, ma dal conflitto tra sensibilità e ragione. Si ha pertanto quel sentimento misto di sgomento e di piacere che è determinato sia dall'assolutamente grande e incommensurabile (la serie infinita dei numeri o l'illimitatezza del tempo e dello spazio: sublime matematico), sia dallo spettacolo dei grandi sconvolgimenti e fenomeni naturali che suscitano nell'uomo il senso della sua fragilità e finitezza (sublime dinamico). Il pittoresco è una categoria estetica che trova la sua prima formulazione solo alla fine del Settecento grazie ad U. Price, che nel 1792 scrisse: Un saggio sul pittoresco, paragonato al sublime e al bello. Tuttavia la sua prima comparsa nel panorama artistico è rintracciabile già agli inizi del Settecento, soprattutto nella pittura inglese, e poi nel rococò francese. Il pittoresco rifiuta la precisione delle geometrie regolari per ritrovare la sensazione gradevole nella irregolarità e nel disordine spontaneo della natura. Il pittoresco è la categoria estetica dei paesaggi. Tutta la pittura romantica di paesaggio conserva questa caratteristica. Essa, nel corso del Settecento, ispirò anche il giardinaggio, facendo nascere il cosiddetto giardino "all'inglese". L'arte del giardinaggio, nel corso del rinascimento e del barocco, aveva prodotto il giardino "all'italiana", ossia una composizione di elementi vegetali (alberi, siepi, aiuole) e artificiali (vialetti, scalinate, panchine, padiglioni, gazebo) ordinati secondo figure geometriche e regolari. Il giardino "all'inglese" rifiuta invece la regolarità geometrica e dispone ogni cosa in un'apparente casualità. Divengono elementi caratteristici di questo tipo di giardino: i vialetti tortuosi, i dislivelli, le pendenze, la disposizione irregolare degli arbusti. Ed un altro elemento caratteristico del giardino "all'inglese" è la falsa rovina. Il sentimento della rovina è tipico della poetica romantica. Le rovine ispirano la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall'uomo, dando allo spettatore la commozione del tempo che passa. Le testimonianze delle civiltà passate, pur se vengono aggredite dalla corrosione del tempo, rimangono comunque presenti in questi rovine del passato. E la rovina, per lo spirito romantico, è più emozionante e piacevole di un edificio, o di un manufatto, intero. Ovviamente, nell'arte del giardinaggio, pur in mancanza di rovine autentiche, ci si accontentava di false rovine. Ossia di copie di edifici o statue del passato riprodotte allo stato cadente.

Pittura

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI


La pittura nel periodo gotico manifestò un sentito scarto rispetto alle altre arti arrivando a un rinnovamento, tramite la scuola italiana, in particolare toscana, solo nella seconda metà del XIII secolo e bruciando velocemente le tappe per arrivare a un livello di rinnovamento artistico pari a quelli di scultura e pittura solo alla fine del XIII secolo con gli affreschi di Giotto. I motivi di questo ritardo possono essere legati ai modelli diversi che pittura e scultura ebbero: in epoca romanica la scultura si era già rinnovata, riscoprendo in alcuni casi anche le opere della classicità ancora esistenti, mentre per la pittura l'unico modello di riferimento era la scuola bizantina, senza tracce di pitture più antiche (i rari esempi di opere pittoriche dell'antichità risalgono tutti a scoperte successive al XVI secolo).
Con la conquista di Costantinopoli durante la quarta crociata (1204) e con la formazione dei Regni latini d'Oriente, il flusso di opere bizantine si era addirittura infittito. Nella seconda metà del Duecento, all'epoca di Nicola Pisano lo scollamento tra vivacità narrativa, resa naturalistica e forza espressiva tra scultura e pittura è veramente al culmine, con i pittori disarmati di fronte alle straordinarie novità. Nel giro di due generazioni però i pittori seppero bruciare le tappe, rinnovando modelli e linguaggio, fino a arrivare anche nelle arti pittoriche a storie coinvolgenti con figure credibili e ambientazioni architettoniche o paesistiche verosimili.
La pittura ebbe anche il vantaggio di una committenza più ampia, per via dei costi decisamente più economici.
Dal romanico la pittura, specialmente in Italia centrale, aveva ereditato la diffusione delle tavole dipinte, appoggiate dagli ordini mendicanti per la loro pratica trasportabilità. I principali soggetti non sono molti: Crocifissi, speso appesi al termine delle navate delle chiese per suscitare la commozione dei fedeli; 
Madonne col Bambino, simboli dell'Ecclesia e simbolo di un rapporto madre/figlio che umanizza la religione; 
Raffigurazioni di santi, tra i quali spiccano le nuove iconografie legate alla figura di San Francesco d'Assisi. 
Tra i maestri del Duecento ci furono Berlinghiero Berlinghieri e Margaritone d'Arezzo, entrambi ancora pienamente bizantini, ma che iniziano a mostrare alcuni caratteri tipicamente occidentali. In seguito Giunta Pisano arrivò al limite delle possibilità dell'arte bizantina, sfiorando la creazione di uno stile tipicamente "italiano". Questo limite venne superato da Cimabue, il primo, secondo anche Giorgio Vasari che si discostò dalla "scabrosa goffa e ordinaria maniera greca". Nel cantiere della basilica superiore di Assisi si formò infine un nuovo stile occidentale moderno, con i celebri affreschi attribuiti a Giotto. Oltre alla scuola giottesca (Taddeo Gaddi, Giottino, il Maestro della Santa Cecilia, Maso di Banco, ecc.) ebbe in seguito grande importanza anche la scuola senese con maestri quali Duccio di Buoninsegna, Pietro e Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini. Riscoperta piuttosto recente è anche l'importanza della scuola romana con Pietro Cavallini, Jacopo Torriti e altri. Personalità più indipendenti furono Buonamico Buffalmacco o Vitale da Bologna.


