giovedì 28 agosto 2008

DOSTOEVSKIJ, IL PROBLEMA DELLA TEODICEA

a cura DI D. PICCHIOTTI

Si tratta di un argomento spesso trattato dai filosofi. L’interpretazione di Dostoevskij è che per certe forme di violenza non ci può, né ci deve essere alcuna forma di perdono, né sulla terra e neppure in cielo.

    Ebbene, figurati che, in ultima analisi, questo mondo di Dio non l’accetto, pur sapendo che esiste, anzi non l’ammetto per nulla. Non è Dio che non accetto, comprendi, ma il mondo da Lui creato, è il mondo di Dio che non accetto e non posso risolvermi ad accettare. Mi spiego meglio: io sono convinto, al pari di un bimbo, che le sofferenze saranno sanate e cancellate; che tutta l’umiliante commedia delle contraddizioni umane dileguerà come un pietoso miraggio, come la poco nobile escogitazione di un essere imbelle e meschino, come un atomo dello spirito umano euclideo; che in ultimo, alla fine del mondo e nel momento dell’eterna armonia, si compirà e si rivelerà qualcosa di tanto prezioso che basterà per colmare tutti i cuori, per placare tutte le indignazioni, per riscattare tutti i misfatti degli uomini, tutto il sangue da essi versato, basterà perché sia possibile non soltanto il perdono, ma anche la giustificazione di quanto è accaduto fra gli uomini. E sia, avvenga pure e si riveli tutto questo, io però non l’accetto e non lo voglio accettare.
– Ascoltami: io ho preso come esempio i soli bambini perché la cosa riuscisse piú evidente. Delle altre lacrime umane, di cui è imbevuta tutta la terra, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, avendo di proposito ristretto il mio tema. Io sono un verme e confesso in tutta umiltà che non posso comprendere a qual fine tutto sia stato cosí congegnato. Gli uomini stessi, dunque, sono colpevoli: era stato dato loro il paradiso, essi hanno voluto la libertà e hanno rapito il fuoco al cielo, sapendo che sarebbero diventati infelici; non c’è quindi motivo di compiangerli. Oh, nel mio povero spirito terrestre euclideo, io so soltanto che il dolore esiste, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa scaturisce direttamente e semplicemente da un’altra, che tutto scorre e si equilibra; ma, già, queste non sono che bubbole euclidee, io lo so bene, e non posso adattarmi a vivere in conformità di esse! Che importa che non ci siano colpevoli, che ogni cosa scaturisca direttamente e semplicemente da un’altra e che io lo sappia! A me occorre un compenso non nell’infinito, chissà dove e chissà quando, ma già qui sulla terra, e tale che io stesso lo possa vedere. Io ho creduto e voglio vedere anch’io, e, se allora fossi già morto, mi si risusciti, perché se tutto dovesse avvenire senza di me, sarebbe una cosa troppo ingiusta. Io non ho mica sofferto per concimare col mio essere, con le mie colpe e le mie sofferenze, la futura armonia in pro di qualcuno. Io voglio vedere coi miei occhi il daino ruzzare accanto al leone e l’ucciso alzarsi ad abbracciare il suo uccisore. Io voglio essere presente quando tutti apprenderanno di colpo perché tutto sia stato cosí. Su questo desiderio poggiano tutte le religioni della terra, e io credo. Ma però ecco i bambini: che ne farò? È questo il problema che io non posso risolvere. Per la centesima volta ripeto: le questioni sono molte, ma ho preso soltanto i bambini, perché qui è ineluttabilmente chiaro ciò che ho bisogno di dire. Ascolta: se tutti devono soffrire per acquistare con la sofferenza l’eterna armonia, che c’entrano qui i bambini? Dimmelo, ti prego! Non si capisce assolutamente a che scopo debbano anch’essi patire e perché debbano acquistarsi con le sofferenze quell’armonia. Perché hanno servito anch’essi da materiale e da concime per preparare a vantaggio altrui l’armonia futura? La solidarietà fra gli uomini nel peccato io la comprendo, comprendo la solidarietà anche nella espiazione: ma la solidarietà nel peccato non riguarda i bambini e, se la verità sta realmente nel fatto che anche loro sono solidali coi padri in tutti i delitti da questi commessi, una tale verità non è certo di questo mondo e mi riesce incomprensibile. Qualche bello spirito dirà magari che tanto il bambino crescerà e avrà il tempo di peccare, ma non è mica cresciuto quel fanciullo di otto anni contro il quale furono sguinzagliati il cani! Oh! Aljòsa, io non bestemmio! Comprendo bene come dovrà scuotersi l’universo quanto tutti in cielo e sotterra si fonderanno in un inno solo e tutto ciò che vive o ha vissuto griderà: “Tu hai ragione, Signore, giacché le Tue vie ci sono rivelate!”. Quando la madre abbraccerà il carnefice che fece straziare il figlio suo dai cani, e tutt’e tre proclameranno fra le lacrime: “Tu hai ragione, Signore!”, allora certo sarà l’apoteosi della conoscenza e tutto si spiegherà. Ma ecco, proprio qui è il busillis, è proprio questo che io non posso accettare. E mentre sono sulla terra mi affretto a prendere le mie disposizioni. Vedi, Aljòsa, se vivrò anch’io fino a quel momento o se risusciterò per vederlo, potrà realmente accadere che anch’io esclami con gli altri, vedendo la madre abbracciare il carnefice del suo bimbo: “Hai ragione, Signore!”, ma io questo non lo voglio esclamare. Finché c’è ancor tempo, corro ai ripari e perciò rifiuto assolutamente la suprema armonia. Essa non vale una lacrima anche sola di quella bambina martoriata che si batteva il petto col piccolo pugno e pregava il “buon Dio” nel suo fetido stambugio, versando le sue lacrime invendicate. Non la vale, perché quelle lacrime son rimaste da riscattare. E dovranno essere riscattate, altrimenti non ci potrà essere neppure l’armonia. Ma come, come le riscatterai? È forse possibile? Col vendicarle piú tardi? Ma a che mi serve vendicarle, a che mi serve l’inferno per i carnefici, a che può rimediare l’inferno, quando i bambini sono già stati martirizzati? E che armonia è questa, se c’è l’inferno? io voglio perdonare, voglio abbracciare, e non che si continui a soffrire. E se le sofferenze dei bambini hanno servito a completare quella somma di sofferenze che era necessaria per l’acquisto della verità, io affermo fin d’ora che tutta la verità non vale un simile prezzo. Non voglio, insomma, che la madre abbracci il carnefice che fece straziare il figlio suo dai cani! Si guardi bene dal perdonargli! Perdoni, se vuole, per proprio conto, perdoni al carnefice la sua smisurata sofferenza materna, ma non ha il diritto di perdonare la sofferenza del suo bimbo straziato; si guardi dal perdonare al carnefice, anche se gli perdonasse il fanciullo stesso! Ma se è cosí, se non si ha il diritto di perdonare, dov’è l’armonia? C’è nel mondo intero un essere che possa perdonare e che ne abbia il diritto? Io non voglio l’armonia, non la voglio per amore verso l’umanità. Preferisco che le sofferenze rimangano invendicate. Rimarrei piuttosto col mio dolore invendicato e col mio sdegno insaziato, anche se avessi torto! Troppo poi si è esagerato il valore di quell’armonia, l’ingresso costa troppo caro per la nostra tasca. E, perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E, se sono un galantuomo, ho l’obbligo di restituirlo al piú presto possibile. E cosí faccio. Non è che non accetti Dio, Aljòsa, ma Gli restituisco nel modo piú rispettoso il mio biglietto.
– Questa è una rivolta, – disse Aljòsa piano, con gli occhi a terra.
 
F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. I, pagg. 251 e 260-262
 
 

Teodicea in Leibniz 
e problemi connessi al senso del male e della fede

a cura DI D. PICCHIOTTI

“Sul primo problema [quello dell'esistenza del male] la teodicea di Leibniz risponde più specialmente alle considerazioni svolte da Bayle nel suo Dizionario (1697): considerazioni che poi non facevano altro che amplificare quanto avevano già detto gli Epicurei in polemica con gli Stoici: “Dio o non vuole togliere i mali o non può, o può e non vuole, o non vuole ne può o vuole e può. Se vuole e non può è impotente: il che non può essere in Dio. Se può e non vuole è invidioso, il che del pari è contrario a Dio. Se non vuole ne può è invidioso e impotente, perciò non è Dio. Se vuole e può, il che solo conviene a Dio, da che cosa deriva l'esistenza dei mali e perché non li toglie?”
La soluzione di Leibniz richiama quella di Agostino: il male non è una realtà, pertanto il divino non ne è responsabile. Il libero arbitrio è quindi la condizione in cui l'uomo è libero di considerare alcuni eventi come “male”, poiché Leibniz sostiene, come è noto, che questo è il migliore dei mondi possibili (il “Dio” perfettissimo non può aver creato qualcosa di imperfetto), e quindi ogni evento negativo come cataclismi e l'esistere di un male arbitrario che colpisce gli innocenti ha la sua spiegazione nella legge superiore di armonia che sorregge la creazione divina e che giustifica ogni accadimento alla luce di un disegno superiore non conosciuto dall'uomo. Per Leibniz “Dio inclina senza necessitare e la libertà dell'uomo non consiste nell'indeterminazione assoluta, cioè nell'arbitrio di indifferenza, ma nell'assenza di necessità e costrizione.”
Il male dunque è nell'uomo, non nel divino. Di fronte a un disastro naturale il male attribuito all'evento è volontà umana, in realtà questo male è sempre e comunque un bene, relativamente al disegno divino non comunicato agli essere creati. Ma perché, dunque, il divino perfettissimo ha lasciato che nella mente dell'uomo si formasse il concetto del male? Come si può escludere, relativamente al discorso di Leibniz e Agostino, una certa responsabilità di questo tipo di divino riguardo al lasciar esistere il male negli uomini?
La posizione protestante è la seguente: il divino ha già predestinato ogni uomo a percorre il suo destino, nulla di ciò che accade nel mondo può minimamente intaccare il principio per cui è il divino a scegliere chi salvare o no, il male è dunque volontà del divino, che liberamente sceglie di punire o di ricompensare, in terra come in cielo. Per Calvino le opere buone degli uomini non sono un qualcosa che può far meritare la salvezza eterna, ma sono solo gli indizi di una predisposizione alla salvezza già decisa dal divino: chi ha successo economico e sociale nel mondo terreno può cogliere i segni della sua predestinazione alla salvezza in questo suo successo mondano. Per i protestanti il male è quindi opera del divino, un segno della sua punizione.
Anche in questo caso non si comprende come e perché l'uomo, che non è padrone del suo destino, si meriti o meno una punizione, visto che non può essere responsabile delle sue azioni, già determinate nell'ambito del grande disegno divino (questa argomentazione trova una spiegazione nel sopralapsarismo, ovvero la dottrina, accettata da Calvino, che indica la caduta di Adamo nel peccato come il frutto della predeterminazione divina, la quale ha posto in essere questa necessaria caduta proprio per poter attuare il suo disegno di salvezza).
Per i protestanti il libero arbitrio contraddice dunque l'onnipotenza divina: se un uomo fosse in grado di salvarsi liberamente scegliendo quali azioni terrene predisporre in vista della salvezza eterna, l'uomo sarebbe di fatto il proprio giudice, e il divino sarebbe limitato dalla libera scelta dell'uomo, ma il divino, essendo onnipotente, non può avere alcun limite.
Quando si parla della presenza del male nel mondo supponendo questo mondo il frutto di una divinità onnipotente e buona, si entra comunque in contraddizione. Tutto questo fa supporre che è la volontà umana di attribuire certi valori al divino a farlo entrare in contraddizione una volta assunti questi valori. Tuttavia rimane sempre la possibilità, perorata dai fedeli contemporanei, che il divino sia irrazionale puro, entità non riducibile ad alcuna logica umana e che sia proprio dell'essenza della fede, in ultima analisi, la volontà di credere, scandalosamente, contro ogni ragionevolezza (Kierkegaard).
San Tommaso sosteneva che vi fosse accordo tra fede e ragione: tuttavia non è chiaro se questa affermazione si fondi su un principio di fede o di ragione. Se l'accordo tra fede e ragione si fondasse su un principio di ragione, allora la fede sarebbe subordinata alla ragione (ciò non può essere per i fedeli), se invece tale accordo si fondasse su un principio di fede allora è solo opinione del fedele, un suo volere dettato dalla fede, porre questo accordo tra fede e ragione (questa considerazione è di Emanuele Severino). 
La fede parrebbe dunque una problematica irriducibile, ma non per un problema connesso alla ragione in sé, ma per un problema connesso alla volontà del fedele.

martedì 26 agosto 2008

“Monadologia”

. a cura DI D. PICCHIOTTI

Nella “Monadologia” del 1714, sintesi di inarrivabile efficacia del suo complesso sistema, Leibniz (1646-1716) mostra di essere il vero e forse unico continuatore moderno dell’ilemorfismo aristotelico, cioè di quella cosmologia d’impronta schiettamente vitalistica, che fa di forma e materia i principi esplicativi della natura, prima che la frequenza statistica degli accadimenti e il modello meccanicistico trionfassero con Galileo e Cartesio, imponendo una rappresentazione del mondo di tutt’altro genere allo scientismo moderno.
Mi limito a postare alcuni paragrafi (il testo intero della Monadologia qui), senza appesantire con commenti. Basta osservare che qui i concetti di forma, psiche, percezione e immagine trovano un contesto che ne illumina le relazioni, nel senso indagato dai post precedenti.

