"C’è un segreto per leggere Kafka ed amarlo" di Italo Alighiero Chiusano
Bisogna sapere, di Franz Kafka, che nacque a Praga (il 3 luglio 1883). Praga, capitale boema dell’allora impero asburgico. Città di magica bellezza (lo è ancor oggi, con tutto quello che è successo nel Novecento), città di imperatori e di rabbini, di alchimisti e di scienziati, di artisti, santi, eretici. Città a tre colori perché composta di tre diverse etnìe: la cèca, l’ebraica, la tedesca. (Oggi invece è una città praticamente monocolore). Bisogna sapere, di Franz Kafka, che apparteneva al popolo ebraico, ma che studiò in scuole tedesche e scelse la lingua tedesca per la sua futura carriera di scrittore. Però conosceva bene anche il boemo e aveva amicizie e relazioni anche con quelli che oggi chiameremmo i cecoslovacchi. Bisogna sapere, di Franz Kafka, ch’era un introverso ipersensibile e geniale, figlio di un facoltoso commerciante ebreo di natura sanguigna e autoritaria: cosa che gli coltivò un ‘complesso paterno’ chiaramente riscontrabile nella famosa (e mai spedita) Lettera al padre.Bisogna sapere, di Franz Kafka, che ebbe amicizie importanti – sul piano intellettuale e umano – con scrittori locali, per lo più ebrei di lingua tedesca, come Franz Werfel e il prediletto, fedele Max Brod. Ben presto (1904-06), sentita in sé la vocazione dello scrivere, cominciò a mettere in carta racconti, considerazioni, aforismi, frammenti di romanzo (Descrizione di una battaglia, Preparativi di nozze in campagna), cominciando a pubblicare nel 1908 (Contemplazione). Ma è importante anche sapere che, figlio critico ma realista di una borghesia ‘coi piedi in terra’, non sognò mai una vita di sola arte o di bohème, ma - laureatosi in legge nel 1906 – fu impiegato per molti anni (1908-22) prima presso le Assicurazioni generali, poi presso l’Istituto di assicurazione per gl’infortuni sul lavoro. Non guasta nemmeno sapere che fu un impiegato e funzionario non solo molto diligente ma anche inventivo. Come persona fu sempre gentile, delicato, capace di ascoltare e di aiutare, un giovane magro e di bellissimo aspetto (sembrava un principe indiano, sorriso enigmatico e occhi di gazzella), non privo di un cauto, sfuggente umorismo.Bisogna ancora sapere, di Franz Kafka, che sentiva l’attrattiva del matrimonio, della paternità, della consacrata sistemazione sociale. Con Felice Bauer, non bella ma a lui devota e molto paziente, si fidanzò in forma ufficiale, poi ruppe, poi si rifidanzò, poi ruppe in modo definitivo. Con Milena Jesenská, la sua traduttrice in boemo, bella e intelligentissima, ebbe un rapporto intenso ma votatoal nulla. Con l’una e con l’altra intrecciò due lunghi epistolari che ci rivelano, di lui, i lati notturni: la disperazione sotto tanta urbanità, la paura esistenziale e metafisica sotto tanto coraggio, la nevrosi ossessiva e demoniaca sotto una vita così normale, il vizio segreto e maniacale dello scrivere, non curando successi esterni o adesioni alla moda, ma solo in obbedienza a quel ‘mulino di preghiera’, a quella terapia senza speranza, a quel quotidiano harakiri. Con la giovane Dora Dymant (o Diamant) visse un periodo felice alla vigilia della morte e se la tenne vicina fino all’ultimo: ma il matrimonio gli fu vietato dal padre di lei.Bisogna sapere infine, di Franz Kafka, (infine? mille cose dovremmo ancora sapere, di lui) che nel 1917 ebbe i primi chiari sintomi della tubercolosi che lo avrebbe condotto alla morte. La vide avvicinarsi, quella ‘morte annunciata’, insieme con orrore e con sollievo: era la bestia che se lo mangiava vivo giorno per giorno (e per curarsi fece viaggi, anche in Italia, passò mesi in varie case di cura), ma era anche ciò che lo dispensava dal matrimonio, dalla carriera, dalla responsabilità di una vita ‘regolare’. Dopo aver quasi perso la voce (anche la sua laringe era ormai intaccata), dopo essersi ridotto a uno scheletro per la quasi impossibilità di ingerire cibo, morì il 3 giugno 1924 nel sanatorio di Kierling presso Vienna.Bastano questi pochi dati per riscontrare, in Kafka e nella sua vita, lacerazioni, contrasti, tensioni, sofferenze, contraddizioni. Le tre stirpi e le due lingue (anzi, tre