SCUOLA DI BARBIZON

RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI



 
La Scuola di Barbizon, che prende il nome dall'omonimo villaggio a sud di Parigi, presso la foresta di Fontainebleau, definisce un gruppo di artisti che, lì radunati, si dedicavano alla pittura en plein air, portando la loro attrezzatura all'aperto, nel bel mezzo dell'ambiente naturale, per ritrarre dal vero il paesaggio o i contadini al lavoro nei campi, alla diretta luce del sole, lontano da ogni manipolazione artificiosa dell'immagine. 
Attorno al 1835, questo gruppo di pittori, di cui i più noti sono Corot, che diventerà uno dei maggiori vedutisti del secolo, Courbet, Daubigny, Millet e Theodore Rousseau, leader del gruppo, dà l'avvio alla nascita del realismo, ciò che in parallelo fanno in Italia, seppure con diversi mezzi formali, i Macchiaioli toscani, e pone significative premesse all'affermarsi di una tecnica e di una filosofia artistiche da cui originerà il più importante movimento europeo di fine '800, l'Impressionismo, non mancando tuttavia, nelle composizioni barbizonnières, residui echi postromantici, soprattutto identificabili in una certa erraticità narrativa ed in uno stile pittorico talvolta monumentalistico.
Il più diretto ascendente della poetica della Scuola, per ciò che rigurda soprattutto l'aspetto descrittivo, va ricercato nella pittura di paesaggio inglese, soprattutto quella di Constable, anticipatore di una tecnica pittorica di scomposizione cromatica in piccole macchie di colori puri che diverrà tipica degli impressionisti, largamente debitori nei confronti delle esperienze pittoriche della prima metà dll' '800, soprattutto di Delacroix, Turner e Constable.
Il realismo dei pittori di Barbizon è prima di tutto una presa di posizione culturale ed ideologica, vuol significare, attraverso la riproduzione di una realtà non adulterata nè abbellita nè edulcorata, l'acquisizione di una coscienza morale dei problemi sociali dell'epoca, il coraggio di un'obiettività di analisi che non mascheri la realtà, per quanto brutta e sgradevole, ma la rappresenti nella sua crudezza oggettiva, perché tutti ne prendano coscienza.
L'intento provocatorio, la posizione polemica verso ogni ipocrisia sociale e verso gli interessi della borghesia ricca ed indifferente, l'atteggiamento di forte critica al sistema politico del tempo anticipano con grande libertà di pensiero quelle che saranno, da lì a pochi decenni, le istanze delle avanguardie artistiche del '900, decretando tuttavia, per gli artisti di Barbizon, una difficile accettazione da parte dei contemporanei.
Il contenuto morale della pittura realista della Scuola di Barbizon andrà sostanzialmente perduto nel successivo Impressionismo, sviluppatosi dopo il 1860, che porrà invece l'accento sulle implicazioni essenzialmente ottico-percettive della fedele rappresentazione di una realtà raffigurata soprattutto nei suoi aspetti più francamente gradevoli, decorativistici e formali.
 

sabato 22 dicembre 2007

Il cammino dell'anima " Gli Etruschi"

di Romolo Rossi

( Tomba François, Vulci. Il sacrificio dei prigionieri Troiani in onore di Patroclo.)

Secondo la credenza dei popoli delle antiche civiltà mediterranee agli esseri umani non apparteneva un solo io ma un insieme di tre differenti entità: il corpo fisico, la sua ombra e il demone Ka o doppio.
Al momento della morte avveniva la separazione.
Il corpo si dissolveva e veniva riassorbito dalla madre terra, mentre la parte spirituale, l’anima, rimaneva in attesa di rinascere, ma solo dopo aver bevuto alla fonte dell’oblio l’acqua che cancellava i ricordi. Coloro che riuscivano a trascendere la propria “ombra” potevano accedere ad una vita immortale come gli Dei, gli Eroi e gli Iniziati. Per gli altri era inconsapevole immettersi nel ciclo di vita e morte come ignare “ombre” che avevano già vissuto.
L’ombra era la componente sviluppatasi durante l’esistenza, la sintesi del pensare e dei ricordi, attaccata fortemente alle bellezze terrene.
Il Demone Ka o Doppio era composto dai Lares e Manes. Il Lare era il ceppo originario della famiglia la cui sede era collocata nel sottosuolo, il Lare era anche la somma di tutti gli antenati. Il Mane era doppio, raffigurato in quelle statuine con la faccia avanti e dietro, uno buono ed uno cattivo condizionavano l’esistenza in vita di ciascun individuo.
Il problema per l’anima era di distaccarsi dalla propria ombra, lares e manes compresi, duri da abbandonare in quanto erano i legami creatisi in vita ed iniziare il cammino per l’eternità. Gli oggetti funerari che venivano posti all’interno di una tomba non erano per il corpo del definito ma per la propria ombra, la quale era fortemente attratta dalle cose terrene di bellezze materiali. Gli Etruschi non erano così sciocchi da credere che il corpo dopo la morte potesse tornare a vivere. L’ombra attratta e distratta dalle bellezze terrene allentava la presa sull’anima, la quale “liberata”, iniziava il suo lungo viaggio ultraterreno verso l’immortalità.

Oscura e problematica questa ombra aveva un ruolo determinante per il destino e l’evoluzione dell’anima. I colorati e preziosi affreschi parietali delle tombe non erano destinati certo al buio eterno, in quanto nessun occhio mortale avrebbe potuto vederli ed ammirarli. Gli affreschi come i raffinati oggetti funebri avevano una valenza magico-spirituale, servivano cioè a distrarre l’ombra che tendeva a soffermarsi sulle immagini che riproducevano il suo ambiente naturale, i ricordi.
I cunicoli, i labirinti magici od altro ricavati dietro le tombe erano ugualmente altre possibilità in più per l’anima di sfuggire alla propria ombra.
Conseguenza di ciò fu la costruzione di monumentali tombe in città dei morti realizzati secondo schemi urbanistici di concezione magica.
Al disotto nel sottosuolo, dove vivevano le anime degli antenati al cospetto degli Dei della terra era posto il sepolcro. Al di sopra rivolto verso il cielo si innalzava il monumento coronato sulla parte più alta al centro da un cippo di natura generalmente conica e appuntita che al pari di un’antenna aveva il compito di ricevere le onde, le energie e gli influssi positivi provenienti dal cielo e incanalarli nel sepolcro nel sottosuolo per unirli alle emanazioni della madre terra in energia vitale utile all’anima.
Sepolture di questo tipo erano molto costose, si può quindi giustamente supporre che solo i ricchi potessero avere tombe di questo livello, per gli altri spesso solo un’urna cineraria, le sepolture chiamate oggi a “cassettone”, o dispersione delle ceneri al vento in attesa di rinascere ricchi.
Le necropoli erano molto frequentate, vi si svolgevano feste, rituali, musiche e danze. Vi si celebravano vita e morte in un enigmatico viaggio terreno-divino, dove il sacro e il mistico erano onorati in vita con tanta arte e scienze spirituali.

"Apollineo/Dionisiaco " Nietzsch

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

(H. Matisse, La dance, 1909. Lo spirito orgiastico del ritmo scatenato e sconvolgente, tale da produrre un regresso naturalità, un'identificazione del soggetto con il tutto cosmico, è pienamente presente in quest'opera di forti suggestioni nicciane del pittore contemporaneo. )

Nel saggio su La nascita della tragedia in Grecia (1872) Nietzsche inaugurò un nuovo modo di considerare la grecità, diametralmente contrario all'immagine romantica dominante. Secondo Nietzsche la vera grandezza dello spirito antico non sta nell'invenzione della filosofia classica ma nella tragedia, in cui si realizzò una temporanea sintesi fra le due componenti essenziali della spiritualità greca: lo spirito apollineo, razionalistico, armonico, formale, luminoso e lo spirito dionisiaco: estatico, creativo, oscuro.