Qualsivoglia porzione di materia può concepirsi come un giardino pieno di piante e come uno stagno pieno di pesci. Ma qualsivoglia ramo della pianta, qualsivoglia membro dell’animale, qualsivoglia goccia dei suoi umori è a sua volta un tale giardino o un tale stagno. (67)
Da ciò si vede che qualsivoglia corpo vivente ha un’entelechia dominante che è l’anima nell’animale, ma i membri di questo corpo vivente sono pieni di altri viventi, piante, animali, di cui ciascuno ha ancora la sua entelechia e la sua anima dominante. (70)
Lo stato transitorio che implica e rappresenta una moltitudine nell’unità o nella sostanza semplice non è altro che ciò che si chiama percezione, che dobbiamo distinguere dall’appercezione o coscienza, come vedremo. I cartesiani hanno sbagliato proprio in questo, perché hanno preso per un nulla le percezioni delle quali non siamo consci. Per questo erano convinti che solo gli spiriti fossero monadi, che non vi fossero anime degli animali né altre entelechie. (14)
L’azione del principio interno che opera il mutamento o il passaggio da una percezione a un’altra può essere denominato appetizione: è vero che l’appetito non può mai raggiungere interamente ogni percezione a cui tende, ma ne ottiene sempre qualcosa, e giunge a nuove percezioni. (15)

Sì è allora costretti ad annettere che la percezione e ciò che ne dipende non si può esplicare attraverso ragioni meccaniche, ossia tramite figure e moto. Perché se fingiamo che ci sia una macchina, che possa strutturalmente pensare, sentire, percepire, la si potrà concepire ingrandita, ma in modo tale che abbia conservato le stesse proporzioni, di modo che vi si possa entrare come in un mulino. Supposto questo, si troveranno, visitandone l’interno, solo parti che si spingono reciprocamente, mai qualcosa che spieghi la percezione. Perciò occorre cercarla nella sostanza semplice e non nel composto o macchina. Non si può trovare altro che questo nella sostanza semplice: non vi è nulla in essa al di fuori delle percezioni e dei loro mutamenti. Solo in questo possono consistere tutte le azioni interne delle sostanze semplici (17)
Se vogliamo chiamare anima tutto ciò che ha percezioni e appetiti nel senso generale che abbiamo appena esplicato, tutte le sostanze semplici o monadi create si possono chiamare anime. Ma, poiché l’appercezione è qualcosa di più di una qualsiasi semplice percezione, consentiamo a che il nome generale di monadi ed entelechie si attribuisca esclusivamente alle sostanze semplici che godano di semplice percezione, e che si chiamino anime solo quelle la cui percezione è più distinta e unita a memoria. (19)
Ora, questo legame o questo adattamento di tutte le cose create a ciascuna, e di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni sostanza semplice abbia dei rapporti che esprimono tutte le altre e che, di conseguenza, sia uno perpetuo specchio vivente dell’universo. (56)
E come una stessa città vista da luoghi differenti sembra del tutto diversa ed è come moltiplicata prospetticamente, così accade che, a causa della moltitudine infinita delle sostanze semplici, ci siano altrettanti differenti universi che non sono perciò che le prospettive di uno solo secondo i diversi punti di vista di ogni monade. (57)
…ogni monade (…) avendo una natura rappresentativa, non può essere limitata da nulla che la obblighi a rappresentare solo una parte delle cose, sebbene, in verità, questa rappresentazione, nel dettaglio di tutto l’universo, sia solo confusa e non possa essere distinta che in una piccola parte delle cose, cioè in quelle che sono o le più prossime o le più grandi in rapporto a ciascuna delle monadi, altrimenti ogni monade sarebbe una divinità. Non è nell’oggetto, ma nella modificazione della conoscenza dell’oggetto che le monadi sono limitate. Vanno tutte confusamente verso l’infinito, verso il tutto, ma sono limitate e differenziate attraverso i gradi delle percezioni distinte. (60)
(Poichè) tutte le cose (sono) piene e di conseguenza ogni materia connessa, e siccome nel pieno ogni movimento produce un qualche effetto sui corpi distanti in rapporto alla distanza, di modo che un corpo qualsiasi non solo è affetto da quelli che lo toccano, e percepisce tutto ciò che accade loro, ma anche, tramite loro, percepisce quelli che toccano i primi, dai quali è toccano immediatamente, ne segue che questa comunicazione procede sino a qualsivoglia distanza. E di conseguenza ogni corpo è affetto da tutto ciò che accade nell’universo, a tal punto che colui, il quale vede tutto, potrebbe leggere in ognuno, ovunque, ciò che accade e anche ciò che è accaduto o accadrà, osservando nel presente ciò che è lontano tanto secondo il tempo quanto secondo lo spazio. (61)
Così, benché qualsivoglia monade creata rappresenti tutto l’universo, essa rappresenta più distintamente il corpo che le è assegnato in modo peculiare e di cui costituisce l’entelechia. E come questo corpo esprime tutto l’universo attraverso la connessione di tutta la materia nel pieno, così anche l’anima rappresenta tutto l’universo rappresentandosi il corpo che le appartiene in maniera peculiare. (62)
Così qualsivoglia corpo organico di un vivente è una specie di macchina divina o un automa naturale che sorpassa infinitamente tutti gli automi artificiali, poiché una macchina fatta tramite l’arte umana non è una macchina in qualsivoglia parte. Per esempio i denti di una ruota hanno parti o frammenti che non sono più qualcosa di artificiale e non hanno più nulla che connoti la macchina rispetto all’uso a cui era destinata la ruota. Ma le macchine della natura, ossia i corpi viventi, sono macchine sino nelle più minime parti, sino all’infinito. E in questo consiste la differenza tra natura e arte, cioè tra l’arte divina e la nostra. (64)
Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali attraverso appetizioni, fini e mezzi. I corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei moti. E due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono tra loro armonici. (79)
In questo sistema i corpi agiscono l’uno sull’altro come se (per assurdo) non ci fossero affatto anime, e le anime agiscono come

lunedì 25 agosto 2008

Realismo e idealismo secondo Henry Bergson

a cura DI D. PICCHIOTTI

“...noi non vediamo le cose stesse, ci limitiamo, il più delle volte, a leggere le etichette incollate su di esse. Questa tendenza, che scaturisce dal bisogno, si è maggiormente accentuata sotto l’influenza del linguaggio[...] E non solo gli oggetti esterni, ma anche i nostri stessi stati d’animo si sottraggono a noi in ciò che hanno di intimo, di personale, di originalmente vissuto.
Quando proviamo amore o odio, quando ci sentiamo felici o tristi, è proprio il nostro stesso sentimento che giunge alla coscienza con le mille sfumature fugaci e le mille risonanze profonde che ne fanno qualcosa di assolutamente nostro? Se così fosse, noi tutti saremmo romanzieri, poeti, musicisti. Ma il più delle volte, del nostro stato d’animo non percepiamo che la manifestazione esteriore. Dei nostri sentimenti non cogliamo che l’aspetto impersonale, quello che il linguaggio ha potuto classificare una volta per tutte, essendo all’incirca lo stesso, nelle stesse condizioni, per utti gli uomini. Così, persino in noi, l’individualità ci sfugge. Noi ci muoviamo tra generalità e simboli, come in un campo chiuso in cui la nostra forza si misura utilmente con altre forze; e affascinati dall’azione, attratti da essa, per il nostro bene, sul terreno da lei scelto, viviamo in una zona intermedia tra le cose e noi, esteriormente alle cose, esperiormente persino a noi stessi.
Ma di tanto in tanto, per distrazione, la natura crea delle anime più distaccate dalla vita. Non parlo di quel distacco voluto, ragionato, sistematico, che è opera di riflessione e di filosofia. Parlo di un distacco naturale, innato nella struttura del senso o della coscienza, e che si manifesta sin dall’inizio in un modo quasi virginale di vedere, di sentire o di pensare. Se tale distacco fosse completo, se l’anima non aderisse più all’azione con nessuna delle sue percezioni, essa sarebbe l’anima di un artista quale il mondo non ha ancora veduto. Eccellerebbe in tutte le arti contemporaneamente, o piuttosto le fonderebbe tutte in una sola. Percepirebbe tutte le cose nella loro purezza originale, le forme, i colori e i suoni del mondo materiale così come i più sottili movimenti della vita interiore. Ma sarebbe pretendere troppo dalla natura. Per quelli tra noi che essa ha fatto nascere artisti, è solo accidentalmente e da un unico lato che ha sollevato il velo. Solo in una direzione ha dimenticato di collegare la percezione al bisogno. E poiché ogni direzione corrisponde a quel che noi chiamiamo un senso, è con uno solo dei suoi sensi, e unicamente con questo, che l’artista è generalmente votato all’arte. Di qui, all’origine, la diversità tra le arti. [...]
Così, che sia pittura, scultura, poesia o musica, l’arte ha come unico obiettivo l’eliminazione dei simboli utili praticamente, delle generalità convenzionalmente e socialmente accettate, di tutto ciò, insomma, che ci maschera la realtà, per metterci faccia a faccia con la realtà stessa.
E’ da un malinteso su questo punto che è nato il dibattito tra i realismo e l’idealismo nell’arte. L’arte non è certamente che una visione più diretta della realtà. Ma questa purezza di percezione implica una rottura con la convenzione utile, un innato e specificamente localizzato disinteresse del senso o della coscienza, e infine una certa immaterialità di vita, quel che è sempre stato tacciato di idealismo. Per cui si potrebbe dire, senza giocare in alcun modo con il senso delle parole, che il realismo sta nell’opera come l’idealismo sta nell’anima, e che solo a forza di idealità si riprende il contatto con la realtà” di Pina La Villa

Dal kantismo all'idealismo

a cura DI D. PICCHIOTTI

Il Romanticismo filosofico si incarna nell'idealismo che crea una nuova metafisica dell'infinito. I filosofi idealisti criticano i dualismi dei critici, cercando di trovare un principio unico a base di una nuova filosofia. Il principale dualismo che intendono smantellare è la distinzione tra fenomeno e noumeno. La loro critica parte dall'inammissibilità del concetto di cosa in sé di Kant, secondo il quale questa è al tempo stesso esistente ma anche inconoscibile. La conclusione a cui pervengono è la seguente: ogni realtà di cui siamo consapevoli esiste come rappresentazione della coscienza, che funge da condizione indispensabile del conoscere. Ma se l'oggetto è concepibile solo in relazione al soggetto, come può esistere la cosa in sé? la cosa in sé è un concetto impossibile. Inoltre, aggiungono gli idealisti, Kant si sarebbe contraddetto affermando che la cosa in sé è causa delle nostre sensazioni, applicando il concetto di causa, proprio del fenomeno, al noumeno. IDEALISMO = in filosofia si parla di idealismo a proposito di quelle visioni del mondo che privilegiano la dimensione “ideale” su quella “materiale” e che affermano il carattere “spirituale” della realtà “vera”. Viene usata per alludere: alle varie forme di idealismo gnoseologico all'idealismo romantico o assoluto Per idealismo gnoseologico si intendono tutte quelle posizioni di pensiero che finiscono per ridurre l'oggetto della conoscenza a idea o rappresentazione. Nel secondo caso l'idealismo costituisce il nome di una grande corrente filosofica post-kantiana nata in Germania. L'idealismo viene contraddistinto da tre aggettivi: trascendentale: collegandolo col punto di vista kantiano, che aveva fatto del l'io penso il principio fondamentale della conoscenza soggettivo: contrapponendolo al principio di Spinoza, che aveva ridotto la realtà ad un principio unico, la Sostanza, ma la aveva intesa in termini di oggetto e di natura assoluto: sottolinea la tesi che l'Io o lo Spirito è il principio unico di tutto al di fuori del quale non c'è nulla. E' quest'ultima la chiave dell'idealismo romantico. In Kant l'Io era qualcosa di finito in quanto non creava la realtà, me si limitava ad ordinarla secondo forme a priori, per questo Kant utilizzava l'idea di cosa in sé per spiegare la recettività del conoscere e la presenza di un dato di fronte all'Io. Gli idealisti ritennero questa visione gnoseologicamente e criticamente inammissibile. L'idealismo nasce quando Fichte elimina la cosa in sé, ovvero la nozione estranea all'Io, che diventa un'entità creatrice ed infinita. Tutto è Spirito. Per Spirito intende la realtà umana, considerata come attività conoscitiva e pratica e come libertà creatrice. Da qui nascono due domande: in che senso lo Spirito (soggetto conoscente e agente) rappresenta la fonte creatrice di tutto ciò che esiste? Che cos'è per gli idealisti la Natura, o materia?

sabato 23 agosto 2008

" La monade " G. W. LEIBNIZ (1646-1716)


a cura DI D. PICCHIOTTI
Una delle dottrine caratteristiche di Leibniz è la cosiddetta Monadologia. È il titolo di un libro, I principi della filosofia o Monadologia (1714) in cui egli definisce la monade come una sostanza semplice cioè senza parti. E dove non ci sono parti, non c’è estensione, figura né divisibilità possibile. Non può quindi estinguersi o dissolversi: può solo cominciare per creazione e finire per annientamento. Se non può essere alterata o modificata, la monade non ha “finestre”. Ogni monade è però, dice Leibniz, è diversa dall’altra: in natura non vi sono infatti due esseri che siano l’uno come l’altro e nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su una determinazione intrinseca (è il principio della identità degli indiscernibili, cioè il principio secondo cui, se esistessero due esseri identici non si potrebbero neppure distinguere quindi sarebbero la stessa cosa, ma visto che così non è… c.v.d.). Ogni monade creata o sostanza semplice può anche chiamarsi entelechia perché ha una certa perfezione e autosufficienza. Ma essa si può distinguere dalla monade che ha percezioni più distinte e accompagnate da memoria: quest’ultima è l’anima. L’uomo si distingue dagli altri animali per la conoscenza delle verità necessarie ed eterne: tale conoscenza ci rende capaci di ragione e di scienza e ci eleva alla conoscenza di noi stessi e di Dio. Essa è ciò che chiamiamo anima ragionevole o spirito.