anch’esse, mettendoci lo jiddish) tra cui fu disputato e conteso; il conflitto col padre; la scissione tra vocazione letteraria e impiego burocratico; lo squilibrio tra normalità borghese e intima demonia; il rapporto schizofrenico con le donne; la convivenza con la malattia mortale.Nessuno di questi attriti fu di poco momento o non passò, magari deformato fino all’irriconoscibile, nella sua opera. Vi si aggiungano, importantissimi, altri elementi. Il senso religioso della vita, ma tra virgolette, ossia non solo alieno da ogni fissazione confessionale, ma depauperato di ogni vera speranza, di ogni autentico conforto, e perciò ridotto a sperimentare, della religiosità, solo gli aspetti più cruciali: il silenzio o la lontananza o addirittura l’inesistenza di Dio, il sadismo vessatorio di un’inafferrabile istanza superiore che può anche assumere la ghigna di un demone. Ancora: il rapporto sfuggente e controverso con l’ideologia e con l’ebraismo: dalle simpatie giovanili per gruppi socialisti e anarchici al vagheggiamento tardo di un trasferimento in Palestina, dalla presenza più o meno sotterranea dello spirito biblico-mosaico-profetico alle consonzanze col misticismo poetico-popolaresco del chassidismo o all’ammirazione per la grande vitale del teatro jiddish. Tutto questo, conservando una totale libertà di giudizio e di movimento. Ancora: un’attenzione al proprio io, a ogni sua più piccola reazione e sfumatura, che ne fa quasi un mostro. Ma senza cadere mai nel narcisismo, tanto il suo autoritratto è sempre in nero (o, se si vuole, in un bianco da spettro o da radiografia clinica).È in questo suo senso di colpa, di responsabilità totale che molti hanno visto il centro di tutto il suo vivere, operare e soprattutto scrivere. Da quel germe infetto che è lui stesso (almeno com’egli si vede) il morbo si propaga all’universo intero: colpa primordiale e assoluta che viene continuamente giudicata e, per vie oscure e spesso grottesche, condannata, ma senza essere mai distrutta. Un prodigio è che una visione del mondo così seppiacea, infera e tapina, anziché ispirare disgusto, susciti in noi una sorta di ghiotta vitalità, di attenzione ilare e divertita, e non solo nelle venature umoresche, ma anche nei passi più dilacerati e luttuosi. È, certo, il vecchio effetto della poesia, che ha sempre redento in contemplazione rasserenante anche le visioni che, di per se stesse, dovrebbero riuscirci sgradevoli. Ma c’è, in Kafka, una nota più peculare. Forse il dono di una speranza tanto più efficace quanto più accuratamente sepolta, di una pulizia morale che abbaglia proprio perché operata con voce spenta e in assoluta umiltà, di un’intelligenza tesa fin quasi a spezzarsi, ma in questo rischio vibrante e lucida come acciaio.Ciò premesso, ci si dovrebbe chiedere che cosa, di Kafka, si debba leggere. La risposta che viene subito alle labbra: «Tutto!» può essere criticamente ineccepibile ma pecca di scarso realismo. E forse sarebbe un cattivo servizio reso a Kafka. Il ‘tutto Kafka’, a parer nostro, viene poi da sé, senza che uno se lo debba proporre in partenza.In un secondo tempo, senza dubbio, ci si dedicherà alle Lettere. A parte quella fondamentale Al padre, emergono quelle scritte a tre donne: alla plurifidanzata Felice Bauer, a Milena, alla sorella Ottla (di cui converrà sapere, ancora, che finirà massacrata dai nazisti in campo di concentramento, insieme con le altre sorelle Elli e Valli). Sono documenti in cui Kafka si confessa per rifrazioni multiple, ora con elegante civetteria, più spesso con trivellante crudeltà, senza mai cadere una sola volta nel banale. Il lettore principiante si dedicherà anche, un giorno, ai Diari e ai Quaderni: non solo per una sterminata raccolta di aforismi e di osservazioni che ti tengono continuamente all’erta per lo scarto piccolo ma decisivo tra l’esattezza quasi scientifica della realtà colta sul fatto e un’alonatura simbolica metaforica favolosa che ne fa una sua privatissima mitologia, ma anche un vivaio di abbozzi narrativi, di mininovelle, di romanzi allo stato frammentario, alcuni poco più di una scheggia, altri così perfetti e compiuti da non farne rimpiangere un ulteriore sviluppo.Tuttavia