sabato 23 agosto 2008

" La monade " G. W. LEIBNIZ (1646-1716)


a cura DI D. PICCHIOTTI
Una delle dottrine caratteristiche di Leibniz è la cosiddetta Monadologia. È il titolo di un libro, I principi della filosofia o Monadologia (1714) in cui egli definisce la monade come una sostanza semplice cioè senza parti. E dove non ci sono parti, non c’è estensione, figura né divisibilità possibile. Non può quindi estinguersi o dissolversi: può solo cominciare per creazione e finire per annientamento. Se non può essere alterata o modificata, la monade non ha “finestre”. Ogni monade è però, dice Leibniz, è diversa dall’altra: in natura non vi sono infatti due esseri che siano l’uno come l’altro e nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su una determinazione intrinseca (è il principio della identità degli indiscernibili, cioè il principio secondo cui, se esistessero due esseri identici non si potrebbero neppure distinguere quindi sarebbero la stessa cosa, ma visto che così non è… c.v.d.). Ogni monade creata o sostanza semplice può anche chiamarsi entelechia perché ha una certa perfezione e autosufficienza. Ma essa si può distinguere dalla monade che ha percezioni più distinte e accompagnate da memoria: quest’ultima è l’anima. L’uomo si distingue dagli altri animali per la conoscenza delle verità necessarie ed eterne: tale conoscenza ci rende capaci di ragione e di scienza e ci eleva alla conoscenza di noi stessi e di Dio. Essa è ciò che chiamiamo anima ragionevole o spirito.

Il corpo che appartiene a una monade, che ne è l’entelechia o anima, costituisce, con l’entelechia, ciò che può essere chiamato un essere vivente. Anzi nell’universo, secondo Leibniz, non c’è nulla di incolto, sterile, morto e non c’è caos o confusione se non all’apparenza. Non vi è mai generazione in senso assoluto né morte perfetta, intesa in senso rigoroso, come separazione dell’anima. E ciò che noi chiamiamo generazioni sono sviluppi ed accrescimenti, come quelle che noi chiamiamo morti, sono involuzioni e diminuzioni.

Il corpo organico di ogni essere vivente è una specie di macchina divina, o di automa naturale, che supera infinitamente tutti gli automi artificiali. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, mentre i corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. Ma i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono in armonia fra loro.



Verità di ragione e verità di fatto

Leibniz prosegue dicendo che vi sono due principi su cui si basano i nostri ragionamenti: il principio di contraddizione e quello di ragion sufficiente. Il primo in virtù del quale giudichiamo falso ciò che implica contraddizione e vero ciò che è opposto; il secondo per cui consideriamo che nessun fatto può essere vero o esistente e nessuna proposizione vera senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia così e non altrimenti, per quanto queste ragioni il più delle volte non possano esserci conosciute.

Ma la ragione sufficiente si deve trovare – secondo Leibniz - anche nelle verità contingenti, quelle che egli definisce verità di fatto (oppure alle verità di ragione: queste sono necessarie e il loro opposto è impossibile, quelle di fatto sono contingenti e il loro opposto è possibile) cioè nella serie delle cose sparse nell’universo. In esse la risoluzione in ragioni particolari può essere spinta senza limiti, a causa della immensa varietà delle cose della natura e della divisione dei corpi all’infinito. E siccome tutto questo dettaglio non implica se non altri contingenti anteriori, ancora più particolareggiati, ciascuno dei quali ha bisogno, perché se ne possa rendere ragione, di un’analisi simile, bisogna che la ragione sufficiente o ultima sia al di fuori della successione o della serie di questi dettagli delle contingenze, per quanto infinita possa essere. Quindi la ragione ultima delle cose deve trovarsi – conclude Leibniz – in una sostanza necessaria, cioè Dio.

Posto questo principio, continua Leibniz, la prima questione che si ha diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa anziché niente? Giacché – osserva Leibniz - il nulla è più semplice e più facile di qualcosa. Inoltre, supposto che alcune cose debbano esistere, bisogna che sia possibile dare la ragione perché debbano esistere così e non altrimenti (cfr. Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, 1714, parag. 7). La risposta a questa domanda è, per Leibniz, Dio stesso : egli dice che la ragione sufficiente dell’esistere dell’universo è necessario che sia fuori della serie delle realtà contingenti e si trovi in una sostanza, che ne sia la causa, che sia un essere necessario che porti la ragione della sua esistenza con sé, e cioè appunto Dio.


Dio

Ma come è questo Dio? Secondo Leibniz egli è unico, è senza limiti e contiene la massima quantità possibile di realtà. In altri termini, Dio è assolutamente perfetto (intendendo per perfezione la grandezza della realtà positiva). Solo Dio infatti ha questo privilegio: che se è possibile, bisogna che esista. E visto che nulla può impedire la possibilità di ciò che non implica alcun limite, alcuna negazione, alcuna contraddizione, questo soltanto basta a conoscere a priori l’esistenza di Dio. Mentre si può provare l’esistenza di Dio a posteriori con quanto ha detto prima: esistono degli esseri contingenti, i quali non possono avere la loro ragione ultima o sufficiente se non in un essere necessario, che ha in sé stesso la ragione della propria esistenza.

In Dio c’è potenza, conoscenza e volontà. Ovviamente in Dio questi attributi sono infiniti o perfetti, nelle monadi create non sono che imitazioni. Ora, poiché nelle idee di Dio c’è una infinità di universi possibili, mentre non può esisterne che uno solo, bisogna che ci sia una ragione sufficiente della scelta di questo universo da parte di Dio. E questa ragione, secondo Leibniz, non può trovarsi che nella convenienza o nei gradi di perfezione che questi mondi contengono (e ciò perché – spiega Leibniz – ogni possibile ha il diritto di pretendere all’esistenza nella misura della perfezione che implica). E ciò è la causa dell’esistenza del meglio, che la Saggezza fa conoscere a Dio, che la sua bontà gli fa scegliere e la sua potenza gli fa produrre.