Il corpo che appartiene a una monade, che ne è l’entelechia o anima, costituisce, con l’entelechia, ciò che può essere chiamato un essere vivente. Anzi nell’universo, secondo Leibniz, non c’è nulla di incolto, sterile, morto e non c’è caos o confusione se non all’apparenza. Non vi è mai generazione in senso assoluto né morte perfetta, intesa in senso rigoroso, come separazione dell’anima. E ciò che noi chiamiamo generazioni sono sviluppi ed accrescimenti, come quelle che noi chiamiamo morti, sono involuzioni e diminuzioni.

Il corpo organico di ogni essere vivente è una specie di macchina divina, o di automa naturale, che supera infinitamente tutti gli automi artificiali. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, mentre i corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. Ma i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono in armonia fra loro.



Verità di ragione e verità di fatto

Leibniz prosegue dicendo che vi sono due principi su cui si basano i nostri ragionamenti: il principio di contraddizione e quello di ragion sufficiente. Il primo in virtù del quale giudichiamo falso ciò che implica contraddizione e vero ciò che è opposto; il secondo per cui consideriamo che nessun fatto può essere vero o esistente e nessuna proposizione vera senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia così e non altrimenti, per quanto queste ragioni il più delle volte non possano esserci conosciute.

Ma la ragione sufficiente si deve trovare – secondo Leibniz - anche nelle verità contingenti, quelle che egli definisce verità di fatto (oppure alle verità di ragione: queste sono necessarie e il loro opposto è impossibile, quelle di fatto sono contingenti e il loro opposto è possibile) cioè nella serie delle cose sparse nell’universo. In esse la risoluzione in ragioni particolari può essere spinta senza limiti, a causa della immensa varietà delle cose della natura e della divisione dei corpi all’infinito. E siccome tutto questo dettaglio non implica se non altri contingenti anteriori, ancora più particolareggiati, ciascuno dei quali ha bisogno, perché se ne possa rendere ragione, di un’analisi simile, bisogna che la ragione sufficiente o ultima sia al di fuori della successione o della serie di questi dettagli delle contingenze, per quanto infinita possa essere. Quindi la ragione ultima delle cose deve trovarsi – conclude Leibniz – in una sostanza necessaria, cioè Dio.

Posto questo principio, continua Leibniz, la prima questione che si ha diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa anziché niente? Giacché – osserva Leibniz - il nulla è più semplice e più facile di qualcosa. Inoltre, supposto che alcune cose debbano esistere, bisogna che sia possibile dare la ragione perché debbano esistere così e non altrimenti (cfr. Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, 1714, parag. 7). La risposta a questa domanda è, per Leibniz, Dio stesso : egli dice che la ragione sufficiente dell’esistere dell’universo è necessario che sia fuori della serie delle realtà contingenti e si trovi in una sostanza, che ne sia la causa, che sia un essere necessario che porti la ragione della sua esistenza con sé, e cioè appunto Dio.


Dio

Ma come è questo Dio? Secondo Leibniz egli è unico, è senza limiti e contiene la massima quantità possibile di realtà. In altri termini, Dio è assolutamente perfetto (intendendo per perfezione la grandezza della realtà positiva). Solo Dio infatti ha questo privilegio: che se è possibile, bisogna che esista. E visto che nulla può impedire la possibilità di ciò che non implica alcun limite, alcuna negazione, alcuna contraddizione, questo soltanto basta a conoscere a priori l’esistenza di Dio. Mentre si può provare l’esistenza di Dio a posteriori con quanto ha detto prima: esistono degli esseri contingenti, i quali non possono avere la loro ragione ultima o sufficiente se non in un essere necessario, che ha in sé stesso la ragione della propria esistenza.

In Dio c’è potenza, conoscenza e volontà. Ovviamente in Dio questi attributi sono infiniti o perfetti, nelle monadi create non sono che imitazioni. Ora, poiché nelle idee di Dio c’è una infinità di universi possibili, mentre non può esisterne che uno solo, bisogna che ci sia una ragione sufficiente della scelta di questo universo da parte di Dio. E questa ragione, secondo Leibniz, non può trovarsi che nella convenienza o nei gradi di perfezione che questi mondi contengono (e ciò perché – spiega Leibniz – ogni possibile ha il diritto di pretendere all’esistenza nella misura della perfezione che implica). E ciò è la causa dell’esistenza del meglio, che la Saggezza fa conoscere a Dio, che la sua bontà gli fa scegliere e la sua potenza gli fa produrre.

In altri termini - come sostiene anche nei Saggi di Teodicea – se Dio ha creato questo mondo è perché lo ha scelto secondo quanto gli suggeriva la sua saggezza ed ha quindi permesso il male in esso, il che però non impedisce che, tenuto conto di tutto, questo mondo non fosse il migliore che potesse essere scelto. Dio ha scelto seguendo il principio del meglio.

Riguardo poi all’annoso problema del male, Leibniz risponde in linea con la tradizione cristiana classica: Dio non vuole affatto il male morale ed in modo assoluto non vuole il male fisico e le sofferenze; perciò non v’è predeterminazione assoluta alla dannazione. Il male serve spesso per far gustare meglio il bene e qualche volta contribuisce ad una perfezione più grande di colui che lo soffre, come il grano che viene seminato è soggetto ad una specie di corruzione per germinare: è un bel paragone – dice Leibniz – del quale Gesù Cristo stesso si è servito (cfr. Saggi di Teodicea, 23).

In che senso allora possiamo dire che Dio permette il male? Qui – dice Leibniz – è necessario spiegare che cosa significa “permesso”. Per spiegarlo, bisogna spiegare la natura della volontà e dei suoi gradi. Si può dire che la volontà consiste nell’inclinazione a fare qualcosa in proporzione del bene che essa racchiude. Questa volontà è chiamata antecedente, quando è considerata a parte e si riferisce ad ogni bene isolatamente, in quanto è bene. In questo senso, si può dire che Dio tende ad ogni bene in quanto è bene. Egli ha un’inclinazione forte a santificare e a salvare tutti gli uomini, ad escludere il peccato e ad impedire la dannazione. Si può anche dire che questa volontà è di per sé efficace, cioè tale che l’effetto ne seguirebbe, se non vi fosse qualche ragione più forte che l’impedisce; ora questa volontà non giunge fino al suo ultimo sforzo, altrimenti non mancherebbe di produrre il suo pieno effetto, essendo Dio il signore di tutte le cose. Il successo completo ed infallibile non appartiene se non a quella che si chiama volontà conseguente. Questa è completa e per essa vale la regola che non manca di fare ciò che vuole, quando lo può. Ora questa volontà conseguente, finale e decisiva, risulta dal conflitto di tutte le volontà antecedenti, tanto di quelle che tendono verso il bene, quanto di quelle che respingono il male e dal concorso di tutte queste volontà particolari deriva la volontà totale (cfr. Saggi di Teodicea, 22). Da tutto ciò consegue che Dio vuole antecedentemente il bene e conseguentemente il meglio, come fine; l’indifferente o il male fisico eccezionalmente come un mezzo, il male morale, invece, lo vuole permettere a titolo di un sine quo non o di una necessità ipotetica, che lo congiunge al meglio. Per ciò la volontà conseguente di Dio che ha per oggetto il peccato è solo una volontà permissiva (cfr. Saggi di Teodicea, 25).



L’armonia prestabilita e l’amore

Gli spiriti umani sono immagini della stessa divinità e quindi sono in grado di entrare in una specie di società con Dio; da ciò è facile concludere – dice Leibniz – che l’assemblea di tutti gli spiriti deve formare la città di Dio, cioè lo stato più perfetto possibile, il quale è un mondo morale entro il mondo naturale, ed è dunque quanto vi è di più elevato e divino nelle opere divine. E come vi è armonia tra i due regni naturali, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, così vi è anche armonia tra il regno fisico della natura e quello della grazia divina (Leibniz la chiama armonia prestabilita). Sotto il governo di Dio, tutto si risolverà nel bene dei buoni e quindi il nostro compito è quello di lavorare per tutto quello che è conforme alla volontà divina, perché solo Dio è il fine della nostra volontà ed è Lui solo la nostra felicità. Infatti, aveva già detto Leibniz nei Saggi di Teodicea (1710), se l’amore ci fa trovare piacere nelle perfezioni dell’oggetto amato, nulla è più perfetto e quindi nulla è più attraente di Dio stesso. Ne consegue – continua Leibniz – che la vera pietà e la vera felicità consiste nell’amore di Dio, ma in un amore il cui ardore sia accompagnato dalla ragione. Questa specie di amore fa nascere il piacere delle buone azioni che dànno splendore alla virtù ed eleva l’umano al divino. Troviamo accenti quasi mistici in molte pagine della Teodicea. Ad es. Leibniz dice che quando si è rassegnati alla volontà divina e si sa che ciò che Egli vuole è sempre il meglio, si è sempre contenti di ciò che accade, sia che la nostra azione riesca o non riesca. Quando siamo in questa disposizione di spirito, continua Leibniz, non saremo mai abbattuti dagli insuccessi e non avremo rammarico che per le nostre colpe; la nostra carità sarà umile e libera da ogni pretesa di signoreggiare.

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Gotfried Wilhelm Leibniz nacque nel 1646 a Lipsia. Fu un genio precoce: imparò le lingue classiche da giovanissimo e si occupò di moltissime scienze; tra l'altro scoprì da solo il calcolo integrale: scoperta già fatta da Newton anni prima ma di lui leibniz non era a conoscenza. Si laureò in diritto a vent'anni. Poco dopo ebbe l'occasione di conoscere l'Elettore di Magonza e ne diventò consigliere. Entrò quindi in politica e il suo sogno fu quello di dar vita ad una organizzazione mondiale che si occupasse di scienza (e anche di riunire ecumenicamente le chiese cristiane): sogno in parte realizzato con la fondazione (molti anni dopo, nel 1700) di quella che diverrà poi la Accademia prussiana. Cominciò in quel periodo a corrispondere con moltissimi intellettuali e scienziati dell'epoca e il suo epistolario (12000 lettere!) è importantissimo per la conoscenza del sapere di allora. Nel 1676 entrò al servizio dei duchi di Hannover (come bibliotecario e storiografo) e resterà con loro praticamente per tutto il resto della sua vita. Morì nel 1716.
Ricordiamo tra gli scritti : Discorso di metafisica (1686), Monadologia (1714), Nuovi saggi sull'intelletto umano (è un'analisi capitolo per capitolo del Saggio di Locke) del 1705, Saggio di teodicea (1710) ecc.

