lunedì 22 ottobre 2007

Mickey Mouse è il più miserevole ideale mai esistito...

Di Fabrizio Lo Bianco

Una premessa.
Mickey Mouse è il più miserevole ideale mai esistito... I sentimenti salutari dicono a ogni giovane indipendente e ogni persona dignitosa che il parassita sporco e immondo, il maggior portatore di batteri del regno animale, non può essere il tipo ideale di animale... Basta con la brutalizzazione giudaica della gente! Abbasso Mickey Mouse! Solleviamo la Croce Svastica!
- da un articolo di giornale, Pomerania, Germania, a metà degli anni Trenta
Questo brano è riportato all’inizio della seconda parte di Maus, romanzo a fumetti nato dal genio creativo dell’ebreo-americano Art Spiegelman.
Nella sua opera egli racconta le vicissitudini del padre Vladek, ebreo-polacco, nell’Europa funestata dal nazismo. Dalla vita felice agli inizi del secolo alle prime avvisaglie di turbamento negli equilibri internazionali, sino all’avvicinarsi prepotente della nube grigia del nazionalsocialismo e alla sua affermazione. Sono anni vissuti nel terrore: le comunità ebraiche vengono perseguitate e la “soluzione finale” si prospetta da tempo, ma pochi vi danno credito o fanno finta che un abominio simile non sia umanamente realizzabile.
In realtà lo sterminio degli ebrei (come quello di altre minoranze etniche, religiose, sociali) viene annunciato sin dagli anni Venti, quando Adolf Hitler scrive il suo delirante Mein Kampf. L’ottusità, la complicità e, forse, la paura di chi non vuole “vedere” favoriscono il realizzarsi di tragedie epocali.
Anche per questo Maus è un’opera fondamentale non solo per chi ama il fumetto, ma anche per chi vuole semplicemente conoscere la storia. Il fumetto è un veicolo d’informazioni eccezionale, che arriva ai giovani (ma non solo a loro) in maniera rapida. L’epopea di milioni di prigionieri dei lager si riflette nell’esperienza di Vladek Spiegelman. Hitler ama definire gli ebrei “ratti”: Art Spiegelman fornisce ad eventuali nostalgici un sussidio didattico. Visto che per le menti “illuminate” del Reich è sempre necessario fare paragoni zoologici, l’artista offre un fumetto nel quale gli ebrei sono topi e i nazisti sono gatti. Hitler odia le avanguardie artistiche perché poco funzionali alla trasmissione degli ideali politici ed estetici della Germania: Spiegelman, tanto per rendere comprensibile proprio a tutti il suo racconto, rinuncia a qualsiasi sperimentazione fumettistica e rispetta la scansione canonica delle vignette. Infine, il Führer predilige tutto ciò che è squisitamente tedesco (dai lineamenti ariani della Hitlerjugend alle tradizioni popolari e artistiche): ecco che l’autore di Maus realizza le sue tavole inondandole di un nero espressionista che ha radici profonde proprio nella storia (dell’arte) germanica. È su quest’ultimo aspetto che ci soffermeremo.
Cenni storico-artistici.
Maus, il primo fumetto ad aver vinto il prestigioso Premio Pulitzer, massimo riconoscimento mondiale per un’opera “giornalistica”, è, come detto, frutto di un grande rigore artistico e morale. È un’opera d’arte quindi non solo fumettistica. Per realizzarla l’autore ha scelto di utilizzare un segno che potremmo definire “espressionista”.
La parola espressionismo1 è spesso seguita dall’aggettivo “tedesco”. In realtà l’espressionismo è per antonomasia quello tedesco. La forza, la deflagrante cattiveria (espressiva), la furia rivelatrice espressionista è soprattutto quella germanica: non l’hanno avuta né Matisse (1869-1954) né i fauves2, troppo solari e mediterranei, che pure ne hanno condiviso certi aspetti formali, né tanto meno gli action painters3 americani, che ne hanno tradotto la violenza implicita in violenza gestuale generando l’espressionismo astratto. Ha avuto sicuramente quella forza Edvard Munch (1863-1944), padre putativo - insieme a Francisco Goya (1746-1828) - dell’espressionismo e della sua capacità introspettiva, ma la fluidità delle sue pennellate ha connotazioni così personali che non è possibile riscontrarle negli artisti germanici più “feroci”. Si badi bene che “feroce” ha la stessa radice latina di fiera (intesa come belva), ossia di uno dei corrispettivi italiani del termine francese fauve. In effetti un simile aggettivo si adatta meglio a descrivere l’attitudine degli espressionisti teutonici piuttosto che di quelli transalpini. Un filo sottile, ma ben visibile, unisce questa ferocia artistica tedesca (ribelle ai dettami accademici e alle mode) con quella successiva, non più formale ma reale, dello stesso popolo (che per ritrovare l’orgoglio nazionale si mette nelle mani di un dittatore sanguinario) e con quella liberatoria “intimista” di Spiegelman. Questo fumettista consuma la sua vendetta personale sulla aberrazione nazista attraverso una testimonianza potente quanto Schindler’s list di Spielberg nel cinema o Kristallnacht di Zorn nella musica contemporanea. Vediamo come.
