domenica 1 luglio 2007

La terra vista dal cielo.
Tarkovskij, il volo, la pittura

La pittura astratta ha a che fare, almeno nella sua genesi, con uno sguardo che abbandona sì lo spazio tridimensionale della prospettiva ma per collocarsi in un punto che sta ancora nell’orbita dello spazio fisico, in certo modo naturale: è quello della visione dall’alto, non da una cima o da una vetta, bensì da un punto di osservazione che non ha più contatti con il suolo, da un punto aereo. Librandosi in aria, l’occhio appiattisce quel mondo che fino a quando restava a terra gli appariva alto e basso, lungo e largo (Mondrian, Klee).
Il distacco dal suolo, dal peso corporeo, dalla materialità in generale non è solo un’operazione mentale, spirituale ma può anche coincidere per lunghi tratti con l’esperienza dell’uomo che vola e che abbandona la terra. Sotto di lui, tutto diventa un tappeto, un geroglifico, tutto muta aspetto e si semplifica sorprendentemente. Ma può l’uomo abitare questo punto aereo, può farne una casa e non un semplice luogo di passaggio? La pittura astratta, o meglio il trattamento astratto di luoghi che non perdono del tutto la loro origine naturale, adotta un punto di vista che è fermo, statico e non dinamico (come quello futurista), fa pensare a un volo d’alta quota o a una specie di stazione orbitante, cosicché lo spazio pittorico dell’astrazione (antinaturalistico, bidimensionale, piatto) recupera dei tratti di antropomorfismo quando è l’uomo stesso a varcare i limiti della sua natura terrestre, a volare nel cosmo. La tecnologia cosmonautica trasforma la natura dell’uomo e costruisce davvero un luogo sospeso tra terra e cielo da cui guardare il nostro piccolo pianeta. L’immagine della pittura richiama quella del cinema di fantascienza.Dove, come e quando la fantascienza cinematografica si interroga sul significato di un luogo sospeso tra terra e cielo? Nella sua storia di genere letterario e filmico, la fantascienza ha fatto da lepre rispetto alle conquiste della tecnica, ha prefigurato un futuro possibile: negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso il tema del viaggio e della conquista dello spazio si è imposto sulla scia dei successi dell’industria e della tecnologia cosmonautiche. La stazione spaziale, più ancora dell’insondabile vastità del cosmo, è diventata un luogo di nuovi prodigi o di nuove sventure, la nuova scialuppa dell’umanità. Questa casa orbitante, prima che la fantascienza fosse indotta a tornare sulla terra per occuparsi delle apocalissi ecologiche e dei mondi virtuali della cibernetica, è diventata una dimensione allargata della psiche, è stata sentita come una faglia nella scansione unitaria e compatta del tempo, come un luogo del possibile estremo. Solaris di A. Tarkovskij riassume emblematicamente le angosce e il senso di distacco dalla terra di una fase del cinema fantascientifico alle prese con le determinazioni ultime della vita.
Marcello Monaldi

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