venerdì 22 agosto 2008

La concezione materialistica della realtà

a cura DI D. PICCHIOTTI

Il sensismo radicale ed un continuo riferimento al "mondo esterno" non avevano spinto Condillac fino alla teorizzazione di una concezione materialistica della realtà, anzi lo inclinano verso uno moderato spiritualismo. Il materialismo che, in modo palese o adombrato, circolava in alcuni manoscritti clandestini dei primi anni del Settecento trova uno sviluppo adeguato soltanto nell'opera di Lamettrie, di Helvétius e di D'Holbach.
Julien Offroy de Lamettrie nacque a Saint Malo nel 1709; dopo la prima formazione umanistica studiò medicina ed esercitò la professione medica. A Leyda seguí corsi di specializzazione che gli fecero conoscere le piú recenti scoperte della biologia e della fisiologia. Con traduzioni di opere mediche e con contributi personali favorì l'ingresso in Francia di queste nuove dottrine. L'opera di rinnovamento della cultura scientifica gli costò amarezze e persecuzioni. In occasione della pubblicazione della Storia naturale dell'anima (1745) fu costretto a rifugiarsi a Leyda, ma anche da qui dovette allontanarsi dopo la pubblicazione de L'uomo macchina (1748) per trovare ospitalità presso Federico Il di Prussia che in quegli anni si atteggiava a sovrano illuminato. Nella sua prima opera vuole mostrare come tutte quelle attività che solitamente vengono definite "spirituali " e vengono attribuite ad una sostanza pensante diversa dalla sostanza materiale, in definitiva non sono che manifestazioni fisiologiche proprie della sostanza materiale. La materia, infatti, non coincide, come voleva Cartesio, con la sola estensione che aspetta di essere mossa da qualcosa ad essa esterna, ma è una realtà che, oltre all'attributo dell'estensione, possiede quelli del movimento e della sensibilità. La materia ha essa stessa la vita, e la manifesta in forme diverse a seconda della sua organizzazione nei corpi particolari. Da scienziato Lamettrie aveva proceduto a serie indagini anatomiche sul cervello che gli consentivano di concludere:
Nel cervello non vedo che materia, e nella sua parte sensitiva non
trovò che estensione: il suo interno - vivo, sano, ben organizzato - con-
tiene all'origine dei nervi un principio attivo diffuso nella sostanza midol-
lare. Questo principio, il quale sente e pensa, si affatica, si addormenta e si
spegne insieme al corpo. 
(Storia naturale dell'anima, X, 9)
Inoltre, lo studio del rapporto tra gli stati fisiologici del corpo e i fenomeni psicologici della mente mostrava chiaramente che i primi spiegavano in modo coerente e preciso i secondi e che, quindi, non c'era alcun motivo plausibile per far ricorso a qualche altra sostanza per spiegare e giustificare la vita spirituale:
Se tutto si spiega in base a ciò che l'anatomia e la fisiologia mi rive-
lano nel midollo, quale bisogno posso mai avere di formarmi un essere 
ideale? Se identifico l'anima con gli organi corporei, ciò avviene perché 
tutti i fenomeni mi costringono a pensare in questo senso. 
(ivi)
Proclamata la identità di anima e corpo, il termine anima può essere conservato solo a patto che con esso non si indichi una sostanza immateriale dotata di facoltà psichiche, ma la parte di materia che in noi pensa:
L'anima non è dunque altro che un vano termine del quale non si ha
alcuna idea e di cui un buon intelletto non deve servirsi se non per nomi-
nare quella parte che in noi pensa. Posto il minimo principio di movi-
mento, i corpi animati avranno tutto ciò che occorre loro per muoversi,
sentire, pensare, pentirsi, per comportarsi, insomma, nel fisico e nel morale
che ne dipende. 
(L'uomo macchina, 16 a cura di G. Preti Milano 1973)
L'uomo non è altro che una macchina autosufficiente che "carica essa stessa le proprie energie" e pertanto non va studiata come vogliono i cartesiani partendo da un principio a priori, ma come vogliono gli scienziati e i medici:
L'uomo è una macchina cosí complessa, che è impossibile farsene a 
prima vista un'idea chiara, e quindi definirla. Per questo tutte le ricerche 
che i piú grandi filosofi hanno condotto a priori, vale a dire volendo ser-
virsi in qualche modo delle ali dello spirito, sono state vane. Perciò è solo 
a posteriori, ossia cercando di svolgere l'anima per cosí dire attraverso gli 
organi del corpo che si può, non dico scoprire in modo evidente la natura 
stessa dell'uomo, ma raggiungere il massimo grado di probabilità che sia 
possibile su questo argomento.
(L'uomo macchina, 3)
E l'esperienza ci dice che l'uomo è una struttura meccanica cosí come gli animali e le piante. E le differenze di sensibilità e di intelligenza tra il primo e i secondi dipendono unicamente dalla diversa organizzazione della stessa materia. Un'organizzazione delle parti materiali nel corpo umano rende quest'ultimo adatto ad acquisire alcune capacità, come la struttura materiale dei corpi degli animali e delle piante li dispone ad acquisirne altre:
Ed in effetti da che cosa provengono l'abilità, la scienza e la virtù, se
non da una disposizione che ci rende adatti a divenire abili, sapienti e vir-
tuosi? E, a sua volta, da dove ci viene tale disposizione se non dalla natura?
E' soltanto grazie alla natura che abbiamo qualità degne di stima: le dob-
biamo tutto quello che siamo. 
(L'uomo macchina, 12)
Lamettrie confronta queste sue conclusioni con riferimenti ad esperienze mediche, a precise constatazioni scientifiche, con continui richiami alla fisiologia e alla anatomia:
Concludiamo dunque coraggiosamente che l'uomo è una macchina, 
e che in tutto l'universo c'è una sola sostanza diversamente modificata. 
Questa non è una ipotesi costruita a forza di problemi e supposizioni: non
è l'opera del pregiudizio, né della mia sola ragione: avrei disdegnato una 
guida che credo poco sicura, se i sensi, portando, per cosí dire, la fiaccola 
non m'avessero, con l'illuminarla, costretto a seguirla. L'esperienza mi ha 
dunque parlato a favore della ragione: e quindi io le ho congiunte insieme.
(L'uomo macchina, 18)
Sulla base di questo materialismo fisiologico Lamettrie costruisce un'etica naturalistica. L'uomo, per la struttura materiale del proprio corpo, è portato a desiderare il piacere e a fuggire il dolore cosí come tutti gli altri animali, anche se tende a godere di piaceri piú raffinati e sottili. Una simile tendenza all'edonismo non distrugge, però, un naturale istinto alla convivenza con i propri simili e non minaccia, quindi, la vita associata.
Lo scopo dichiarato dell'opera di Claudio Adriano Helvétius è quello di ricondurre alla sensibilità tutte le operazioni spirituali: ciò che noi chiamiamo attività intellettuale e morale trova il suo fondamento nelle condizioni fisiologiche e, quindi, materiali del nostro corpo. Helvètius nacque a Parigi nel 1715 da una famiglia di alta borghesia; giovanissimo occupò una carica importante nella amministrazione finanziaria dello stato. La pubblicazione del suo libro pìú importante, Dello Spirito, attirò su di lui e su tutto il movimento illuministico una condanna decisa che sfociò in una violenta persecuzione contro gli ambienti dei philosophes. Il libro fu condannato dal Parlamento di Parigi, dai dotti dell'Università della Sorbona e dall'autorità ecclesiastica in quanto, come scrisse l'arcivescovo di Parigi nella bolla di condanna,
contiene una dottrina abominevole, atta a rovesciare la legge naturale, 
a distruggere i fondamenti della religione cristiana; adotta come principio 
la dottrina detestabile del materialismo; distrugge la libertà dell'uomo; 
annienta le nozioni fondamentali di virtù e giustizia; sostiene massime 
totalmente opposte alla morale evangelica; sostituisce alla sana dottrina dei 
costumi l'interesse, le passioni, il piacere; mira a turbare la pace degli Stati, 
a rivoltare i sudditi contro l'autorità e contro la persona stessa del sovrano; 
favorisce gli atei, i deisti, ogni specie di increduli, e rinnova quasi tutti i loro mostruosi sistemi.
(cit. in Dello Spirito, a cura di A. Postigliola, Roma 1976, p. IX)
Due anni dopo la morte di Helvétius, avvenuta nel 1772, fu data alle stampe un'altra sua opera, Dell'Uomo.
Per Helvètius tutte le operazioni dello spirito consistono nella capacità di percepire i diversi rapporti esistenti tra i vari oggetti, e poiché questa capacità non è altro che la stessa "sensibilità fisica", se ne deve concludere che ogni attività spirituale, compreso il conoscere ed il giudicare, si riduce al sentire e si radica nella struttura fisica del corpo umano: razionalità e sensibilità sono tutt'uno. La materia, di cui sono formati tutti i corpi ha in se stessa la sensibilità e da questa sensibilità scaturiscono tutte le manifestazioni di vitalità degli individui ed in modo particolare degli uomini:
La sensibilità fisica è per conseguenza il principio dei suoi bisogni,
delle sue passioni, della sua socievolezza, delle sue idee, delle sue azioni ...
Un uomo è una macchina che, messa in moto dalla sensibilità fisica, deve
fare tutto ciò che segue. 
(Dell'uomo, II)
Le manifestazioni fondamentali della sensibilità umana sono la passione e l'interesse. Esse costituiscono "l'amor di sé" che condiziona tutti gli atteggiamenti umani e che si manifesta come ricerca del piacere ed avversione per il dolore. Su questo principio fondamentale sono costruite tutte le morali, anche le piú ascetiche e le piú spiritualistiche. Bene e male, in ogni sistema etico, stanno sempre al posto di utile e dannoso. Rispetto al singolo uomo bene è nient'altro che l'affermazione dell'"amor di sé" e male il suo contrario, rispetto alla comunità organizzata, bene sarà l'utile della società e male il suo contrario.
In ogni tempo e in ogni luogo, sia in materia di morale che in mate-
ria di spinto, l'interesse personale determina il giudizio dei privati, e l'inte-
resse generale determina il giudizio delle nazioni: in questo modo, da parte 
della collettività come da parte dei privati, è l'amore o la riconoscenza ad 
essere fonte di lode, ed è l'odio o la vendetta ad essere fonte di disprezzo.
(Dello Spirito, II, I)
Ora, poiché ogni uomo vuole esageratamente realizzare il proprio bene (leggi: il proprio utile) nel rapporto sociale, ognuno cerca di utilizzare gli altri per i suoi fini egoistici. In tal modo nelle società si è venuto a creare una disparità di condizioni per la quale pochi uomini utilizzano la rimanente massa per realizzare il loro utile personale. In che modo è possibile correggere questo stato di cose? Helvétius è convinto che non servono a nulla i discorsi e le prediche inneggianti all'eguaglianza e alla fratellanza tra gli uomini; bisogna intervenire, invece, sui meccanismi che determinano questa diseguaglianza per correggerli, bisogna cioè ricondurre "l'amor di sé " entro limiti piú ristretti in modo da far coincidere la virtù con il desiderio della "felicità generale", con "il bene pubblico".
Poiché alla formazione di un individuo concorrono due fattori, uno naturale e costante, rappresentato dalla materia sensibile uguale in tutti gli uomini, l'altro sociale e variabile, identificabile nelle condizioni ambientali, sociali, economiche e culturali in cui gli individui vivono; per indirizzare tutti gli uomini alla virtù bisognerà intervenire su queste condizioni socio-politiche. Ma per procedere alla modificazione di tali condizioni bisognerà preventivamente modificare le istituzioni e le leggi degli stati che con la forza hanno determinato e conservato quelle condizioni.
In tal modo Helvétius nega che la personalità degli individui derivi dall'ereditarietà naturale ed indica coraggiosamente nelle riforme delle leggi e delle istituzioni la via per la realizzazione della collaborazione sociale in vista non dell'utile di pochi, ma di tutta la società. Ma nonostante le sue opere scandalizzassero i rappresentanti dell'ancien règime, Helvétius con la sua utopia della "legislazione perfetta" non infrange il principio fondamentale della società borghese: il diritto alla proprietà privata.
La proprietà è il dio morale degli imperi, essa mantiene la pace dome-
stica, vi fa regnare la giustizia; gli uomini non si sono riuniti che per assicu-
rarsi delle loro proprietà; la giustizia, che racchiude in sé sola quasi tutte le 
virtù, consiste nel rendere a ciascuno ciò che gli appartiene, si riduce 
quindi alla conservazione di questo diritto di proprietà.
(Dell'uomo, VIII, I)
A determinare la condanna dell'opera furono soprattutto gli attacchi portati al dispotismo, al fanatismo, all'intolleranza religiosa e particolarmente, la critica al colonialismo armato espressa proprio mentre la Francia perdeva le sue colonie a vantaggio dell'Inghilterra "liberale e tollerante".
Una teorizzazione ancora piú rigorosa e sistematica del materialismo come concezione generale dei mondo fu fornita da Paolo Enrico Dietrich D'Holbach. Nato nel 1723, studiò presso l'Università di Leyda geologia, chimica e mineralogia. A Parigi dove si era trasferito, strinse amicizia con Diderot e con tutto il gruppo di illuministi che gravitava intorno all'Enciclopedia. Nel 1761 si lanciò in una campagna antireligiosa, traducendo una serie di scritti dei deisti inglesi e utilizzando molte tematiche della letteratura clandestina francese. Nel 1770 pubblicò la sua opera piú importante, il Sistema della natura, alla cui stesura avevano collaborato anche Diderot ed il matematico Lagrange; nel 1773 diede alle stampe il Sistema sociale e la Politica naturale.
Tutta la realtà per l'Holbach è riducibile alla natura. Questa infatti
è l'insieme di tutti gli esseri e di tutti i movimenti a noi noti, e di
moltissimi altri che non possiamo conoscere in quanto sono inaccessibili ai
nostri sensi. Dall'azione e dalla reazione continua di tutti gli esseri che la
natura comprende risulta una successione di cause e di effetti, cioè di
movimenti governati da leggi costanti e invariabili proprie di ogni essere,
necessarie o inerenti alla sua natura, le quali fanno sí che esso agisca o si
muova in una maniera determinata. (Sistema di natura, Il, 2)
Tutti i fenomeni naturali sono collegati tra loro da una ferrea legge di necessità. Ognuno di essi occupa nella serie degli esseri un posto determinato e non può agire diversamente da come agisce.
Lo stesso uomo, essendo anch'egli un prodotto della natura, è sottoposto a queste rigide leggi naturali; non può in nessun caso sottrarsi ad esse, neppure con il pensiero.
Il compito dell'uomo, "essere puramente fisico", non è quello di cercare, al di fuori del mondo che abita, altri esseri capaci di procurargli una felicità che gli viene rifiutata dalla natura, ma quello di studiare questa natura, per contemplare la sua energia e la immutabilità delle sue leggi, per poi utilizzare tutte queste conoscenze per la propria felicità. La natura stessa ci costringe incessantemente ad agire e a pensare in vista della nostra felicità:
Le nostre istituzioni, le nostre riflessioni, le nostre conoscenze hanno
per scopo il raggiungimento di una felicità verso cui la nostra natura ci
costringe a tendere incessantemente. Tutto quanto facciamo o pensiamo,
tutto ciò che siamo e saremo, è una conseguenza della maniera in cui la
natura universale ci ha formato; le nostre idee, le nostre volontà, le nostre
azioni sono effetti necessari dell'essenza e delle qualità a noi assegnate
dalla natura, e delle circostanze per cui essa ci obbliga a passare, risultando
modificati da esse. (Sistema di natura, 1, 1)
La felicità cui per natura gli uomini tendono "non è altro che il piacere continuato". In vista del fine di conservare questa felicità e di goderne, l'uomo vive in comunità con altri uomini che nutrono i suoi stessi desideri e le sue stesse avversioni:
Se ogni uomo tende alla felicità, ogni società si propone lo stesso
fine: l'uomo vive in società per essere felice. Perciò la società è un insieme
di uomini riuniti dai loro bisogni per lavorare di comune accordo alla pro-
pria conservazione e alla propria felicità. 
(Sistema sociale, Il, 1)
Il sovrano, il cui compito è limitato all'esecuzione della volontà dei cittadini, deve, per legittimare il suo potere, garantire a tutti i membri della società "giustizia, protezione e leggi capaci di proteggere le persone, la libertà e i beni". Quando però il sovrano infrange i confini del suo potere ed emana leggi contrarie alla volontà e agli interessi dei cittadini, questi ultimi hanno il diritto di rifiutarle, di revocare i poteri del sovrano e di opporsi alla prevaricazione, anche facendo uso della forza. Da queste premesse scaturisce la violenta polemica contro l'assolutismo e contro la religione, considerata sua naturale alleata.