La via di Apollo è speculativa, spinge a cercare spiegazioni ed elaborare teorie, costruisce sistemi con cui cerca di esprimere il senso ultimo delle cose secondo misura e proporzione. La via di Dioniso è l'esatto contrario: l'accettazione ebbra della vita, l'esaltazione delle pulsioni energetiche e vitali, della salute, della giovinezza e della passione sensuale. "I due istinti, tanto diversi fra loro, vanno l'uno accanto all'altro, per lo più in aperta discordia, fino a quando, in virtù di un miracolo metafisico della volontà ellenica, compaiono accoppiati l'uno con l'altro, e in questo accoppiamento finale generano l'opera d'arte, altrettanto dionisiaca che apollinea, che è la tragedia attica".

Il magico equilibrio fu rotto da Socrate e Platone che Nietzsche considerò "pseudogreci, antigreci, sintomi del decadimento, strumenti della dissoluzione greca". Con loro (e con Euripide nella tragedia) iniziò la prevalenza dell'apollineo a scapito del dionisiaco, la presunzione di poter racchiudere la vita in sistemi razionalistici (mentre, osserva Nietzsche, "ciò che si lascia dimostrare ha sempre poco valore").

"Socrate fu semplicemente un uomo a lungo malato", tanto ostile alla vita da desiderare più di ogni altra cosa la morte del suo corpo. L'esigenza di una metafisica che con lui nasce (e che fu poi pienamente espressa dal platonismo, dal cristianesimo e da tutta la storia della filosofia occidentale) è il frutto di una debolezza psicologica, di un disadattamento alla realtà che continua ancora oggi: la "spiegazione filosofica", qualunque essa sia è sempre un modo per non vivere, prendere le distanze dai fatti, evitare il coinvolgimento dell'azione". Il superuomo deve quindi recuperare la dimensione dionisiaca oscurata da due millenni di decadenza della civiltà occidentale, recuperare la libertà di pensiero dei filosofi presocratici (premetafisici) ed il senso (tragico ed intenso) della vita.

La polarità fra apollineo e dionisiaco può essere assunta anche in senso tipologico, come descrizione generale di due universali possibilità di vita, due tipi fondamentali di umanità. In questo senso, estrapolata dalle implicazioni irrazionalistiche teorizzate da Nietzsche, è stata recepita dal complesso della cultura contemporanea, divenendo un parametro di interpretazione largamente condiviso. Freud, ad esempio, ha visto nel dionisiaco la liberazione dell'istinto insofferente di ogni limite, "lo scatenarsi della sfrenata energia animalesca e divina".

ROMANTICISMO

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
(liberamente tratto da testi vari)