Da Albrecht Dürer ad Art Spiegelman (passando per Heckel e compagni)
All’alba del XX secolo un lungo rivolo d’inchiostro nero attraversa la grande Germania, e non mostra curvature dolci, ma ha sempre spigolature ardite, gomiti nervosi, graffiature che stridono come unghie su una lavagna. È il fiume denso dell’espressionismo. Nasce non dalle cime dell’Unione artistica Die Brücke (Il Ponte), costituitasi a Dresda nel 1905, ma tra le intricate selve del medioevo teutonico. E sfocia, purtroppo, nella melmosa palude del Terzo Reich. Nasce nel medioevo perché è da allora che la terra tedesca partorisce geni artistici capaci di imprimere una forza evocativa impressionante alle proprie opere incisorie, soprattutto alle xilografie4. Ad esse l’intaglio ligneo conferisce una carica “espressionista” che altre tecniche grafiche non hanno. In opere di maestri come Martin Schongauer (1453-1491) e Albrecht Dürer (1471-1528), troviamo inoltre sviluppati temi che, pur essendo legati alla cultura cristiana, mostrano sempre suggestioni “magiche” o allegoriche: pensiamo all’atmosfera da sabba di un’incisione come I Quattro Cavalieri (1498) di Dürer.
Agli inizi di questo secolo, quando ancora il pubblico delle grandi mostre europee si sta a mala pena abituando all’Art Nouveau, un fervore di ribellione artistica attraversa l’arte del Vecchio Continente. Pablo Ruiz Picasso (1881-1973) e Georges Braque (1882-1963) affilano le lame del cubismo in Francia, Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) olia i cingoli del futurismo in Italia. E in Germania, per contrapporsi all’accademismo, quattro giovani architetti giocano d’anticipo rispetto all’istinto di distruzione (figurativa) delle avanguardie citate. Costituiscono Die Brücke nel ‘05, un “ponte” lanciato sì verso un’arte innovativa, ma che soprattutto recupera il passato creativo autoctono. Questo offre loro un patrimonio ricco di esempi mirabili di un’arte talvolta irrazionale, sia dal punto di vista formale (con la totale elusione delle proporzioni nelle opere scultoree come le varie Pietà o i Crocifissi romanici e gotici) che dei contenuti (con mescolanze frequenti di simbologie e temi cristiani e pagani). La spinta è, dunque, più distruttiva che creativa: Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938), Fritz Bleyl, Erich Heckel (1883-1970) e Karl Schmidt-Rottluff (1884-1976) danno vita ad una delle esperienze artistiche più entusiasmanti del Novecento. Il progetto è bellicoso: spazzare via un’arte ormai obsoleta grazie alla forza dirompente di un segno che “esprima” e generi emozioni vere. In confronto il fauvisme appare un idillio di colori e forme. I tedeschi, per contro, sprigionano “cattiverie” d’autore che sacrificano, ad esempio, la linea curva, sostituita nella maggior parte dei casi dalla durezza delle linee spezzate. Negli anni Dieci l’espressionismo trova poi una prosecuzione autorevole nel Der Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro) e un’estrema propaggine nella Nuova Oggettività, a partire dagli anni Venti. L’intensità e la forza del segno della Brücke viene ulteriormente alimentata dagli artisti che partecipano alla rivista “Der Sturm”5, tra i quali Max Beckmann (1884-1950) e Lyonel Feininger6 (1871-1956).
L’ascesa del nazismo tuttavia schiaccia l’espressionismo, ritenuto una forma di arte “degenerata”7 da eliminare o, al limite, come poi accadde, da mostrare come esempio delle nefandezze causate dalla “brutalizzazione giudaica” operata sull’arte tedesca. Nonostante ciò, certo vitalismo e interesse per il medioevo magico e ricco di mistero, oltre che di una religiosità affollata di mostri e demoni d’ogni sorta, non può non rappresentare un elemento di fascinazione tanto per gli artisti della Brücke quanto per gli “artisti” frustrati del regime (tra i quali lo stesso Hitler, che si reputa «non un poltico ma un architetto, grande almeno come Michelangelo»8 ). Non sono pochi, inoltre, gli espressionisti che finiscono coll’abbracciare il nazionalsocialismo (uno tra tutti, Kirchner, che poco tempo dopo tale adesione si suicida).
Un fumetto come nemesi.
Art Spiegelman nasce a Stoccolma nel 1948 da genitori ebrei-polacchi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, anche se il peso di quell’esperienza porterà la madre Anja a togliersi la vita diversi anni dopo.