PLATONE, L’IDEA DEL BELLO E LA DIALETTICA DELL’AMORE (FEDRO)

a cura DI D. PICCHIOTTI

Nel brano viene descritta l’azione straordinaria che l’Idea del Bello ha sulle cose, il suo essere “la piú percepibile dai sensi” e l’effetto che essa produce sui corrotti e sui puri. Su questi ultimi la bellezza genera quel tipo di innamoramento che fa volare l’anima verso il sovrasensibile, cioè verso l’Idea. Parla Socrate, che riferisce un discorso del poeta Stesicoro.
Fedro, 249 d-252 c
Ecco dove l’intero discorso viene a toccare la quarta specie di delirio: quello per cui quando uno, alla vista della bellezza terrena, riandando col ricordo alla bellezza vera, metta le ali, e di nuovo pennuto e agognante di volare, ma impotente a farlo, come un uccello fissi l’altezza [e] e trascuri le cose terrene, offre motivo d’essere ritenuto uscito di senno. Quel delirio, dico, che è la piú nobile forma di tutti i deliri divini e procede da ciò che è piú nobile, tanto per chi ne è preso quanto per chi ne partecipa; e chi conosce questo rapimento divino, ed ami la bellezza, è detto amatore. Perché, secondo quanto s’è detto, ogni anima umana per sua natura ha contemplato il vero essere, altrimenti non sarebbe penetrata in questa [250 a] creatura che è l’uomo. Ma non per tutte le anime è agevole, partendo dalle cose terrene, far affiorare nella memoria quel vero essere, non per quelle che ebbero lassú una visione rapidissima di quelle realtà, non per quelle che, quando sono crollate a terra, ebbero mala sorte cosicché, stravolte verso l’ingiustizia da certe compagnie, dimenticarono quanto allora videro di santo. Proprio poche rimangono che possono ancora ricordare in modo bastante; e queste, quando scorgono qualche imitazione delle cose del cielo, vanno in estasi e non si tengono piú, pur non sapendo di che patimento si tratti perché la percezione di ciò non è [b] sufficientemente profonda. Ora nelle imitazioni terrene non traspare neppure un raggio di giustizia, di temperanza e di quant’altri beni siano preziosi per l’anima; ma solo pochi, con organi cosí ottusi, possono a fatica scorgere, accostandosi alle immagini, la natura di ciò che in esse è raffigurato. La bellezza brillava allora in tutta luce, quando nella beata schiera ne godevamo la beatifica visione, noi al seguito di Giove, altri di un altro dio, ed eravamo iniziati a quella iniziazione che si può ben dire [c] la piú beatifica di tutte; e la celebravamo integri ed inesperti dei mali che in seguito ci avrebbero atteso, in misterica contemplazione di integre e semplici, immobili e venerabili forme, immersi in una luce pura, noi stessi puri e privi di questa tomba che ora ci portiamo in giro col nome di corpo, imprigionati in esso come un’ostrica ...
2 Questo discorso sia il nostro tributo alla reminiscenza che già ci ha tirato ad una lunga digressione, presi dal rimpianto delle cose di allora. Ora, la bellezza, come s’è detto, splendeva di vera luce lassú fra quelle essenze, e anche [d] dopo la nostra discesa quaggiú l’abbiamo afferrata con il piú luminoso dei nostri sensi, luminosa e risplendente. Perché la vista è il piú acuto dei sensi permessi al nostro corpo; essa però non vede il pensiero. Quali straordinari amori ci procurerebbe se il pensiero potesse assicurarci una qualche mai chiara immagine di sé da contemplare! Né può vedere le altre essenze che son degne d’amore. Cosí solo la bellezza sortí questo privilegio di essere la piú percepibile dai sensi e la piú amabile di tutte. Chi pertanto [e] ha una lontana iniziazione o è già corrotto non può rapidamente elevarsi da questo mondo a contemplare la bellezza in sé di lassú, col mettersi a guardare ciò che qui in terra si chiama bello; cosicché egli la riguarda senza venerazione e, arrendendosi al piacere, come una bestia, si lancia a seminare figlioli, o abbandonatosi agli eccessi non prova timore né vergogna a perseguire piaceri contro [251 a] natura. Ma chi sia iniziato di fresco e abbia goduto di lunga visione lassú, quando scorga un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea che ben riproduca la bellezza, súbito rabbrividisce e lo colgono di quegli smarrimenti di allora, e poi rimirando questa bellezza la venera come divina e se non temesse d’esser giudicato del tutto impazzito, sacrificherebbe al suo amore come a un’immagine di un dio. E rimirandolo, come avviene quando il brivido cede, gli subentra un sudore e un’accensione [b] insolita: perché man mano che gli occhi assorbono l’effluvio di bellezza, egli s’accende e col calore si nutre la natura dell’ala. Con il calore poi si discioglie intorno alle gemme l’ispessimento che, da tempo incallito, proibiva loro di germogliare. Affluendo il nutrimento, diviene turgida e lo stelo dell’ala riceve impulso a crescere su dalla radice, investendo l’intera sostanza dell’anima. Perché un tempo era tutta alata.
3 [c] Ora essa palpita e fermenta in ogni parte e quel che soffrono i bambini con i denti quando spuntano, quel prurito e tormento, ecco questo l’anima patisce quando cominciano a spuntarle le ali: palpita, s’irrita e prova tormento mentre le spuntano. Quando dunque rimirando la bellezza d’un giovane, l’anima riceve le particelle che da quello partono e scorrono (ed è perciò che si chiama “fiume di desiderio”), se ne nutre, se ne riscalda, cessa [d] l’affanno e gioisce. Ma quando sia separata da quella bellezza l’anima inaridisce e le aperture dei meati attraverso i quali spuntano le penne disseccandosi si contraggono sí da impedire i germogli dell’ala. Ma questi, imprigionati dentro, insieme all’onda del desiderio amoroso, palpitando come un’arteria urgono ciascuno contro la propria apertura sicché l’anima, trafitta da ogni parte, smania per l’assillo ed è tutta affannata. Ma riassalendola il ricordo della bellezza, ringioisce. Cosí sovrapponendosi questi due sentimenti, l’anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e [e] fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l’ha riguardato, invasa dall’onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. Ed è cosí che non si staccherebbe mai dalla bellezza e che la tiene cara piú di tutte; anzi si smemora della madre, [252 a] dei fratelli e di tutti gli amici, e se il patrimonio rovina perché l’ha abbandonato, non gliene importa nulla, e, messe da parte norme e convenienze delle quali prima si adornava, è prona ad ogni schiavitú e a dormire in qualunque posto le si permetta, il piú vicino possibile al suo caro. Perché, oltre a venerare colui che possiede bellezza, ha [b] scoperto in lui l’unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell’anima, mio bell’amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore; ma quando ti dirò come lo chiamano gli dèi, forse sorriderai, data la tua giovinezza. C’è una coppia di versi sull’amore, citati da certi Omeridi, traendoli forse dalla loro tradizione segreta, il secondo dei quali è davvero insolente e zoppicante di metrica. Dicono cosí:
Gli uomini lo chiamano Amore che vola,
Alato gli dèi, perché fa crescere l’ali.
4 [c] Ci si può credere o no, tuttavia la causa delle condizioni degli innamorati è proprio questa. [...]

giovedì 21 agosto 2008

La creatività sociale " LA PIAZZA"

a cura DI D. PICCHIOTTI



La piazza è un’invenzione italiana. Nasce nel Medioevo come luogo dell’incontro e dello scambio,
per arrivare a perfezionarsi, grazie alla tecnologia della Prospettiva, nel Rinascimento.
E’ d’invenzione dello spazio pubblico che stiamo trattando e di come la sua ridefinizione riguardi la nostra Società dell’Informazione che, sempre più, trova nelle reti un’estensione dello scambio sociale. La rete è il nuovo spazio pubblico.
Eppure uno dei nodi da sciogliere è quello che concerne l’interazione tra la rete e il territorio, lo spazio fisico in cui ci si muove e si crea socialità.
L’interaction design correntemente inteso ha focalizzato le più diverse soluzioni per qualificare l’uso delle periferiche digitali e le interfacce per ottimizzare il nostro rapporto con gli schermi, ma lo snodo più proficuo risiede su come estendere queste interazioni con lo spazio pubblico fisico.
Progettare cioè l’interaction design nel contesto urbano, individuando sia applicazioni funzionali (come per l’infomobilità) sia forti sollecitazioni di ciò che amo definire l’approccio ludico-partecipativo.
E’ proprio questo l’aspetto che considero più intrigante, perché possa prendere forma quella creatività sociale capace di fare Società dell’Informazione.
Così come la creatività sociale nei secoli ha fatto delle piazze i perni della nostra società.
Così come i fasti della renovatio urbana di Sisto V che hanno creato le basi della Roma barocca, solo attraverso la partecipazione attiva dei cittadini che hanno popolato feste straordinarie, come quelle del Carnevale romano, hanno reso le piazze un dispositivo sociale efficace.
Oggi, all’interno di una Società dell’Informazione che non può realizzarsi solo all’interno degli schermi, un indirizzo strategico può essere ciò che si può definire l’interaction design urbano, inteso come capacità di progettare un uso sociale e creativo dei nuovi media interattivi in stretta relazione con i territori.
Una ricerca che ha già trovato luogo nel contesto urbano di Torino con il geoblog realizzato del Performing Media Lab ( www.performingmedia.org), per tracciare una “mappa emozionale dei luoghi della memoria antifascista” utilizzata in un happening che ha percorso i luoghi topici delle vicende che hanno caratterizzato la storia di quella città, utilizzando i mobtag (o matrix code) applicati sui palazzi (che poi sono stati serigrafati su apposite targhe di metallo a cura del Museo Diffuso della Resistenza), utilizzando questi particolari codici a barre bidimensionali per trasmettere ai cellulari il link alle pertinenti pagine del geoblog.
Operazione simile è stata quella attuata a San Giovanni Valdarno per l’happening sul Rinascimento 2.0 dove s’è svolta un’azione radioguidata della Koinè, progettata all’interno del Performing Media Lab toscano (nato in occasione del Festival della Creatività di Firenze) e svolta, come una smart mob, nel centro storico della città che ha dato i natali a Masaccio (l’apripista del Rinascimento). In questa azione i performer hanno tele-guidato gli spettatori che attraverso le cuffie ascoltavano e partecipavano da protagonisti ad un evento radiofonico in diretta, attraversando il borgo rinascimentale per entrare nel Palazzo d’Arnolfo, osservando dall’alto la piazza e la sua prospettiva-modello della Città Ideale e nel Museo della Basilica per visitare l’Annunciazione del Beato Angelico. Tutto il percorso era “taggato” dalle mobtag che trasferivano informazioni sui cellulari, sia in formato testo (con delle istruzioni per l’uso e dei frammenti poetici) sia con link attivi a www.thinkloci.org , la piattaforma di social tagging georeferenziata.
Si tratta solo prototipi di un possibile interaction design urbano che non aspetta altro di trovare uno sviluppo adeguato.
Un altro esempio emblematico è quello di Europedia (www.europedia.it ) che ha realizzato per i 50 anni dell’Unione Europea un sistema articolato d’interaction design (allestito nelle Gallerie urbane di Roma, Torino e Lecce), sviluppato intorno ad un monolite specchiante alto quattro metri con un visual poetry reso interattivo da webcam per un touchscreen-notouch e area wi fi con postazioni per un geoblog e sistemi bluetooth che trasferivano ai cellulari un jingle musicale e anche qui i mobtag che linkavano a pagine di wikipedia sui padri fondatori dell’Europa unita.
Infine, per cogliere delle buone pratiche sul fronte della creatività sociale, va posta attenzione  alle iniziative di Design Pubblico che prevede Esterni (www.esterni.org ) per il Salone del Mobile di Milano: le loro azioni ludico-partecipative rappresentano un buon punto di riferimento per riflettere e magari rilanciare le potenzialità di un interaction design urbano ancora tutto a compiersi. Carlo Infante