Per quanto l'aggettivo « romantico » ricorra nella letteratura del '700 nel senso di narrativo, romanzesco, il termine comincia ad assumere un significato polemico a partire dallo Sturm und Drang (tempesta e assalto), movimento letterario che prende nome da un dramma omonimo (1776) di F.M. Klinger, Tuttavia le prime definizioni ideologiche del romanticismo, dove la musica viene collocata alle più alte vette dell'arte, vengono formulate da scrittori e pensatori tedeschi nell'ultimo decennio del secolo. Ludwig Tiecle sostiene in diverse opere (tra cui Datori e gioie musicali, e Phantasus, 1797) l'unità delle arti, dove la musica è intesa come espressione della più alta spiritualità umana: laddove la parola e l'immagine s'arrestano, manifestando la propria incapacità a « esprimere », interviene il linguaggio musicale, W.H. Wackenroder conferisce all'arte un senso mistico-religioso e ritiene, appunto per questo, che la musica sia l'arte più adatta a esprimere tale sentimento (Effusioni sentimentali d'un monaco ansante dell'arte, 1796); analogamente Fr.D. Schleiermacher (Discorsi sulla religione, 1799) afferma: « La religione è una musica santa che accompagna le azioni umane, e la musica è una religione »; il che lasciava perplesso Goethe, il quale criticò aspramente questa concezione mistica dell'arte alla quale si voleva attribuire « la santità come unico fondamento » (Annalen, 1802). Anche Fr, Schlegel attribuisce uguale importanza alla musica nelle definizioni che egli dà dell'arte romantica in diversi scritti (principalmente in Lucinde, 1799 e nei Fragmente, 1800); ma è soprattutto in Jean Paul (Richter) che ricorrono frequenti accenni alla musica come arte che esprime gli impulsi immediati della vita interiore attraverso una lotta titanica, nel libero scaturire delle passioni sino alla violenza, al delirio e alla sublimazione: la sua opera maggiore Titan (1500-03), il poema della redenzione attraverso la libera scelta dell'azione e dell'amore spontaneo contro il filisteismo, eserciterà una grande influenza sui romantici, a cominciare da Schumann sino agli estremi bagliori della « crisi » postromantica nel grandioso sinfonismo di Mahler. A Jean Paul si affianca Novalis, il poeta degli Inni alla notte (1797-1800), per il quale l'arte deve tendere a spezzare le limitazioni del reale, del contingente che rendono l'esistenza meschina, deve esprimere l'illimitato, l'indeterminato per ritrovare l'innocenza originaria, cosmica; le arti figurative, la letteratura e la poesia tendono alla trascendenza del reale, ma i loro mezzi sono limitati: solo la musica, soprattutto quella puramente strumentale, spazia nelle più alte sfere dello spirito e sa esprimere l'inesprimibile. Il concetto di « musica assoluta » che ci andava affermando con Beethoven trova così la sua definizione teorica, che andrà sempre più radicalizzandosi nei primi decenni dell'800. In questo clima, a cavallo tra i due secoli, nasce la diatriba tra classicismo e romanticismo che ha il suo punto focale nell'antitesi Goethe-Schiller, rinfocolata dai fratelli Schiegel. Ma Schiller rappresentava, in tondo, l'alter ego di Goethe; e tale doveva rimanere anche dopo la sua morte ( 1805) nella turbata coscienza del grande vegliardo di Weimar. Nel suo fondamentale saggio Delta poesia ingenua e sentimentale (1796) Schiller aveva spinto la polemica col classicismo agli estremi limiti: nel dualismo tra io e mondo, dopo la scissione delle arti per la perduta armonia dei greci (concetto che verrà ripreso da Wagner), l'artista deve impegnare tutte le proprie forze per la difesa dell'uomo in quanto individuo contro l'equilibrio fittizio della società e delle sue istituzioni; e nei confronti di Goethe Schiller affermava che l'amico era stato (nel Werthere nel Wilheim Meister), ed era ancora, « un romantico contro voglia », Dal canto suo Goethe non respingeva il romanticismo, ma lo guardava con preoccupazione, se non con spavento: egli affermava che il classicismo (il riferimento era all'arte greca nel suo periodo aulico) aveva come fondamento l'idealizzazione del reale, raggiunta con la simmetria e con l'equilibrio, nella sintesi suprema del bello, mentre il romanticismo mirava a trascendere il reale per il regno pericoloso dell'« apparenza », della « fantasia sfrenata », i cui prodotti sono « ingannievoli come l'immagine di una lanterna magica ». Tuttavia Goethe si sforzava di trovare una soluzione a questa antitesi, cercando un approdo, un incontro nel quale classico e romantico potessero risolversi in una equilibrata unità. Il turbamento di Goethe per Schiller, ma ancor più per Holderlin o per Kleist, si traduceva, nei confronti della musica, per Beethoven, al quale egli guardava con sospetto. Ancora nel 1830, anno che consacra in Francia la nascita ufficiale del romanticismo (Berlioz, Delacroix, Victor Hugo), Goethe rimane turbato di fronte a Beethoven; è noto l'episodio del giovane Mendelssohn che gli suona al pianoforte il tempo della Quinta Sinfonia e il commento del vecchio poeta: « Non mi commuove, mi stupisce soltanto... è grandioso, è grandissimo, ma assolutamente pazzo, Fa temere il crollo della casa » (Lett. di Mendelssohn ai genitori del 25 maggio 1830); e nei Colloqui con Eckeimann (1823-32) Goethe aveva poi finito col lasciarsi sfuggire questa lapidaria definizione: « Dico classico ciò che è sano e romantico ciò che è malato » 1829, che riflette, in modo profetico, la parabola del romanticismo e della crisi dell'io sino a Nietzsche e a Thomas Mann. Nel pensiero musicale romantico vanno distinte due componenti: quella letterario-musicale e quella estetico-filosofica. Nella prima trova posto E.Th.A. Hoffmann, che deve essers considerato il primo critico ed esegeta del romanticismo musicale: mentre una prima impostazione estetica del concetto romantico di musica è data da Ch.D. Schubart con le Idee per un'estetica della musica (1806), pubblicate postume, alle quali attingono sia Jean Paul, sia Hoffmann. Poeta, pittore, e scrittore, compositore e direttore d'orchestra, oltre che essere il creatore dei celebri Racconti fantastici, Hoffmann, nel decennio 1810-20 (in Kreisleriana, nelle critiche musicali su Beethoven e altri, nei Serapionbriiderl formula l'idea del musicista romantico, ribelle, caustico, in antitesi col mondo e chiuso nella propria allucinata interioritus. Non solo Beethoven, ma anche Mozart è ritenuto un padre del romanticismo sia da Jean Paul che da Hoffmann; e questo si comprende se si pensa alle ultime opere di Mozart (le quattro Sinfonie, le Fantasie, il Requiem. Hoffmann si sforzava di trovare le origini dell'ideologia romantica un po' dappertutto, in Haydn, Gluck, persino in Bach; un po' meno in Handel, che considerava il vero « stile barocco »; in realtà per Hoffmann il problema non era quello di definire lo « stile romantico », alla stessa stregua del barocco o del rococò, ma di rintracciare nel linguaggio musicale del passato quei caratteri di espressività che si riferivano più al contenuto che alla forma. Per i romantici integrali (Jean Paul, Hoffmann, i fratelli Schlegel, Tieck, Wackenroder) la musica è dunque la « lingua originale della natura »; essa è nata dall'Urklang (suono originario) che ha dato vita al mondo: questo concetto è fondamentale nell'ideologia romantica: percorrerà tutto il secolo sino alle soglie del Novecento e, attraverso Mahler, si riattiverà nell'espressionismo di A. Schonberg e della sua scuola. Hoffmann dà la supremazia assoluta alla musica strumentale, musica di puri suoni, svincolata dall'ibrido connubio con la parola, ed afferma che essa è i la più romantica di tutte le arti, si vorrebbe quasi dire: l'unica veramente romantica, poiché soltanto l'infinito è il suo tema; e altrove: « Soltanto uno spirito romantico può entrare nel romantico, soltanto la mente poetica ed esaltata, che ha ricevuto la consacrazione nel mezzo del tempio, può capire ciò che il consacrato esprime nella sua estasi » (Kreisler Lehrbrief, 1814). Il maestro di cappella Kreisler (protagonista della Kreisleriana, dalla quale Schumann trasse ispirazione per la sua celebre omonima opera pianistica, 1838) è Hoffmann stesso, che entra in violento conflitto col mondo e, in stato di follia, medita di uccidersi « pugnalandosi nella foresta con una quinta aumentata »; le settime si configurano nella sua mente allucinata come lingue di serpente; anche l'abbigliamento di Kreisler deve riflettere il suo stato d'animo, la sua interiorità musicale, per cui immagina un abito « il cui colore si avvicina al do diesis minore con a un colletto di tinta in mi maggiore ». Il grottesco porta all'autoironia cosciente, in una mescolanza di commozione, umiltà, istrionismo, violente ire: « Così il suo dolore divenne spaventosamente buffonesco » (Kreisleriana): autoironia che è un'altra componente tipica dello spirito romantico. A Hoffmann e ancor più a Jean Paul si riferisce H. Schumann, il compositore romantico integrale, che teorizza sia con la penna del critico, sia con quella del musicista, Ribelle ad ogni conservatorismo, al quale egli oppone la « lega di Davide ». Schumann è tra i primi a scoprire il genio di Chopin, poi sostiene Mendelssohn, Liszt, Berlioz e rivela il giovane Brahms, vale a dire coloro che sono destinati a divenire tra i più grandi nomi del romanticismo musicale europeo. Nel 1834 fonda la « Neue Zeitschrift fur Musik ». la prima rivista musicale romantica di tendenza programmatica: Schumann vi scrive sotto diversi pseudonimi (che ricorrono anche nelle sue composizioni pianistiche), quelli dei soci della « lega di Davide » . Due personaggi in particolare, ispirati a Jean Paul, rappresentano il tormentato spirito romantico, diretti antecedenti dell'antitesi apollineo-dionisiaco di Nietzsche: Eusebius il sognante e Florestanus il bollente, l'istintivo; tra essi, come mediatore, è posto però Magister Rarus, il saggio che dovrebbe conciliare le due opposte tendenze. Schumann è certo il musicista più significativo del romanticismo storico, rappresentato dalla Junge Deutschland (la Giovane Germania), cosi come Berlioz lo è della Jeune France: la sua Symphonie phantastique ) 1830) reca infatti un programma letterario-musicale in analogia con le idee di Hoffmann, di Jean Pani e di Schumann. L'ideologia romantica investe infine anche il pensiero filosofico. Mentre Kant, nella Critica del giudizio (par. 53), dividendo le arti in tre gruppi (letteratura, eloquenza, poesia, poi le arti plastiche, e infine la pittura e la musica) considerava quest'ultima al più basso gradino perché fondata sul mero piacere dei sensi (un fastidioso « gioco delle sensazioni » simile al profumo), e altrettanto pensavano Tierder, Winckelmann e Lessing, a questa concezione si contrappone Schelling, che definisce la musica come « l'arte più spoglia di dementi corporali, nella misura in cui rappresenta il movimento puro in se stesso, staccato dall'oggetto e portato da ali invisibili, quasi le ali stesse dello spirito » (1807); quindi la musica è la sola arte che abbia il potere, mediante il suono, di esprimere l'anima interiore delle cose. Per Schopenhauer musica e filosofia si trovano sullo stesso piano, anche se la relazione può apparire ambigua, in quanto ambiguo è il linguaggio musicale. Tuttavia Schopenhauer ritiene che l'essenza della filosofia risieda nello « spirito della musica », e afferma: « Posto che si potesse dare una spiegazione della musica in tutto esatta, compiuta ed addentrantesi nei particolari, ossia riprodurre in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe senz'altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo dei concetti »; e ancora: « La musica, la quale va oltre le idee, anche del mondo fenomenico, è del tutto indipendente e lo ignora; a potrebbe, in certo modo, sussistere quand'anche il mondo non fosse » (Il mondo corse volontà e rappresentazione, par, 52). Una analoga concezione si trova in Grillparzer, quando il poeta afferma essere il filosofo « un suonatore o musico di concetti » e il musicista « un concettualizzatore di suoni ». Proprio in quegli anni Hegel teneva all'università di Heidelberg il suo primo corso di lezioni di estetica (1817-18), che dovevano proseguire a Berlino (1820-29) ed essere pubblicate postume (1836-38). Nel sistema delle arti tracciato da Hegel, dove l'architettura è ritenuta « arte simbolica » perché l'esterno non rispecchia in forma piena e adeguata l'interioriti», e la scultura (greca) è intesa come « arte classica », perfetta sintesi di oggettivo e soggettivo, di interiorità e di esteriorità, la musica, la pittura e la poesia, arti moderne, vengono definite « arti romantiche », in quanto affermano la « pura spiritualità »; ma Hegel ritiene che la musica è la sola che sappia esprimere « la pura interiorità che si dà in sé e per sé »; a differenza della scultura e della pittura, essa non si esteriorizza nello spazio, rinuncia totalmente ad esso per ritirarsi nella soggettività sia dal punto di vista dell'interno che dell'esterno i (Lezioni di estetica, sez. III, cap. 2°). Questa. definizione hegeliana doveva avere enormi conseguenze in tutta l'ideologia romantica e postromantica sino alle soglie del nostro secolo. La seconda mett dell'800 raccolse l'eredità del romanticismo musicale storico essenzialmente tedesco e la spinse in diverse direzioni, dominate dalla « musica a programma » e dal « poema sinfonico » (da Liszt a Franck, a H. Strauss) da un lato, dall'« opera totale » (Gesasnmtkunstwerk) di Wagner dall'altro, per culminare infine nel sinfonismo postromantico di Brahms, Bruckner, Cajkovskij, Mahler, con differenti riflessi sulla musica europea.