il modo migliore, secondo noi, di affrontare Kafka per la prima volta è quello di leggerne alcuni suoi scritti decisamente narrativi, diciamo pure di fiction. In cima a tutto metterei il romanzo incompiuto (come gli altri, ma non riesco a sentirlo tale) Il processo, uscito postumo nel 1927. Angosciosamente onirico ma cristallino come un filmato sulla vita degli insetti (anche se di realismo, in Kafka, non si può mai parlare), è la storia di un impiegato, Joseph K., che una magistratura burocratica, cavillosa e impenetrabile accusa e perseguita per una colpa oscura da cui egli non sa come difendersi, pur sentendone misteriosamente il peso, e per cui morirà scannato come un cane. Qui risulta al meglio il tono piano, lo stile preciso e senza sbalzi, classicamente composto e antiretorico, quasi grigio, con cui Kafka sa raccontare, mescolando scene di una quotidianità disarmata a momenti di una stranezza impressionante e mitico-simbolica.Altra lettrua da privilegiare è il lungo racconto La metamorfosi (1915). È la celeberrima storia di Gregor Samsa, un modesto commesso viaggiatore che una mattina si sveglia trasformato in un gigantesco scarafaggio. Da allora egli percorre tutte le tappe più degradanti dell’emarginazione più schifata ad opera dei propri familiari. In ultimo farà una squallida morte solitaria (ma non senza luci di mistica accettazione) e finirà nella spazzatura. Per quanto Samuel Beckett e Thomas Bernhard ci abbiano abituato all’avvilimento della dignità umana, Kafka supera tutti in grandezza tragica unita a una quasi graziosa cesellatura dei particolari.A questo punto, se l’effetto Kafka ha cominciato a operare sarà il caso di dedicarsi agli altri due romanzi. Il primo è America (pubblicato nel 1927, ma di cui un frammento, dal titolo Il fochista, era stato stampato nel 1913). Il libro ha un andamento più cordiale degli altri, e un amabile protagonista: un ragazzo che viene spedito negli USA per espiare una piccola colpa amorosa. Nel paese delle possibilità infinite egli vive, con fresca ingenuità, peripezie svariate e pittoresche, ma su cui incombe una civiltà babelica e labirintica, dove certo quel ‘puro folle’ finirà per smarrirsi.Il secondo romanzo è Il castello, edito anch’esso postumo nel 1926: uno dei tanti capolavori che videro la luce dopo la morte dell’autore, provvidenzialmente disobbedito dall’amico Max Brod, a cui egli aveva imposto come ultima volontà (altra cosa di Kafka che è doveroso sapere) di dare alle fiamme tutte le sue carte superstiti. L’eroe – molto negativo – di quest’altra favola seriosa è un agrimensore, K. (un ennesimo autoritratto cifrato, ma nemmeno poi troppo, dello stesso Kafka). Convocato a prestare la sua opera dai ‘signori’ di un certo castello, K. si perde in meschine avventure e in una snervante attesa in mezzo alla comunità che vive là intorno, senza mai riuscire ad entrare in quel metafisico fortilizio che è quasi il simbolo di ogni inattingibile traguardo.Letti i tre romanzi, letta La metamorfosi, ci si apre il campo vasto e ricco dei racconti. Ne metto in evidenza quattro soli, tanto per consigliare un assaggio senz’altro significativo.1) Nella colonia penale. Come nel Processo Kafka fu profeta (nel vero e proprio senso di previsore) della giustizia-vampiro, dei processi-incubo a cui ci avrebbe poi abituato il mondo dei regimi totalitari, così nella Colonia penale egli descrive, con orrenda e smagliante meticolosità, la ‘civiltà’ della tortura, della degradazione e reificazione dell’uomo attraverso la sofferenza impostagli con la perfezione di un’opera d’arte: una realtà che avrebbe trovato nei futuri campi di sterminio il proprio laboratorio privilegiato.2) La condanna (il racconto che Kafka scrisse in una sola notte tra il 22 e il 23 settembre 1912 e che lo rivelò a se stesso). Chi conosce anche poco la vita dell’autore o ne abbia letto la Lettera al padre, vedrà quanto ci sia di autobiografico nella storia del giovane George Bandemann, maledetto e votato alla morte da un padre vecchio e infermo ma inesorabile che non gli perdona di voler crearsi un proprio spazio vitale.3) Un messaggio imperiale (breve frammento di un più vasto racconto: Durante