Seguiamo il percorso storico-culturale che porta da un’avanguardia artistica nata in Germania a un monumento della letteratura per immagini quale quello di Spiegelman. Non è un percorso casuale, ma lo si può ricondurre ad una scelta ben precisa dell’autore.
A trent’anni dall’Olocausto - la prima parte di Maus risale al 1973 -, Art Spiegelman deve raccontare una storia dalla forte tensione drammatica e vuole farlo con grande rigore documentaristico: intervista quindi suo padre e comincia a disegnare. E disegna proprio se stesso che intervista il padre per ricostruire gli anni tragici in cui Vladek ha subìto sulla sua pelle la barbarie nazista. Una sorta di metafumetto nel quale, uno dei documenti più toccanti è rappresentato da un altro fumetto di Spiegelman (Prisoner on the Hell Planet) che egli inserisce nel tessuto del racconto. Una sovrapposizione di piani linguistici che coinvolge quindi non solo il passato, ma anche il presente poiché nella vita di tutti i giorni Spiegelman è, per l’appunto, un fumettista.
Per raccontare questa storia, egli fa una scelta che ha la stessa forza e, evidentemente, lo stesso significato dell’uso deliberato del bianco e nero da parte di Steven Spielberg nel film Schindler’s list: anche Spiegelman sceglie il bianco e nero, con un segno volutamente minimalista ma quanto mai efficace nel mostrare ciò che è essenziale alla narrazione per immagini e assolutamente impermeabile a qualsiasi tentazione autocommiserativa. Per far sì che il messaggio sia ancora più diretto, utilizza un’antica figura retorica, da favola esopiana: i nazisti sono gatti, gli ebrei sono topi. E colpisce duro proprio con la “semplicità” del segno xilografico in bianco e nero, il segno germanico per eccellenza, e con la metafora dell’uomo-animale. Ecco sublimata la nemesi nei confronti del nazismo: una denuncia e rappresentazione di quegli eventi attraverso il “segno” espressionista e xilografico. Hitler ufficialmente mette al bando gli artisti “degenerati”, eppure una certa mistica espressionista pervade lo stesso nazismo. La violenza formale degli artisti espressionisti trova un’eco forse non casuale nella violenza concreta del Reich. Spiegelman consuma la sua vendetta personale affondando il coltello (= sgorbia = pennino) nel cuore antisemita dell’Europa di ieri e in parte, purtroppo, anche di oggi A tal fine utilizza quanto di più autenticamente germanico abbia prodotto l’arte del XX secolo. Le tavole di Maus lo rivelano. Possiamo accostare Spiegelman a Heckel o a Schmidt-Rottluff per sottolineare un parallelismo evidente. In questo fumetto il predominio del colore nero, di un segno “sporco” e graffiato, è di per sé “espressionista”. Tale cifra stilistica è presente anche nell’opera di altri fumettisti: per restare negli Stati Uniti citiamo brevemente Will Eisner (n. 1917), il Frank Miller (n. 1957) di Sin City o Jack Kirby (1917-1990). In questi casi tuttavia lo stile ha una valenza prevalentemente estetica e cattura il lettore grazie alla creazione di suggestioni forti. E comunque, volendo schematizzare, anche nel segno espressionista degli artisti presi in considerazione esiste un rapporto di funzionalità rispetto al tipo di storia che si vuole raccontare. Schematicamente abbiamo che:

Lo stile di ogni artista, il percorso fatto per raggiungerlo, fa storia a sé. Relativamente a Maus, parafrasando il titolo di un celebre film di Alan J. Pakula9 , potremmo parlare de “La scelta di Art”. Infatti Spiegelman “sceglie” di mettere in secondo piano l’aspetto estetico a favore di un fumetto che lasci una traccia indelebile anche tra chi non si sarebbe mai accostato altrimenti alla letteratura per immagini. Infine si ricordi un aspetto dell’opera spiegelmaniana: Maus resta comunque un fumetto realista. L’autore è oltre tutto il fondatore di “Raw”, un’importante rivista di fumetti e grafica d’avanguardia nella quale si attinge a piene mani da correnti artistiche come cubismo, futurismo, ecc. Nel realizzare la sua opera più importante Spiegelman rinuncia all’utilizzo di linguaggi figurativi che potrebbero essere di impedimento o di distrazione da un’immediata comprensione del messaggio: proprio come sarebbe piaciuto a Hitler, se non fosse che i suoi odiati topi-ebrei, grazie anche a Maus, stanno vincendo la battaglia contro i revisionisti e i negazionisti che vorrebbero annichilire la cruda realtà di un genocidio10 .

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