mercoledì 20 agosto 2008

Nel piacere sessuale c’è qualche cosa che lo collega al godimento di Dio?


a cura DI D. PICCHIOTTI
C. Jacobelli, seguendo le orme teologiche del doctor angelicus, S. Tommaso, dedica un libro al piacere carnale in quanto voluto da Dio: Risus Pascalis - Il fondamento teologico del piacere sessuale, Brescia, 2004, pp. 122ss.

La storia della spiritualità cristiana dimostra che sembrerebbe logico liberarsi della corporeità sessuata per avvicinarsi a Dio. Ma l’uomo è diverso dagli animali e Dio stesso dice, che la solitudine “non è un bene” (Gen 2,18). Allora perché l’ha fatto “solo”? Se ha bisogno di un “altro” che “gli sia simile”, perché non glielo ha dato fin dall’inizio? O questo serve a giustificare lo stupore sia dell’uomo che di Dio di fronte al panorama femminile? Per enfatizzare il suo fascino?
Nella Genesi è Dio che dà all’uomo e alla donna ciò di cui godono: “ed è molto buono”, perché discende da Lui, Bontà per essenza. Anzi: “a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen 1,27). La prima descrizione dell’uomo è il suo essere maschio-femmina. Il riconoscersi nell’altro, il sentirsi “completo” nell’altro fa sperimentare una gioia così traboccante che fa esclamare: “Questa sì è osso delle mie ossa e carne della mia carne!” (Gen 2,23). Il grido di Adamo diventa più esplicito nel Cantico dei cantici: “Come sei bella, amica mia, come sei bella […] con un solo sguardo mi hai fatto impazzire!” (Cn 1,15; 4,9). L’uomo, unendosi alla sua metà, ritrova tutto se stesso attraverso il complemento, di cui la sessualità diventa il mezzo. “Il racconto della Genesi introduce nel mondo la gioia attraverso il piacere della diversità sessuale della coppia umana” (99). Dio si compiace di quello che è uscito dalle sue mani, si commenta, dicendo bene del sole, delle stelle, degli animali e degli insetti della vita, della fecondità, del sesso, dell’uomo e della donna, tanto che la bontà e l’eccellenza delle creature Lo esaltano.

L’interpretazione classica vede la somiglianza con Dio nelle doti più nobili: memoria, intelletto, volontà. E’ una visione riduttiva che divide l’uomo in una parte nobile e una meno nobile. Per la Bibbia “L’uomo e la donna non si uniscono innanzitutto per procreare dei figli, ma per incontrarsi in quell’unica dimensione in cui, grazie alla sessualità, si rivela qualcosa di quella profondità ultima della vita umana cui Dio la chiama ad essere” (Fuchs E., Desiderio e tenerezza. Fonti e storia di un’etica cristiana della sessualità e del matrimonio, Torino 1984, 42, 46).
La relazione tra Jahwé e Israele viene espressa con il linguaggio del godimento sessuale: “come gioisce lo sposo della sua sposa, così il tuo Dio gioirà di te” (Is 62,4-5). Osea non ha paura di usare il verbo che esprime il rapporto sessuale: “Io ti unirò a me per sempre: ti unirò a me nella fedeltà e tu conoscerai Jahwé” (Os 2,21-22). L’uso dei termini che si riferiscono al godimento indicano la sacralità attribuita al piacere sessuale, il quale può diventare “mezzo privilegiato per cogliere qualcosa dell’infinito di Dio” (102). L’amore del Cantico dei cantici “è amore gratuito, senza alcun altro fine che l’amore in se stesso, come l’amore di Jahwé che trae Israele dall’Egitto” (Dt 7,7-8).

I mammiferi appena nati si impadroniscono della mammella da cui dipende la loro sopravvivenza, l’uomo ha bisogno di una mano che porga il seno. Nel soddisfare questo bisogno primario prova piacere: sopravvivenza e piacere finiscono per coincidere. Lo stesso avviene nel rapporto sessuale: l’uomo si completa “attraverso la mediazione di un altro, così come attraverso la mediazione di un altro riesce a sopravvivere” (103). Attraverso questa capacità di relazione l’uomo diventa se stesso. Viene alla luce per mezzo di altri, ma si fa uomo quando è per l’altro. Non che sia l’istinto a fare dell’uomo una persona, ma la sua capacità di entrare in relazione con gli altri, soprattutto attraverso la relazione affettiva che lo spinge fuori di sé alla ricerca di qualcuno da amare e dal quale essere amato. Per S. Tommaso l’uomo è relazione come Dio è pura relazionalità (Cf Summa Theologiae, I. q. 28, a.2, I, q. 60, a. 2).

Il godimento è totale e vero quando tutto il proprio essere è donato, travasato nell’altro, in una gioia che è, prima di tutto, comunicazione tra persone: “Io sono per te, tu sei per me, io sono consapevole di donarmi a te, tu di donarti a me”. In una unione d’amore il corpo diventa strumento, espressione, linguaggio di due persone “che si comunicano la profondità del proprio essere: man mano che il rapporto si svolge, ai amplia, raggiunge il suo culmine, è tutto l’essere che parla, che dice chi è, entrando in una comunicazione totale in cui tacciono le parole per dare spazio alla trasparenza più completa; l’orgasmo è un grido muto di svuotamento totale: “ecco, ti ho detto tutto”. E in quel dirsi che trascende infinitamente il darsi di cui costituisce la sostanza, in quell’attimo in cui sembrerebbe annullarsi, l’uomo sente di acquistare la pienezza di sé” (106).
Questo godimento, portando l’uomo a vedersi attraverso l’uscita da sé e l’entrata nell’altro, lo fa affacciare sull’infinito. “Nessun altro piacere donato all’uomo è in grado di portarlo oltre il proprio spazio corporale e oltre il momento che sta vivendo. Nell’orgasmo scaturito dall’amore lo spazio e il tempo si dissolvono e l’uomo sfiora l’infinito. […] L’infinito sfiora l’uomo attraverso il dono di un altro essere umano. E l’uomo sa che è l’altro a fargliene dono. Se nel rapporto sessuale incontra il proprio limite, il proprio bisogno ontologico dell’altro – “non è bene che l’uomo sia solo” - , sfiora però anche l’infinito che è chiamato a vivere; si trova portato, sospinto fino alla soglia della propria trascendenza. E la gratitudine prorompe, spesso, in un pianto che esprime ciò che le povere parole non saprebbero mai dire. E diviene creatività. La creatività del piacere. Il bisogno immenso di ridonare ad altri qualcosa di quella pienezza ricevuta” (107). Nel momento in cui la coppia esprime il massimo della vitalità, ognuno dei due si trascende nell’accoglienza dell’altro. E’ in questo dare-ricevere, che si fa esperienza della pienezza del proprio essere. “Nel godimento sessuale l’uomo non solo trascende la propria individualità, ma, affacciandosi sul mistero dell’altro, sfiora il mistero di Dio” (109). “Che cos’è l’amore? L’amore dell’uomo e della donna. Due corpi. Due sessi. Due corpi che si avvolgono e si penetrano. Che cosa c’è di più preciso dell’orgasmo, di più situato? E’ con lei, perché è lei; è con lui, perché è lui. […]. L’amore fa festa soltanto con il piacere […] Che cosa, più dell’orgasmo, porta al di fuori di se stesso e al di là dell’altro? […] L’orgasmo, figura privilegiata dei mistici per dire l’istante che li apre all’infinito nel momento stesso in cui li inchioda sul posto. Spazio aperto. E situato. Aperto e situato mediante il corpo. Il corpo che non occupa spazio che egli apre all’infinito” (Pohier, 67-68).

Già 8.000 anni fa per lo Shivaismo la gioia dell’incontro sessuale “è la cosa che più d’ogni altra sulla terra può dare all’uomo l’idea non solo della felicità ultraterrena, ma anche della sua natura divina; la natura dell’Essere assoluto è la gioia, che differisce da quella degli amanti solo perché dura eternamente, ma la sostanza è la stessa. Non solo è l’immagine del divino, ma ne è l’esperienza, la realizzazione. Queste voci dicono che attraverso il piacere dell’uomo è possibile cogliere qualcosa di Dio. Esso considera il piacere di grande importanza per lo sviluppo dell’essere spirituale, e san Tommaso dirà che dilata il cuore dell’uomo.

Corporeità dell’uomo, trascendenza di Dio

I due poli, Dio e l’uomo, spesso sono stati visti in termini di antitesi con linguaggio antropomorfico, dicendo quello che Dio non è: l’uomo ha corpo, Dio è puro spirito; l’uomo mortale, Dio eterno; l’uomo peccatore, Dio santità per essenza. La sessualità umana sembrava in antitesi assoluta con la trascendenza divina, fino al punto che viene messa tra le forze cattive dell’uomo, il cui uso, tollerato come peccato veniale ai fini della procreazione, era la prima cosa da eliminare da chi volesse vivere una vita più perfetta. Infatti, fin dall’inizio, la Chiesa non vede la sessualità in chiave positiva. Girolamo ne ammette l’uso in funzione della procreazione. Agostino: “Quanto a me, penso che le relazioni sessuali vadano radicalmente evitate. Ritengo che nulla avvilisca lo spirito dell’uomo quanto le carezze di una donna e i rapporti corporali che fanno parte del matrimonio” (Soliloquia, I. 10,17. PL, 32,878). Ambrogio: “Adesso [dopo la caduta] benché il matrimonio sia buono, implica certe cose per cui perfino le persone sposate arrossiscono di loro stesse” (Exhort. Virgin., 6,36, PL 16,362). Nel 1729, p. Busembaum sostiene che, unico fra tutti i vizi capitali, la lussuria “Va direttamente contro Dio”: “est mortalis ex genere suo”.. (cf Medulla Theologiae Moralis).