la costruzione della muraglia cinese). Esso ripercorre in senso inverso il tragitto del Castello. Qui è dall’alto del potere supremo che un misterioso messaggio si fa strada verso un lontanissimo suddito sperso nello sconfinato impero. Pazzesco anche solo immaginare che il messo possa uscire dalle stanze, dalle scalinate, dai cortili del labirintico palazzo dell’imperatore, più assurdo ancora che possa attraversare la sozza e sterminata città imperiale, poi arrivare a quella remota provincia, a quell’oscuro destinatario. Il quale intanto se sta alla sinestra, sogna e aspetta.4) La tana. Protagonista, un non definito animale, forse una talpa, che scava, sottoterra, affannosamente, gallerie e cunicoli, per impedire che altri animali entrino nel suo regno sotterraneo e lo devastino. Ma s’indovina che è uno sforzo vano: presto o tardi il povero braccato verrà raggiunto dai suoi persecutori. Mi fermo qui. Ho proposto più che abbastanza per fare, di un lettore ignaro, un kafkiano accanito. Il principiante stia comunque in guardia dalle chiavi di lettura, che molti si affretteranno a porgergli perché gli si schiudano i significati occulti di Kafka, peggio ancora le sue ‘tesi’. L’opera di Kafka si spiega forse tutta in chiave freudiana, come dilatazione mostruosa del complesso del padre? O alla base di essa starebbe l’alienazione provocata nell’uomo moderno dalla società capitalistica, secondo la visione di Marx? Oppure, come voleva Max Brod, Kafka sarebbe tutto sommato un ebreo ortodosso (magari molto velato) che esprime i valori della trascendenza biblica? Oppure è determinante, in questo mondo di angosce e di realtà distorte, la consapevolezza della malattia mortale? O, di qualunque cosa parli, Kafka non riesce mai a dimenticare di essere ebreo e si sente emargianto da una società ‘diversa’?Consiglio al novizio di prendere atto di tutte queste proposte, ma soppesandole con molta diffidenza. Ciascuna di esse può portarci avanti, ma sarebbe deleterio affidarci a una griglia di lettura, coartando il cangiante, sfingeo, inesauribile mondo poetico di Kafka entro i rigidi paraocchi di un’interpretazione a senso unico.Piuttosto, messe rispettosamente da parte (dopo averle bene osservate) le ‘ chiavi di lettura’, si badi molto ai miti, cioè a quei personaggi o a quelle situazioni aventi una forte carica emotiva o simbolica che ne allargano a dismisura la risonanza. Ci aiutano gli stessi titoli delle opere kafkiane, o i loro protagonisti: il mito del ‘processo’, della ‘metamorfosi’, della ‘colonia penale’, del ‘castello’, della ‘tana’, del ‘digiunatore’. Il mondo moderno li porta dentro la sua memoria inconscia come un vocabolario segreto, che allude a cosa collettive, oscure e supreme sembrando trattare solo di una singola storia, di un personaggio ben circoscritto. Il mito, oltre ad avere questa carica in continua espansione pur partendo da un nucleo microscopico, è anche datore di gioai e di vitalità, né soffre per nulla (questa, anzi, è una delle sue caratteristiche positive) di quel tanto di enigmatico e delusorio che le sue immagini, le sue vicende sempre posseggono. È grazie a ciò che i romanzi, i racconti di Kafka ci regalano, nei casi di esito felicemente raggiunto, una soddisfazione e pienezza pulite e senza residui, mentre assai spesso i suoi aforismi, le sue letture, le sue osservazioni diaristiche lasciano in noi una smania tormentosa, una sorta di curiosità purtroppo sempre insoddisfatta, di capire di più, di capire meglio, capire tutto.È un classico, Kafka? Sì, e dei maggiori, se si guarda all’altezza del discorso artistico, all’originalità delle invenzioni, alla novità dei mezzi, alla perfezione dello stile. No, se per classico s’intende uno scrittore già totalmente ‘arrivato’ e ormai soltanto da ammirare nella staticità del suo essere parmenideo. In questo senso Kafka è, al contrario, in continuo divenire, una bestia proteiforme o un angelo che si sottrae col suo volo guizzante alla nostra presa. Per dirla in termini più umilmente letterari: un autore di perpetua avanguardia. Ma un’avanguardia che è, al tempo stesso, classicità. Un unicum? Forse no
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