venerdì 21 dicembre 2007

L'IDEA DEL BENE

RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI

Il lato intelligibile dell'analogia fra il bene e il sole
In che senso il bene rende possibile la conoscenza?
In che senso il bene rende possibile l’essere e l’essenza degli oggetti conoscibili?
In che senso il bene è al di là dell’essenza? In che senso la supera per dignità e potenza?
Socrate afferma che i filosofi governanti, per essere all’altezza del loro compito, devono essere in grado di attingere il mégiston màthema, la cosa più grande che si possa imparare, l’idea del bene (505a). Il suo carattere essenziale è la suprema unità: il bene è assolutamente uno, a differenza dei paradigmi, unitari solo in relazione alle molte cose in cui si esemplificano. In questo senso, non può venir identificato con una cosa.
Per dimostrare questa tesi, occorre innanzitutto mettere in discussione le definizioni che trattano il bene come una cosa, identificandolo con il piacere, o con la phrònesis (intelligenza, senno) (505b). L’identificazione del bene con la phrònesis produce una definizione circolare. La phrònesis può essere bene, infatti, soltanto se ha ad oggetto il bene, e non qualcos’altro. E da questo segue che la phrònesis non può identificarsi col bene: infatti essa è buona non di per sé, bensì solo se viene messa in relazione e orientata al bene. La phrònesis, in altri termini, si comporta come ogni altro oggetto diverso dal bene: può diventare “buona” solo se posta in relazione al bene. Dunque essa non può essere il bene in sé, ma, come le altre cose, può essere buona solo per partecipazione – koinonia o méthexis (505c). L’identificazione del bene col piacere genera una contraddizione, non appena si riconosce che esistono piaceri buoni e piaceri cattivi. Infatti, se il bene è uguale al piacere, allora qualsiasi piacere dovrebbe essere ugualmente bene: affermare, dunque, che un particolare piacere è cattivo, o è migliore o peggiore di un altro, produce una contraddizione rispetto a questo assunto. 45 Dire “che cos’è” il bene sembra una intrapresa molto difficile.