Troviamo alcune voci fuori dal coro: Ireneo vede l’uomo immagine di Dio proprio in quanto carne, in riferimento al Verbo incarnato che è l’immagine perfetta di Dio: “quando il Verbo di Dio si fece carne […] mostrò realmente l’immagine, diventando egli stesso quello che era la sua immagine” (Adversus haereses, 5,12,12). Per Tertulliano: “la carne è il cardine della salvezza. Infatti se l’anima si fa totalmente di Dio, è la carne stessa che lo rende possibile. La carne è lavata affinché l’anima sia pulita; la carne è unta affinché l’anima sia consacrata; […] la carne è nutrita dal corpo e dal sangue di Cristo affinché l’anima sia sazia di Dio” (De carnis resurrectionem, 8). (115)
“E’ possibile che l’uomo nell’interezza della sua realtà concreta e quindi nella sua sessualità, nel desiderio, nel godimento, sia immagine di un Dio trascendente? Se questo fosse vero avremmo trovato il perché della presenza del piacere sessuale nell’ambito sacro […] S. Tommaso tenta una teologia della sessualità: si può affermare che nella creatura ragionevole esiste un’immagine della Trinità increata per una somiglianza specifica; poiché in tale creatura si trova una emanazione del verbo mentale, ed una emanazione dell’amore da parte della volontà” (I, q. 93, a.6). “Se l’uomo è stato creato così com’è […] è perché Dio stesso è relazionale: è relazionalità pura, è Trino, è Amore donato-ricevuto-partecipato” (Durand G., Sexualité e foi. Synthèse de théeologie morale”, Paris 1983, 124).
“Dio ha fatto l’uomo a sua immagine; nei limiti della creaturalità lo ha segnato con un’orma divina che lo fa uscire da sé nel dire, nel conoscere, nell’amare. L’atto sessuale è anzitutto un dirsi, un porsi reciprocamente di fronte in una conoscenza che, pur attraverso il corpo, sfiora la trascendenza; dono immenso della trascendenza assoluta. Ognuno resta se stesso pur avendo consapevolezza di avere, per così dire, il proprio baricentro fuori di sé, nell’altro; di avere la propria autocoscienza non in sé ma nell’altro. Nell’atto sessuale si è uno nell’altro, ma il fatto fisico, genitale, quasi scompare nella stupenda consapevolezza della reciprocità totale di due presenze che sfiorano l’unità a livello del proprio essere più profondo, quando non è più possibile distinguere il corpo e lo spirito, ma tutto l’essere è impegnato nella sua interezza. Tutti gli amanti si sono detti: “Io sono te e tu sei me” (1).
L’atto sessuale è dono nell’amore e il senso profondo della sessualità è proprio questo: “essere una mediazione fondamentale della carità […] per cui è essenzialmente caritatevole, perché invita ad uscire da sé” (Durand, 126). Una carità che “non può avere una grandezza quantitativa, ma solo una grandezza qualitativa […] che si stabilisce anche in base all’intensità dell’atto” (I-IIae, q. 24, a.4); e nessun atto umano impegna così intensamente e completamente tutta la persona, quanto l’atto sessuale.
“In Dio, qualche cosa assomiglia al nostro ‘ti amo’, al dono di sé, all’amore realizzato, all’incontro affettivo, alla fecondità che genera, al prorompere della vita amorosa. Dio è amore donato, di una eterna fecondità. E’ Padre. In Dio, qualche cosa assomiglia all’accoglienza, all’unione realizzata, al prorompere delle forze che si incontrano. Dio è amore ricevuto di una eterna fecondità. E’ Figlio. In Dio, qualche cosa assomiglia alla vita che ribolle nei suoi fermenti vitali, al dinamismo che scaturisce, all’amore sempre rinnovato. Dio è amore diffuso, di una eterna fecondità. E’ Spirito, soffio divino” (Office de Catechèse du Quebéc, La force des rencontres. Hommes et femmes il les créa, Doc, pour l’éducateur, Montréal, 1976, 5). Quanto è distante il remedium concupiscientiae da questa visione del matrimonio ! Nella Genesi, la creatività dell’uomo immagine di Dio, ha i confini stessi dell’universo (Gen 1,26).

IL PIACERE

“All’atto sessuale è unito il piacere più intenso che sia dato all’uomo di godere. Anche un breve sguardo alla storia del pensiero cristiano ci può dire quali e quanti attacchi abbia subito il piacere del sesso.
Per Tommaso il piacere è un bene, una tensione propria di ogni esistente che, essendo in potenza, tende al suo atto; ed è a sua volta originato da un bene: non c’è godimento vero che da un bene non derivi. Bene in se stesso, originato da un bene, il piacere è anche causa di bene ulteriore. Infatti il godimento è intimamente legato all’atto: non solo è un’operazione che perfeziona l’atto stesso, ma è la bontà del godimento a causare in qualche modo la bontà dell’operazione stessa. Tommaso ha precorso i tempi: le scienze psicologiche oggi ci dicono che saper godere è una capacità dell’uomo che ha raggiunto la maturità del proprio Io ed è capace di vivere il piacere senza farsene schiavo né avere complessi di colpa; ma già da molti secoli l’Aquinate aveva detto: “l’abito virtuoso che inclina ad amare, a desiderare il bene che si ama, e a godere, è identico” (I-IIae, q.28, a.4). L’uomo non si scinde: Tommaso lo vede uno…[…]. [dei piaceri] “alcuni sono corporei, altri dell’anima; il che in sostanza è la stessa cosa […] e il bene sensibile è di tutto il composto umano” (I-IIae, q. 31, a.3)”. 124-125
Se non c’è distinzione fra i piaceri sensibili e spirituali, allora i vari sostantivi piacere, beatitudine, gioia, gaudio, appaiono non tanto indicativi di contenuti diversi, ma come una sovrabbondanza di termini utili per diversi approcci ad un argomento che ha un unico soggetto. Tommaso ha una visione biblica del piacere, non lo teme, anzi: “niente impedisce che un qualche piacere sia il massimo bene”. E il corpo non è affatto escluso, ma partecipa anche del godimento che l’anima può avere da Dio. Il testo dell’Aquinate è del più grande interesse per il nostro argomento: “Sebbene il nostro corpo non possa godere di Dio con la conoscenza e con l’amore, tuttavia possiamo arrivare alla perfetta fruizione di Dio con opere compiute col corpo. Ecco perché dal godimento dell’anima ridonda sul corpo una certa beatitudine […] e poiché il corpo è partecipe in qualche modo della beatitudine, può essere amato con amore di carità” (I-IIae, q.25, a.5) (2).

Il godimento di Dio

“Nell’atto sessuale compiuto nell’amore, l’essere umano, dandosi senza riserva all’altro, compie il più grande gesto di un amore che è carità: “l’amore verso Dio e l’amore verso l’uomo – infatti – sono identici nella specie […] hanno lo stesso abito di carità” (II-IIae, q. 24,a. 3) ed in questo massimo atto di amore-carità in cui impegna tutto se stesso, l’uomo gode del godimento più intenso e completo che la sua natura umana consente.

E Dio, carità per essenza, gode? Tommaso dice di sì: “Dio gode. In Lui, purissimo spirito, non ci può essere un godimento fisico, ma questa profonda esplosione di gioia quando ricade nell’uomo ha evidentemente una ridondanza fisica; per cui si può a buon diritto dire che la sessualità – con il piacere che comporta – ha la sua radice ultima in Dio. “Il godimento sessuale donato all’uomo si radica in ciò che lo costituisce nel profondo, nel suo essere creatura relazionale, nel suo entrare totalmente in comunione con l’altro, che è quanto di più vasto e profondo sia dato a creature limitate dalla fisicità. Il godimento di Dio, o meglio, il godimento che Dio è, sgorga dalla profondità divina della sua essenza trinitaria.

Quando 8.000 anni fa, la più antica religione del mondo affermava che il godimento sessuale può dirci qualcosa della natura di Dio, diceva una grande verità di cui non c’è da stupirsi, se siamo coerenti con la nostra fede nell’uomo fatto maschio e femmina, chiamato ad essere uno e ad aprirsi al mondo, immagine di un Dio che è Padre-Figlio-Spirito Santo nell’unità della divina natura” (130)
Nel rapporto compiuto nell’ amore “C’è un appagamento completo di tutto l’essere umano: è appagato il corpo in una sensazione indicibile di benessere; è appagata la psiche: i desideri e le aspirazioni sono come dissolti o compiuti in quel momento atemporale che racchiude il passato, il presente, il futuro; non solo è appagato il bisogno ontologico dell’uomo di entrare in comunione con l’altro, ma, nel momento culminante del rapporto, l’uomo va oltre l’altro e il suo mistero, aprendosi su qualcosa che lo trascende. E’ l’appagamento totale - psichico, fisico, affettivo - in un bene. Dalla pienezza raggiunta sgorga una gratitudine infinita che diviene creatività nell’effusione del bene raggiunto, la cui proprietà intrinseca è questo suo essere diffusivo” (133).

Giovanni Paolo II usa parole che, forse, raramente sono state pronunciate dai papi: “Nelle parole di Cristo sulla continenza per il regno dei cieli non c’è alcun cenno circa l’inferiorità del matrimonio riguardo al corpo, ossia riguardo alla essenza del matrimonio, consistente nel fatto che l’uomo e la donna in esso si uniscono così da divenire una sola carne […] Le parole di Cristo riportate da Mt 19,11-12 (come anche di Paolo 1 Cr, 7) non forniscono motivo per sostenere né l’inferiorità del matrimonio, né la superiorità della verginità o del celibato” (14.4.1982). Queste parole superano non solo una tradizione di quasi 20 secoli, ma anche le dichiarazioni di almeno tre concili, di cui l’ultimo – il concilio di Trento – afferma: "Se qualcuno avrà detto che lo stato coniugale deve essere anteposto alla stato di verginità o di celibato, piuttosto che unirsi in matrimonio, sia anatema”. Potrebbe quindi sembrare per lo meno anomalo il comportamento del pontefice che, nel suo magistero ordinario, cancella delle dichiarazioni conciliari (3).

Quanto alla discussione: perché Gesù di Nazaret è rimasto celibe?, “oso porre una riflessione che nasce dalla mia realtà di donna e di madre, ma che certamente è comprensibile da chiunque abbia amato profondamente un altro essere umano: chi di noi madri, chi di noi amanti, al contatto con il corpo del proprio figlio neonato o del proprio uomo non ha sentito il bisogno prepotente di farsene cibo? Chi di noi madri non ha desiderato di poter assorbire di nuovo quelle carni uscite da noi? Chi di noi amanti non ha nell’amplesso d’amore segnato con i denti il corpo del proprio uomo o della propria donna? “Ti mangerei di baci…” Chi non ha detto o sentito questa frase? Unire a sé l’amato in un’unione di assorbimento totale; divenire cibo, trasformarsi in vita; divenire nutrimento reciproco per vivere insieme nell’unione più completa, ancora più completa di quelle sessuale.
Se Gesù si fosse sposato, si sarebbe donato ad una sola donna, per un numero limitato di anni, in un luogo circoscritto di questo mondo e in un’epoca determinata; tutto il resto sarebbe rimasto “fuori”. Ma la forza prorompente dell’amore divino dell’uomo Gesù non avrebbe potuto accontentarsi: doveva darsi corporalmente a tutti, in ogni epoca: “Prendete, mangiate, Questo è il mio corpo […] per voi, per tutti”. Si è fatto cibo.
Come ogni amante vorrebbe poter fare” (140).

“L’uomo di oggi si pone di fronte al piacere per averlo e consumarlo, non per accoglierlo e farsene sorgente di crescita e di vita; non sa scorgere ciò di cui il piacere è segno, non sa vederlo nella sua intrinseca realtà capace di aprire l’uomo agli altri uomini fino alla soglia dell’assoluto” (144).

Atteggiamento diverso nei confronti del mondo

“Per troppi secoli il mondo è stato considerato un mezzo per giungere alla vera vita, e non il luogo dove Dio ha posto l’uomo per ricevere i suoi doni, per goderne e moltiplicarli; per troppo tempo è stato visto come “l’esilio” da cui sospirare alla patria , e non quel mondo che Dio ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito (Gv 3,16); per troppo tempo l’uomo è stato spinto verso una vita futura a prezzo di non vedere più il dono dell’unica vita che è nelle sue mani, a prezzo di non vedere più il valore della sua realtà umana già salvata da un Dio incarnato per amore” (148). All’alba della creazione, dalle mani di Dio esce Eva per il godimento di Adamo. E adam diviene is. Perché “ciò che viene da Dio non ci allontana da lui, ma piuttosto ci porta a lui” (I q. 65, a.1)” (150).

