martedì 17 luglio 2007

A colloquio con Lorenzo Bianchi, curatore di una nuova edizione dei «Racconti filosofici»
Torna l’intolleranza, rileggiamo Voltaire 


Spesso scopriamo che alcuni episodi apparentemente insignificanti o curiosi della vita di un uomo di genio sono, in realtà, estremamente rivelatori della sua intelligenza. È il caso di Voltaire - al secolo François-Marie Arouet - filosofo, storico, politico, poeta e romanziere, nonché figura di punta dell’Illuminismo francese e di tutto il XVIII secolo. Un giorno egli acquistò il palazzo di Ferney, dove progettava di trascorrere in pace gli ultimi anni della sua vita. Sembrerebbe un gesto di nessuna rilevanza, ma indagando più a fondo si scopre che la proprietà era a cavallo del confine tra Francia e Svizzera; in questo modo, dal momento che la sua schiettezza e le sue idee progressiste gli avevano alienato i potenti di tutta l’Europa, Voltaire ogni giorno poteva scegliere il lato dove correva minor pericolo di finire nelle mani dei gendarmi, e passeggiare nel giardino che apparteneva alla Confederazione elvetica o in quello situato nella madrepatria. Per riassaporare lo spirito e la sagacia di colui che seppe condensare il suo pensiero e la sua critica della società francese in celeberrimi motti - «Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo», esclamò di fronte all’ateismo di Diderot; «Disapprovo ciò che dici, ma difenderò sino alla morte il tuo diritto di dirlo», diceva difendendo il principio della tolleranza, - possiamo rileggere i suoi racconti filosofici, riuniti in una nuova edizione in Pot-pourri (Feltrinelli, 268 pagine, 9,00 euro). Ne parliamo con Lorenzo Bianchi, curatore del volume e docente di Storia della filosofia del Rinascimento all’Università di Napoli. - Professore, come s’inquadrano questi racconti, con i quali Voltaire intendeva "lasciar intravedere, sotto il velo della favola, qualche fine verità che sfugge al volgo", nella sua opera complessiva? «I racconti filosofici parvero inizialmente occupare uno spazio minore e più appartato, non fosse che per le ridotte dimensioni e per la limitata importanza attribuita loro dallo stesso autore, che li definiva "bagatelle" o "sciocchezze"; rimasero inoltre schiacciati, nel Settecento, sotto la mole delle tragedie a cui Voltaire intendeva legare la propria fama letteraria. Si dovette aspettare il XX secolo perché queste composizioni fossero lette e apprezzate in tutto il loro valore e diventassero l’emblema della leggerezza e dello spirito filosofico a cui si associa il nome di Voltaire. Nati un po’ casualmente e destinati a essere letti fra amici come piacevole passatempo, i racconti accompagnano la vita letteraria di Voltaire per un lunghissimo periodo: Zadig viene pubblicato nel 1747, mentre gli ultimi racconti, come Storia di Jenni, appaiono a stampa nel 1775, quando Voltaire ha ormai più di ottant’anni. Essi ripropongono in una forma agile e spontanea le stesse polemiche filosofiche e religiose che egli andava sostenendo in opere di più diretto impegno teorico come le Lettere filosofiche, del 1734, il Trattato sulla tolleranza del 1763, o il Dizionario filosofico, del 1764. Ricordo che il volume Pot-pourri contiene opere pubblicate a partire dagli anni Sessanta del ’700, relative cioè alla piena maturità di Voltaire». - Quali sono i temi di fondo dei Racconti? «La cultura e la filosofia inglese - Locke e Newton in particolare - e insieme la critica al fanatismo e la difesa della tolleranza religiosa sono il retroterra teorico dei racconti di Voltaire. Vi è inoltre tutta una tradizione letteraria che confluisce nei contes philosophiques: si spazia da storie di gusto esotico e ambientazione fantastica al romanzo epistolare e alla narrazione avventurosa, sulla falsariga dei racconti inglesi di Jonathan Swift - I viaggi di Gulliver - o di Daniel Defoe. Voltaire non si indirizza dunque a un pubblico di specialisti o di filosofi, ma a una più ampia platea di lettori, rappresentata dal ceto professionale e intellettuale che si stava affermando in tutta l’Europa. Era un pubblico nuovo, culturalmente curioso e socialmente mobile, che era anche l’interlocutore privilegiato dell’Encyclopédie di d’Alembert e Diderot». - Secondo lei, si può tracciare un parallelo tra i racconti filosofici di Voltaire e le Operette morali di Leopardi? «Vi sono certamente alcuni elementi comuni, che la critica novecentesca ha in parte rilevato. Non si dimentichi che Leopardi è profondamente legato alla cultura e alla filosofia illuminista e quindi non sorprende che in taluni scritti - penso al Dialogo della Natura e di un Islandese - emergano affinità e convergenze con alcuni racconti di Voltaire. Ciononostante le Operette morali mantengono anche nella forma, che privilegia essenzialmente il dialogo, un impianto più classico, che le colloca entro la tradizione dei dialoghi morali, come quelli di Plutarco o di Luciano. I racconti di Voltaire e le Operette morali di Leopardi hanno dunque due registri diversi: l’uno più giocoso e brillante, l’altro più legato a una tradizione etica». - Qual è l’insegnamento più importante che ci ha lasciato Voltaire? «Bisogna innanzitutto ricordare che alcune delle grandi questioni da lui sollevate - basti pensare all’idea di ragione, di libertà, tolleranza e cosmopolitismo - sono alla base della nostra civiltà giuridica e politica. Malgrado ciò, oggi si sente molto la mancanza di una critica "voltairiana" della ragione, ovvero l’esigenza di denunciare le nuove forme di fanatismo e intolleranza: Voltaire è drammaticamente attuale in questo inizio di millennio segnato da rinnovati conflitti etnici e religiosi e dall’insorgere di nuovi integralismi. E in questa prospettiva l’idea di tolleranza si configura come il lascito più importante di Voltaire, con cui il nostro secolo è ancora costretto a confrontarsi».
 
 
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