Il bene non può essere ridotto a una cosa, senza produrre circolarità o contraddizioni. Questa sua qualità teoreticamente sfuggente, tuttavia, non lo rende irrilevante ed evanescente dal punto di vista pratico. Il bene, prosegue infatti Socrate, si differenzia dal giusto e dal bello perché noi, pur essendo disposti a fare azioni che appaiono o sono credute giuste o belle, senza in realtà esserlo, non accettiamo, di contro, di compiere atti che appaiono o sono ritenuti bene, ma non lo sono effettivamente. (505d) Il bello e il giusto, in altre parole, tollerano una discrepanza fra realtà e “apparenza”: posso adeguarmi a ciò che normalmente si crede bello o giusto anche se non ne sono convinto, per esempio allo scopo di trar vantaggio dal mio conformismo. Il bene non sopporta questa discrepanza: se mi adeguassi a ciò che si usa credere bene, ma che so non essere tale, andrei, semplicemente, contro il mio interesse. Una giustizia che derivasse interamente dal bene meriterebbe di venir perseguita anche di per se stessa e non solo per le sue conseguenze esteriori: in questa prospettiva, il problema del bene ha un senso politico immediato.
Chi ignora in che modo le cose giuste e belle sono buone, è un custode ben scarso. E nessuno può conoscere adeguatamente il giusto e il bello prima di sapere in che modo è buono. (506a)
Ma come è possibile definire il bene, se sembra sfuggire ad ogni tentativo di identificarlo con una cosa? Una via potrebbe essere quella, soggettiva, dell’opinione: bene è ciò che ciascuno, di volta in volta, ritiene tale. Questa via, però, è preliminarmente esclusa da Socrate. Quando Glaucone gli chiede la sua opinione su che cosa sia il bene, egli risponde che chi ha opinioni ma non ha nous (intelletto) è simile a un cieco che cammina sulla strada giusta: non vedendola, non può esserne consapevole e dunque non può indicarla ad altri. Il bene è esplicitamente pensato per una funzione direttiva anche in politica: la doxa – anche se, per avventura, corretta – è carente di intersoggettività e dunque inadatta a tale funzione. Se attribuiamo un ruolo di indirizzo politico a chi ha soltanto opinioni, otteniamo un potere politico oggettivamente poco trasparente – un potere che sa imporre, ma che non ha gli strumenti per spiegare.
Il bene, dunque, deve essere definito, a dispetto della difficoltà del compito, in una maniera tale che trascenda l’opinione. Socrate sceglie di darne una definizione soltanto indiretta (506e), tramite l’analogia con quel che sembra la progenie del bene.
La funzione dell’analogia è di presentare un termine ignoto tramite il paragone con un termine noto. L’analogia può avere il valore di un espediente meramente didattico, per far comprendere a un ascoltatore la cui esperienza e conoscenza sono limitate un termine ad esse ancora estraneo. Ma può anche avere il valore di uno strumento speculativo, quando serve per alludere ad un contenuto che non può, strutturalmente, essere riempito dall’esperienza e conoscenza di un soggetto finito.

