giovedì 12 luglio 2007

Filosofia e pittura nel Novecento, a cura di Andrea Pinotti,Georg

Simmel domanda così con Rembrandt del segreto del rapporto tra la vita e le forme, precipitato nell'enigma del volto e del ritratto. Georges Bataille vede all'opera in Van Gogh (nella sua vita e nella sua arte) quella parte maledetta, mutilata, irriducibile all'economia dello scambio e alle regole della "normalità". Martin Heidegger sente evocata, sempre nella pittura di Van Gogh, la tensione fra Mondo e Terra nella relazione fra ente ed essere, e riconosce al cospetto di un umile paio di scarpe l'insufficienza del concetto di mera cosa nella comprensione dell'arte, che è il porsi in opera della verità. Maurice Merleau-Ponty risale con Cézanne a quella natura pre-umana, che precede quelle categorizzazioni (soggetto-oggetto, sensibile-intelligibile, attività-passività) con cui la nostra logica è solita comprendere il reale. Jean-Paul Sartre si affaccia con Giacometti sul Nulla al quale si correla la nostra immaginazione, su quell'assenza che, lungi dall'essere un mero niente, si intreccia in modo indissolubile all'esperienza quotidiana di insensate presenze. Michel Foucault analizza con Magritte, lucido e spietato, il rapporto tra oggetto, significante e significato, lacerando la consuetudine che avvolge i nessi usuali sclerotizzatisi tra le immagini, le parole e le cose. Jean-François Lyotard sperimenta con l'avanguardia radicale di Duchamp l'impotenza del nostro linguaggio e delle sue regole, che si infrangono contro l'ossimoro, mettendo in discussione lo statuto stesso dell'interprete dell'arte. Michel Henry interroga, con Kandisnkij, il nesso tra arte e vita, convinto che ogni pittura sia nella sua essenza astratta. Gilles Deleuze segue Francis Bacon sulla via, terza rispetto al figurativo e all'astratto, della pittura come resa visibile di forze invisibili, come articolazione di un ritmo non riconducibile all'organicità, ritmo che fonda la logica della sensazione.La filosofia, operante come visione intelligibile dal momento della propria istituzione, si confronta qui con il suo alter ego, la visione sensibile; comprende la genesi figurale delle proprie categorie; ne sperimenta, stupita, la sospensione.Picasso domandava: "Ma che serve dire quello che facciamo quando tutti, se vogliono, possono vederlo?". Braque era dell'opinione che "in arte non c'è che una cosa che valga: quella che non si può spiegare". Gris era convinto che era "meglio non parlarne affatto". Tra il cubismo e la teoria - di qualsivoglia natura - non c'è mai stato non dico idillio, ma nemmeno sopportazione: "Si è cercato di spiegare - è ancora Picasso che parla, sfogandosi con Marius de Zayas - con il cubismo con la matematica, la trigonometria, la chimica, la psicanalisi, la musica, e non so con che altra cosa ancora. Tutto ciò non è stato che letteratura, per non dire "non senso", ed ha portato al cattivo risultato di accecare la gente con delle teorie".Dopo queste parole è per lo meno imbarazzante proporre un'antologia su cubismo e fenomenologia, raccogliendo non-senso su non-senso, contribuendo ad un accecamento del fruitore là dove, semmai, la pittura (e il cubismo) intende far vedere.Ma queste "ricerche fenomenologiche sul cubismo" non sono interpretazioni del cubismo volte a "spiegare" con una teoria filosofica le verità di una prassi artistica - magari in modo più puro, più "chiaro e distinto". Pur nella diversità dei singoli approcci, i singoli contributi hanno in comune questo: tentano di mostrare come cubismo e fenomenologia siano due modi di far vedere. Certo, ciascuno con le peculiarità sue proprie ed irriducibili, ma forse - ed è proprio questo il punto - in modo affine, essenzialmente affine. Un modo che ha innanzitutto a che fare con lo stupore, con la capacità di meravigliarsi di fronte all'ovvio e usuale mondo, e al nostro stare naturalmente in esso. Meravigliarsi, ad esempio, di come il mondo colorato si stinga nella nostra consuetudine ad esso: Paul Eluard ha parlato dei quadri di Picasso "spogli di colore come ciò che si è abituati a vedere, come ciò che ci è familiare". Ma è proprio questa resa nel non-colore (nel grigio, nel bruno) che, in pittura, fa vedere la neutralizzazione dei colori che operiamo sugli oggetti che abitano la quotidianità abituale della nostra esistenza mondana. E, nel mentre la fa vedere, ne sospende l'ovvietà, restituendoci lo stupore di fronte al nostro atteggiamento naturale.Sospensione. In termini picassiani, "soppressione". In termini husserliani, "messa tra parentesi" "epoché" (operazione metodologica coetanea alle Demoiselles d'Avignon). Nell'epoché il ritorno alle cose stesse è possibile solo a patto che si sia disposti a perderle: "Si deve prima perdere il mondo mediante l'epoché - avrebbe scritto Husserl a chiusura delle Meditazioni cartesiane - per riottenerlo poi con l'autoriflessione universale".E il mondo si perde anche nella rappresentazione cubista, che smembra gli oggetti nelle differenti prospettive che l'occhio e il corpo tutto del soggetto assumono muovendosi incessantemente attorno alle cose. Cose che non sono in sé mai date, se non - osserva Husserl - in questa o in quella variazione percettiva, che insiste sull'oggetto come su un tema mai dato. L'assenza del tema in sé, la sua inafferrabilità, è ciò che rende possibile ogni afferramento, sempre incompleto e sempre volto al coglimento della totalità. La percezione risulta così accostamento ad un fantasma, che appare sempre solo parzialmente, promettendo l'evento di un coglimento integrale, che è tuttavia sempre rimandato.Questo tema assente, presente fantasmaticamente nelle infinite variazioni, è l'idea: non realtà perfetta trascendente iperuranica, ma anima del visibile, che si offre ritraendosi ad ogni idein, ad ogni vedere. Ecco che allora l'etichetta di "pittura concettuale", proposta da Apollinaire per il cubismo, assume alla luce di queste considerazioni un nuovo senso: quello di pittura ideale, di pittura dell'idea e dell'essenza.

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