(1) Anche Gesù, in altro contesto, dirà: “Chi ha visto me ha visto il padre. Non credi che io sono nel padre e il Padre è in me?” (Gv 14,9s). “Il Padre è nel Figlio secondo l’essenza, perché il Padre è la sua essenza, e senza trasmutarsi comunica questa sua essenza al Figlio; e siccome l’essenza del Padre è nel Figlio, così anche il Padre è nel Figlio. Così pure il Figlio è nel Padre, perché è la stessa essenza che è il Padre” (I, q. 42, a. 5).
(2) “E’ l’unicità del composto umano, così fortemente affermata da S. Tommaso, il quale confidava ai suoi discepoli che talvolta, nel momento in cui più intensa era la sua meditazione delle cose divine, il suo corpo reagiva con la polluzione. Anche “s. Bonaventura parla di coloro che in “spiritualibus affectionibus fluxus maculantur”, e s. Teresa e s. Giovanni della Croce ne parlano esplicitamente. La psicofisiologia contemporanea ha d’altronde mostrato che i movimenti sessuali organici sono spesso la conseguenza di una potente emozione che si scarica attraverso tutte le possibili vie nervose” (Benirmaert L.). Questo dell’orgasmo, e, nell’uomo, della polluzione in concomitanza con una profonda esperienza spirituale, è un fenomeno più comune di quanto non si creda in persone che vivono un’intensa vita spirituale. “Anche le sensazioni, perfino il nostro prendere cibo “interessa” Dio, va riferito a Dio; nulla di quanto l’uomo ha può essere estraneo alla divina perfezione di cui è barlume; tutto va amato con amore di carità” (II-IIae, q.44, a. 6) [nota 53].
(3) “Si quis dixerit statum coniugalem anteponendum esse statui virginitatis vel coelibatus, quam jungi in matrimonio anatema sit” (sessione XXIV, comma 10); in Conciliorum oecumenicorum decreta, Bologna 1973, 755). Su questo argomento si veda l’articolo di Moioli G., Per una rinnovata riflessione sui rapporti tra matrimonio e verginità. I principali documenti del magistero, in Scuola Cattolica, 95, 3 (XCV) maggio-giugno 1967, 201-255, il quale sostiene che la dichiarazione del concilio di Trento non era necessariamente vincolante (139).

lunedì 18 agosto 2008

Spiriti Guida all’interno del Sistema di Reiki?
di Bronwen e Frans Stiene
www.reiki.net.au

a cura DI D. PICCHIOTTI

Potreste, ad un certo punto, aver sentito una storia che mette in relazione spiriti guida con il sistema di Reiki 
Molte culture indigene hanno lavorato con spiriti guida, non necessariamente usando questa esatta terminologia..
Uno spirito guida è l’energia spirituale di un essere che non ha una forma fisica. 
Per comprendere questo concetto, gli spiriti guida vengono umanizzati, dalle persone, in forme, immagini, personaggi non dissimili da loro stessi o, per lo meno in qualcosa con cui loro hanno familiarità. Spesso si pensa che uno spirito guida sia lo spirito di qualcuno che una volta viveva in questo mondo o lo spirito di un animale, un elemento della natura o qualche essere che viene da un altro regno. La parola "guida" è la chiave per comprendere che cosa sia uno spirito guida, non è solo un qualsiasi spirito, ma uno spirito che guida e consiglia.
Le culture indigene che comunicano con questi spiriti hanno specifici riti o rituali correlati al processo. 
Lo Sciamanesimo (che si pensa abbia preceduto la religione), e rituali animistici, spesso includono la pratica di comunicare con il mondo dello spirito (ndt: o degli spiriti?)
Queste pratiche vengono messe in atto, generalmente, da una persona qualificata a fare ciò. Tradizionalmente, per essere abilitata come Sciamano, la persona doveva aver ereditato questa posizione da uno Sciamano riconosciuto (come tale) ed essere stato istruito da quella persona, oppure aver conseguito direttamente la conoscenza Sciamanica, tramite il superamento di grandi ostacoli. Questi due metodi garantivano che lo sciamano avesse la preparazione per avere a che fare con la pesante responsabilità di essere un tramite tra il terreno  e lo spirituale.  

La storia del sistema di Reiki non pare mettere l’accento sull’uso di spiriti guida. Anche se, essendo Reiki un sistema Giapponese, è  pur sempre interessante occuparsi della collocazione degli spiriti guida in quella cultura
In Giappone, l’ottenimento di facoltà ascetiche (alcune delle quali sono, di per sé,  extrasensoriali ) è una pratica tradizionale.  
Le facoltà vengono sviluppate usando alcune pratiche estreme che oggi la maggior parte della gente non considererebbe praticabili. Digiuno e acqua fredda sono metodi comunemente usati per ottenere la chiarezza e la concentrazione richieste per essere in grado di sviluppare la chiaroveggenza   

Nel libro "The Catalpa Bow" di Carmen Blacker, una chiaroveggente Giapponese, riferisce di aver digiunato per una settimana ogni primavera ed ogni autunno così come di aver praticato il Grande Freddo. Il Grande Freddo si ha allorché  10 secchi da tre galloni di acqua ghiacciata vengono versati sulla sua testa e spalle, tre volte al giorno, con lo scopo di sviluppare e corroborare le sue abilità di chiaroveggente.  
Una volta di più, la eccezionalità (la intensità estrema) della pratica assicura che il chiaroveggente abbia un impegno verso, ed una profonda comprensione de, i poteri ascetici.
 
La cultura Giapponese indigena mette fortemente in evidenza i Kami, Spiriti Divini, essendo i Kami un importante aspetto dello Scintoismo.
Questi Spiriti Divini popolano il mondo naturale e possono comprendere gli spiriti di elementi naturali, come l’acqua, la roccia, la terra, e qualità come la fertilità. Queste antiche interpretazioni Giapponesi del mondo giocano, tuttora, un ruolo predominante nella cultura Giapponese contemporanea. 
Per comunicare con un Kami ti viene richiesto di diventare un Kami.
E' solo allorché tu intraprendi questa esperienza che puoi comunicare con altri Kami. La credenza che sta alla base è che, di fatto, tu sei già un Kami poiché ciascuno ha questo potenziale dentro di sé. Comunque, per raggiungere questo potenziale bisogna superare prove di grande rigore nella propria vita quotidiana.
Si ritiene che Usui Mikao, il fondatore di  Reiki, abbia creato il sistema sulla base delle proprie personali esperienze che includevano aspetti dello Shintoismo. Come che sia, le tecniche Reiki Giapponesi che sono state tramandate non contengono tecniche dirette ad insegnare a lavorare con Kami o spiriti guida. 
In Tecniche quali "byosen ho" e "reiji ho", il praticante Reiki è chiamato a tirar fuori le facoltà intuitive dall'interno di se stesso. L'intuizione è un  processo interiore che si sviluppa con il tempo e, se correttamente alimentata, può diventare una via d'accesso per connettersi con la propria saggezza interiore.
Al praticante, ancora una volta, è richiesto un forte impegno nella pratica ed il superamento di ostacoli. Tramite questa pratica si può acquisire una comprensione della differenza fra la vera intuizione ed il mondo della suggestione. 
Oggi si possono trovare alcune scuole Reiki che lavorano con spiriti guida, dando addirittura loro il titolo di Guide Reiki. Questo concetto non ha avuto origine all'interno del sistema di Reiki, ma si è sviluppato in alcuni insegnamenti Reiki, a partire dagli anni 1980 - 90 prendendo spunto da un interesse New Age per gli spiriti guida. 
Quanto spesso vi siete sentiti come se poteste trarre vantaggio da una buona guida  a cui affidarvi?
Sarebbe abbastanza una volta al giorno? Quale gioia sarebbe mettersi in contatto con uno  spirito guida e sentirsi dire: "non temere, tutto andrà bene." 
Probabilmente avremmo vissuto vite completamente diverse  se ciò ci fosse stato detto ogni giorno, a livello personale, lo avessimo accolto nel cuore ed avessimo agito in base a ciò.
Ebbene, avere uno spirito guida suona come una grande idea, infatti molte persone parlano di spiriti guida come se essi fossero i loro, molto privati, animaletti domestici favoriti. "Il mio spirito guida mi ha detto…".  
Ma che cosa sappiamo realmente sul mondo degli spiriti? 
Ci sono alcuni punti che i praticanti i quali desiderano lavorare con spiriti guida hanno bisogno di mettere in primo piano nelle loro menti.
Se, come abbiamo esposto in precedenti articoli, lo scopo ultimo del sistema di Reiki è quello di diventare UNO con l'universo, perchè i praticanti cercano le risposte al di fuori di se stessi?
Sicuramente se vi connettete con il mondo ad un livello energetico profondo (diventando Uno con esso) non avrete più bisogno di lavorare con qualità duplici, come dei nomi o dei personaggi. 

E' possibile avere fiducia in ciò che noi speriamo sia un essere spirituale?
Quando state meditando e sentite una voce, o avete una sensazione particolarmente forte, o se vedete una faccia, potreste credere di avere incontrato il vostro spirito guida. 
Essa vi appartiene del tutto e, in base a ciò che comprendete, essa vi aiuterà in ogni modo possibile, come un essere non fisico può fare. Così, per i prossimi 20 minuti, chiedetele tutto ciò che vi può venite in mente - è il caso di parlare a vostro figlio della influenza che i suoi attuali amici stanno avendo su di lui? E' il caso comprare una macchina più costosa o quella meno costosa ma che ha i fari guasti? Quale meditazione è migliore per voi, oggi? Andate avanti, e vi stancherete di porre domande.
Il vostro spirito guida risponde puntualmente si, no e talvolta voi non siete del tutto convinti, ma tutto ciò è molto affascinante . 

Nel mondo fisico, se rimaneste vicino a qualcuno per 20 minuti, alla fermata dell'autobus, avviereste un tal genere di conversazione? Vi affidereste a quella persona con tutte le vostre domande più intime e più segrete? 
Normalmente, vi prendereste molto più tempo per decidere a chi confidare questi pensieri e ci mettereste ancora più tempo per prendere sul serio i loro consigli su tali questioni.  
Prima di accettare una una indicazione spirituale da uno sconosciuto, è saggio cercare di sapere chi sia questo essere ed avere la capacità di condurre la vostra comunicazione con questo essere con chiarezza e buon senso. 
Chiacchierare con gli spiriti guida, quindi non è così semplice come potreste essere indotti ad aspettarvi. 
Forse dovreste chiedervi: "Tutti gli spiriti ci sono proprio per aiutare me?" Se non sapete la risposta a questa domanda, siete qualificati per cercare di contattare uno spirito come guida oppure vi state per mettere in una posizione vulnerabile?
Vi è una ulteriore domanda che su cui potreste riflettere: "Se è così semplice comunicare con spiriti guida che possono rispondere alle mie importanti domande, come mai il mondo è in un tale stato di confusione? La gente sta parlando con guide, Divinità ed esseri di molte forme e dimensioni da migliaia di anni, eppure la guerra continua a  devastare il nostro mondo. Con il cercare le risposte al di fuori di noi stessi, ci stiamo dimenticando di assumerci la responsabilità delle nostre proprie azioni?"
Possiamo così vedere il motivo per cui le culture indigene hanno, da  sempre, preteso che lo Sciamano o l'asceta si sottopongano a prove di straordinario rigore ed impegno, prima di qualificarsi per il ruolo di interprete spirituale. La comunità, in questo modo, è rassicurata che questo tramite è genuino e non uno sciamano opportunista (ndt: letteralmente:" di plastica", quindi adattabile, plasmabile) che si occupa di realtà superficiali che possono finire per procurare ad essa  -  o in particolare a qualcuno nella comunità - un danno, per la mancanza di comprensione delle verità. 
La vostra motivazione per comunicare con uno spirito guida va costantemente rivista poiché essa può perdere la sua vitalità e diventare un attaccamento. Alcuni praticanti diventano così attaccati al concetto di spirito guida che mettono in discussione le proprie azioni se non sono 'guidate' da una forza esteriore.
Fare assegnamento su qualcosa al di fuori di voi stessi non rafforza la vostra abilità, ma indebolisce la vostra fiducia in voi stessi. Se continuate a cercare la vostra guida, senza un contesto storico e senza la comprensione di ciò che  state facendo, potete ritrovarvi, invece, ad "immaginare" una guida. Questa  fantasia è una distrazione dal percorso che conduce alla autentica realizzazione.
Potete percepire che uno spirito guida ha qualcosa da rivelarvi, potete scegliere se accettare o meno questa informazione, ma siate sicuri di usare il vostro buon senso.  
Riportatela (l’informazione) attraverso il vostro filtro umano. Ricordate che, per raggiungere la vera guarigione, avete bisogno di lasciar andare il bisogno di manipolare e di creare guarigione.
Per essere completamente in questo spazio, avete bisogno di essere un praticante esperto che può comprendere il significato di Reiki, prima di tutto nella vostra vita. Rimanendo aperti, senza aspettative e senza giudizio mentale, tu, come il praticante, sarai in grado di  occuparti di ciò che avviene nella tua vita, momento per momento, e questa forza arriverà dall'interno, non da fuori. 
Per affinare le vostre abilità intuitive come praticanti Reiki, viene raccomandato di cominciare con la pratica delle tecniche Reiki Giapponesi di "byosen ho" e poi "reiji ho". Questa raccomandazione viene fatta perché si crede che possiate sviluppare potenzialità ascetiche senza dovervi allontanare dal sistema di Reiki - è tutto lì, in offerta, in attesa che voi cerchiate più in profondità nelle sue origini e pratiche.  
Questo sistema ha le sue radici in un forte retroterra storico e in una forte cultura; elementi che, se rispettati, manterranno il praticante sulla retta via 
Naturalmente queste pratiche iniziali sono una parte di un sistema completo quindi non dimenticate i vostri precetti, le vostre meditazioni, le vostre posizioni delle mani  ed il vostro percorso,  seguendo il vostro insegnante. Il vostro insegnante sarà in grado, quando sarete pronti, di guidarvi nella scelta di tecniche o pratiche che sono successive all'apprendimento di queste pratiche di base. 
Queste  tecniche Reiki di "byosen ho" e "reiji ho" possono essere trovate nei libri:
"The Reiki Sourcebook" e nel "Reiki Techniques Card Deck", di nuova realizzazione.
Forse, via via che uno rafforza la propria connessione intuitiva ed interiore per mezzo di tali pratiche, a volte una grande prova di per sé, può esserci un punto in cui si riconosce il proprio potenziale di diventare un Kami.
Se vi piacerebbe saperne di più, per sviluppare l’ascetismo nella vostra pratica, per favore sentitevi liberi di contattare Frans and Bronwen. info@.reiki.net.au
  Tradotto da : Marina Anna Fellner