Se l’analogia platonica fosse solo didattica, si potrebbe pensare che Platone abbia altrove, magari in forma non scritta, una dottrina del bene più compiuta: opinioni e analogie avrebbero solo una funzione essoterica, divulgativa. Se invece l’analogia avesse un senso speculativo, ne seguirebbe che un soggetto conoscente finito potrebbe farsi un’idea del bene solo per il tramite della mediazione soggettiva – cioè della sua conoscenza ed esperienza, la quale ha a che fare con cose definite. Essa, in questo caso, sarebbe un limite, ma, nello stesso tempo, una condizione.
Il 505d ha fondato l’importanza del bene sulla circostanza che nessuno si accontenta della sua apparenza. L’idea del bene non può essere, per nessuno, oggetto di una finzione sociale: il bene viene perseguito se e solo se è ritenuto tale dai singoli. Quindi ciò che essi sanno e vogliono è un punto di partenza indispensabile: si potrebbe avere una giustizia esoterica e una giustizia essoterica, ma non potrebbero esserci due idee del bene, una vera e riservata ai pochi, e l’altra vaga o ingannevole, per la massa. Tutti, infatti, aspirano a ciò che è bene veramente. Dalla necessità della mediazione soggettiva segue, inoltre, che è possibile capire che cosa è il bene solo per partecipazione, se prendiamo le mosse da ciò che abbiamo e cerchiamo di ampliarlo a ciò che non abbiamo: il bene non può essere trasmesso come una nozione estrinseca, ma ha bisogno della convinzione personale. Nessuno, a proposito del bene, si accontenta del sapere per sentito dire. Per questo in Platone, come nella filosofia esistenziale di Kierkegaard, il bene può essere comunicato solo indirettamente.
La definizione per analogia, in 507b ss., viene svolta tramite uno schema, nel quale il lato visibile funge da illustrazione analogica del lato intelligibile, ove si colloca il bene.
La vista, per raggiungere le cose visibili, ha bisogno di un medium, la luce: se non c’è luce, non si vede. La luce stessa, prodotta dal sole, non si identifica né col senso della vista, né con gli oggetti della visione; essa ha, tuttavia, una dignità, perché rende possibile il vedere .
Il lato visibile dell’analogia fra il bene e il sole
Nell’ambito di ciò che è fisicamente visibile, il sole, che nella religione popolare greca ha una dignità divina, permette alla vista di vedere e alle cose visibili di essere viste. La vista non si identifica col sole, né di per se stessa né in relazione all’occhio, l’organo in cui viene ad essere. Fra i sensi, tuttavia, è quella di aspetto più solare. Proprio perché non si può vedere senza luce, la capacità (dynamis) della vista è data dal sole. Il sole, che è causa della vista, è esso stesso oggetto di visione Il sole è analogo al bene, in questo senso: il ruolo svolto dal bene per il nous (intelletto) e per gli oggetti intelligibili,nell’ambito intelligibile (noeton), è paragonabile al ruolo svolto dal sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili (508c). Il sole dà agli oggetti visibili la dynamis o possibilità di essere visti: infatti, quando guardano oggetti poco o nulla illuminati, gli occhi si comportano come se fossero ciechi. Inoltre, il sole dà agli oggetti visibili anche la génesis (il venire ad essere), la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso stesso génesis. (509c) Gli enti visibili di cui parla Platone sono evidentemente le creature viventi, le quali, appunto, sono soggette a genesi, crescita e nutrimento. In questo senso, il 509c si potrebbe intendere, in altre parole, così: il sole dà la vita, pur non essendo esso stesso vita.
Il lato intelligibile dell'analogia fra il bene e il sole
Il lato visibile dell’analogia suggerisce che il sole mette in atto la potenzialità della vista: quando guardiamo oggetti illuminati dal sole, riusciamo a vedere; quando guardiamo oggetti oscuri, è come se fossimo ciechi. Similmente, quando l’anima si fissa su ciò che è illuminato dalla verità e da ciò che è (to on), lo coglie e lo conosce: si rende, in questo modo, chiaro che essa ha nous o intelletto, come la capacità di vedere si manifesta solo tramite la visione di oggetti, in presenza di luce. Quando invece l’anima si fissa su ciò che è misto di tenebra e viene ad essere e perisce, allora essa ha solo opinioni, si offusca e somiglia a chi non ha nous (508d). Quindi la prima funzione del bene è rendere possibile la conoscenza, in una maniera peculiare, se dobbiamo prendere sul serio l’analogia: come ci accorgiamo di non essere ciechi solo vedendo qualcosa nella luce, così scopriamo la nostra facoltà di conoscere soltanto mettendola in atto.
L’idea del bene – viene fatto dire a Socrate – apporta verità a ciò che è conosciuto e dà dynamis (potenzialità, facoltà) a chi conosce. È causa della epistéme (scienza) e della verità; però è altro da esse e più bella. Scienza e verità non si identificano col bene, che è di maggior pregio, per quanto anche scienza e verità siano di valore (508e) Gli oggetti conoscibili ricevono dal bene non solo l’esser conosciuti, ma anche l’éinai e l’ousìa, cioè l’essere e l’essenza. Ma il bene non è ousìa, perché è al di là dell’ousìa per anzianità o dignità e potenza (dynamis) Per comprendere queste parole di Socrate, dobbiamo ricordare, in via preliminare, che il problema del bene è introdotto mentre si discute di un progetto politico e della sua realizzabilità: la prospettiva originaria, nello svolgimento del dialogo, è quella della ragion pratica. Il bene è, certamente, anche il culmine della metafisica platonica. Tuttavia il contesto in cui viene presentato invita a proporre un esperimento: cercare, innanzitutto, di chiarire le parole di Platone dal punto di vista della ragion pratica.
In che senso il bene rende possibile la conoscenza?
Il sole non produce il senso dello vista: quando non c’è luce io non vedo, non perché i miei occhi sono fisicamente danneggiati, ma perché manca il medium che permette loro di funzionare. Se i miei occhi sono sani, sono fisiologicamente funzionali anche al buio, sebbene non distinguano nulla perché manca la luce (508c-508d). Similmente, il bene non produce, in me, la facoltà di conoscere. Essa è funzionale sia in presenza del bene, sia in sua assenza. Si dice, infatti, che quando l’anima guarda ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, ha nous (intelletto); quando non lo guarda, ha opinioni e si comporta come se non avesse nous. Con o senza bene si ha, in ogni caso, conoscenza, dal lato del soggetto conoscente. Ma la sola conoscenza “intelligente”, che si distingue dall’opinione, è quella “illuminata” dal bene.
Il senso di questa tesi è già spiegato in 505d: il bene si differenzia dal giusto e dal bello perché siamo disposti ad accettare di fare cose che si limitano ad apparire giuste o belle, ma non accettiamo di fare cose che appaiono o sono ritenute bene senza esserlo effettivamente. Quando non poniamo il problema del bene, possiamo accettare forme di conoscenza legate alle convenzioni diffuse, o a discipline settoriali limitate; possiamo accontentarci dei valori e delle pratiche condivise nella nostra cultura, senza preoccuparci della loro verità in un orizzonte più ampio. Quando poniamo il problema del bene questo non basta; di contro, un sapere particolare, settoriale, limitato ed esposto alla doppiezza può esserci utile solo per scopi settoriali e limitati.
Il bene rende possibile la conoscenza, nel senso di intelligenza o comprensione, perché obbliga a porre in maniera radicale il problema della verità. Questa prospettiva non ha a che fare con contenuti determinati di conoscenza, ma con l’orientamento e l’interesse del soggetto conoscente. Perfino Trasimaco, quando smaschera la giustizia come utile del più forte, ragiona col presupposto dell’esigenza di trasparenza e verità posta dal bene. Anche per questo si fa confutare sulla base del suo desiderio di appartenere alla comunità dei conoscenti. Questo desiderio è in contrasto sia con i contenuti della sua teoria, sia col suo atteggiamento competitivo; esso, tuttavia, è necessariamente presente in chi professa la sapienza. In generale, se è vero che tutti hanno interesse al bene nella sua verità, allora la scelta della vita teoretica e della sua condivisione di conoscenza non può essere, in linea di principio, una strada riservata a pochi.
In che senso il bene rende possibile l’essere e l’essenza degli oggetti conoscibili?
Lo spettro semantico di éinai, nella lingua greca, è molto ampio: éinai può indicare sia il semplice esistere, sia, in vari sensi, l’essere vero. 46 In 509c viene detto che il sole dà agli oggetti visibili la dynamis di essere visti, ma anche la génesis (il venire ad essere), la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso stesso génesis. Gli enti conoscibili, inoltre, ricevono dal bene non solo l’esser conosciuti, ma anche l’éinai e l’ousìa, cioè l’essere e l’essenza.
L’analogia fra il sole e il bene può essere svolta punto per punto: il sole rende possibile vedere gli oggetti sensibili, mentre il bene, come già menzionato, rende possibile conoscere gli oggetti intelligibili. Il sole dà agli oggetti sensibili génesis, mentre il bene dà agli oggetti conoscibili éinai. Il sole dà agli oggetti sensibili crescita e nutrimento, mentre il bene dà agli oggetti conoscibili ousìa.
Una volta sviluppata l’analogia, si impone un interrogativo: in che senso la génesis, cioè la generazione o il venire ad essere degli oggetti sensibili, può venir paragonata all’essere degli oggetti intelligibili?
Quando ci si riferisce agli oggetti sensibili, si usa il termine génesis: gli enti sensibili, infatti, sono enti che vengono ad essere, sono generati e divengono, grazie alla luce del sole. Quando ci si riferisce agli oggetti intelligibili si usa un termine statico, come éinai. Però, se il bene è come il sole, la sua funzione deve essere, in qualche senso, dinamica. Nell’universo platonico, un ente intelligibile è (vero) in un senso statico, atemporale. Esiste, tuttavia, una vita del pensiero che deve essere intesa in senso dinamico: che cosa induce a pensare alle cose e ad affrontare radicalmente il problema della loro verità? Che cosa induce a sottoporre le nostre nozioni a una discussione non finalizzata alla competizione e al marketing? L’interesse per il bene, in quanto interesse per la verità, mette in movimento il pensiero. Il bene è ciò che fa “essere” – pensate, corroborate e rese coerenti fra loro – delle nozioni, nel modo peculiare in cui il loro essere è, in un senso parziale, dinamico.
Disponiamo dell’ousìa di un oggetto conoscibile, cioè della sua essenza o della sua sostanza, quando siamo in grado di definirlo in maniera rigorosa e univoca. L’interesse per il bene e la disposizione a sottoporre ogni nostra tesi alla prova della dialettica è ciò che rende possibile concepire l’ousìa. Se l’interesse per il bene non agisse su di noi, potremmo accontentarci, a un livello inferiore, delle convenzioni sociali e culturali (doxa), e, a un livello superiore, specialistico, di una molteplicità di paradigmi meramente “tecnici” e settoriali. Non ci interesserebbe sapere che cosa sono veramente le cose.
In che senso il bene è al di là dell’essenza? In che senso la supera per dignità e potenza?
Il bene (509b) non è ousìa o essenza, ma è al di là dell’ousìa. In 505b, erano falliti due tentativi di definizione del bene tramite la sua identificazione con una sostanza, perché avevano prodotto ora una definizione circolare, ora una contraddittoria. Il bene è intelligenza – ma di che cosa? Il bene è piacere – ma come si ordinano, in rapporto al bene, i differenti piaceri? La debolezza delle due definizioni era la medesima: identificare il bene con una cosa isolata, dotata di ousìa, quando l’esigenza ad esso intrinseca riguarda le relazioni fra le cose.
Ipotizziamo che il bene sia al di là della sostanza perché non è una cosa, bensì un principio di relazione e di ordine. In quanto principio di ordine, non può essere un oggetto. Deve, tuttavia, essere un principio superiore e unitario, altrimenti non produrrebbe un ordine. Inteso in questi termini, cioè come esigenza di unità e di ordine, il bene può apparire come un principio misticamente vuoto e retorico, e quindi del tutto superfluo, se non, pericolosamente, utilizzabile per giustificare qualsiasi autoritarismo. Possiamo sottrarci a questa impressione soltanto se riusciamo a spiegare in che senso e in che modo un principio che contiene solo l’esigenza di un ordine unitario può imporre dei vincoli, pur non essendo una cosa.
Dal momento che il bene viene introdotto in un contesto politico, e può essere compreso solo per analogia, ci permettiamo di illustrarlo con una analogia politica. Immaginiamo una trattativa fra un numero indefinito di parti, i cui partecipanti parlano ciascuno per conto proprio, senza ascoltarsi a vicenda: anche se qualcuno di loro stesse enunciando una soluzione accettabile da tutti, questa soluzione non potrebbe mai essere accolta, perché manca una relazione fra di loro. Se i partecipanti parlano fra loro, di contro, alla fine verrà pattuita la soluzione enunciata da qualcuno. Quale elemento di questa situazione è paragonabile al bene? La soluzione o il fatto di essersi risolti a entrare in una relazione per pattuire una soluzione? Dal punto di vista del contenuto la conclusione della trattativa non aggiunge nulla di nuovo. Gli schemi di azione possibili erano già conoscibili e presenti. Ma la relazione aggiunge qualcosa in più: una pace conclusa, in luogo di una moltitudine di parole. Il bene non è paragonabile alla soluzione decisa – a un contenuto definito – ma alla relazione che ha reso possibile raggiungere quella soluzione.
Fuor di metafora: il bene, nella sua vuotezza, contiene tuttavia, in quanto principio, dei vincoli. In primo luogo, esso contiene l’esigenza dell’unità, sia sul piano soggettivo, sia su quello oggettivo. Sul piano soggettivo, il bene deve essere qualcosa di valido per tutti, e quindi qualcosa che tutti possano, sinceramente, volere: questo significa anche, se ricordiamo che il bene è stato introdotto in un contesto politico, che non si possono imporre nemmeno alla comunità politica princìpi personali, arbitrari e occasionali. Sul piano oggettivo, il principio del bene deve essere universale, cioè deve essere lo stesso in tutti i casi, e deve essere assolutamente trasparente, cioè deve essere privo di doppiezza, in tutte le accezioni del termine. In questo senso, il bene non è una sostanza o cosa, ma è al di là delle cose: è, infatti, la mera esigenza di un principio unitario di relazione per ordinare e coordinare le sostanze in modo trasparente e coerente. Questa esigenza costituisce la vita del pensiero. Quando facciamo delle scelte, teoretiche o pratiche, abbiamo sempre ad oggetto dei contenuti; ma chi sceglie sulla base del bene avverte l’esigenza di orientarsi secondo un principio unitario valido per tutto e per tutti, e sulla base di una relazione unitaria di tutti con tutti. Su questa falsariga, possiamo anche comprendere perché il bene supera ogni contenuto per dignità e potenza: supera le cose per dignità, perché è ciò che le orienta alla ricerca di un senso unitario, e le supera per potenzialità, perché è l’esigenza che mette in moto la vita del pensiero.
Secondo il neokantiano Hermann Cohen, Platone ha il merito di essersi posto il problema dell’etica nella sua forma più radicale. Egli, infatti, non ha incentrato la sua indagine su quello che gli uomini considerano beni – indagine che lo avrebbe lasciato prigioniero del mondo della sua esperienza – ma si è interrogato sulla possibilità di un tipo di realtà diverso da quello che può affermare la natura mediante la validità scientifica: una realtà costituita dall’autonomia del pensiero, la quale orienta direttamente la ragion pratica, e, indirettamente, la ragion teoretica. A questa domanda, Platone risponde stabilendo un rapporto fra metafisica e filosofia morale: l’idea del bene è l’espressione più alta e significativa del valore critico della teoria delle idee, perché esprime l’esigenza della loro unità di senso; ed è, nello stesso tempo, l’indicazione delle sue conseguenze per la fondazione dell’etica, 47 in quanto esigenza, per la ragion pratica, di universalità e di trasparenza.
Gli enti intelligibili possono aspirare a un senso complessivo solo se non sono intesi come discreti e separati, ma vengono idealmente orientati a formare un complesso unitario e coerente. Lo sviluppo del pensiero in un unico movimento sistematico del sapere richiede una condizione di unità, comunanza, trasparenza. Questa condizione, a sua volta, non si identifica con dei fatti o delle cose, ma con un valore e una possibilità. La vita della ragione teoretica e pratica ha bisogno di uno spazio virtuale di interazione unitario e condiviso, che viene mantenuto aperto da un principio di ordine, al di là delle singole nozioni. Questa caratterizzazione della ragione teoretica e pratica è immediatamente politica, perché Platone l’ha introdotta allo scopo di descrivere il sapere dei filosofi al governo – un sapere, quindi, finalizzato all’indirizzo politico.
Per quanto il tema del bene sia metafisicamente complesso, le sue implicazioni per il regime della conoscenza sono chiare: sapere non significa possedere, individualmente, una collezione di nozioni statiche e separate fra loro. Significa, piuttosto, essere in grado di fare interagire queste nozioni entro uno spazio comune sia sul piano oggettivo, sia su quello soggettivo. Sul piano oggettivo, una collezione di nozioni discrete è viva nella misura in cui esse si confrontano reciprocamente, per progredire e muoversi verso il sistema; sul piano soggettivo, il loro confronto può aver luogo solo se le nozioni sono universalmente discusse e condivise nella prospettiva di un interesse genuino per la verità. Il carattere primariamente pratico di questo interesse è messo in luce dal fatto che esso si manifesta, come si afferma in 505d, nella circostanza che, per quanto riguarda il bene, nessuno si accontenta della sua apparenza. Quanto detto per il regime del conoscere vale anche per il regime politico, perché l’idea del bene è stata introdotta, come abbiamo ripetutamente ricordato, proprio allo scopo di descrivere il conoscere capace di indirizzo politico.
Se il sapere fosse un patrimonio soltanto individuale, e non fosse orientato da una sua specifica etica sovrapersonale, non esisterebbero né il dibattito scientifico, né quello, propriamente, politico; ci sarebbero solo nozioni private, episodiche e sconnesse, ispirate da interessi occasionali, vari e slegati. Nel VI libro della Repubblica si trova la chiave della confutazione di Trasimaco.