In altri termini - come sostiene anche nei Saggi di Teodicea – se Dio ha creato questo mondo è perché lo ha scelto secondo quanto gli suggeriva la sua saggezza ed ha quindi permesso il male in esso, il che però non impedisce che, tenuto conto di tutto, questo mondo non fosse il migliore che potesse essere scelto. Dio ha scelto seguendo il principio del meglio.

Riguardo poi all’annoso problema del male, Leibniz risponde in linea con la tradizione cristiana classica: Dio non vuole affatto il male morale ed in modo assoluto non vuole il male fisico e le sofferenze; perciò non v’è predeterminazione assoluta alla dannazione. Il male serve spesso per far gustare meglio il bene e qualche volta contribuisce ad una perfezione più grande di colui che lo soffre, come il grano che viene seminato è soggetto ad una specie di corruzione per germinare: è un bel paragone – dice Leibniz – del quale Gesù Cristo stesso si è servito (cfr. Saggi di Teodicea, 23).

In che senso allora possiamo dire che Dio permette il male? Qui – dice Leibniz – è necessario spiegare che cosa significa “permesso”. Per spiegarlo, bisogna spiegare la natura della volontà e dei suoi gradi. Si può dire che la volontà consiste nell’inclinazione a fare qualcosa in proporzione del bene che essa racchiude. Questa volontà è chiamata antecedente, quando è considerata a parte e si riferisce ad ogni bene isolatamente, in quanto è bene. In questo senso, si può dire che Dio tende ad ogni bene in quanto è bene. Egli ha un’inclinazione forte a santificare e a salvare tutti gli uomini, ad escludere il peccato e ad impedire la dannazione. Si può anche dire che questa volontà è di per sé efficace, cioè tale che l’effetto ne seguirebbe, se non vi fosse qualche ragione più forte che l’impedisce; ora questa volontà non giunge fino al suo ultimo sforzo, altrimenti non mancherebbe di produrre il suo pieno effetto, essendo Dio il signore di tutte le cose. Il successo completo ed infallibile non appartiene se non a quella che si chiama volontà conseguente. Questa è completa e per essa vale la regola che non manca di fare ciò che vuole, quando lo può. Ora questa volontà conseguente, finale e decisiva, risulta dal conflitto di tutte le volontà antecedenti, tanto di quelle che tendono verso il bene, quanto di quelle che respingono il male e dal concorso di tutte queste volontà particolari deriva la volontà totale (cfr. Saggi di Teodicea, 22). Da tutto ciò consegue che Dio vuole antecedentemente il bene e conseguentemente il meglio, come fine; l’indifferente o il male fisico eccezionalmente come un mezzo, il male morale, invece, lo vuole permettere a titolo di un sine quo non o di una necessità ipotetica, che lo congiunge al meglio. Per ciò la volontà conseguente di Dio che ha per oggetto il peccato è solo una volontà permissiva (cfr. Saggi di Teodicea, 25).



L’armonia prestabilita e l’amore

Gli spiriti umani sono immagini della stessa divinità e quindi sono in grado di entrare in una specie di società con Dio; da ciò è facile concludere – dice Leibniz – che l’assemblea di tutti gli spiriti deve formare la città di Dio, cioè lo stato più perfetto possibile, il quale è un mondo morale entro il mondo naturale, ed è dunque quanto vi è di più elevato e divino nelle opere divine. E come vi è armonia tra i due regni naturali, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, così vi è anche armonia tra il regno fisico della natura e quello della grazia divina (Leibniz la chiama armonia prestabilita). Sotto il governo di Dio, tutto si risolverà nel bene dei buoni e quindi il nostro compito è quello di lavorare per tutto quello che è conforme alla volontà divina, perché solo Dio è il fine della nostra volontà ed è Lui solo la nostra felicità. Infatti, aveva già detto Leibniz nei Saggi di Teodicea (1710), se l’amore ci fa trovare piacere nelle perfezioni dell’oggetto amato, nulla è più perfetto e quindi nulla è più attraente di Dio stesso. Ne consegue – continua Leibniz – che la vera pietà e la vera felicità consiste nell’amore di Dio, ma in un amore il cui ardore sia accompagnato dalla ragione. Questa specie di amore fa nascere il piacere delle buone azioni che dànno splendore alla virtù ed eleva l’umano al divino. Troviamo accenti quasi mistici in molte pagine della Teodicea. Ad es. Leibniz dice che quando si è rassegnati alla volontà divina e si sa che ciò che Egli vuole è sempre il meglio, si è sempre contenti di ciò che accade, sia che la nostra azione riesca o non riesca. Quando siamo in questa disposizione di spirito, continua Leibniz, non saremo mai abbattuti dagli insuccessi e non avremo rammarico che per le nostre colpe; la nostra carità sarà umile e libera da ogni pretesa di signoreggiare.

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Gotfried Wilhelm Leibniz nacque nel 1646 a Lipsia. Fu un genio precoce: imparò le lingue classiche da giovanissimo e si occupò di moltissime scienze; tra l'altro scoprì da solo il calcolo integrale: scoperta già fatta da Newton anni prima ma di lui leibniz non era a conoscenza. Si laureò in diritto a vent'anni. Poco dopo ebbe l'occasione di conoscere l'Elettore di Magonza e ne diventò consigliere. Entrò quindi in politica e il suo sogno fu quello di dar vita ad una organizzazione mondiale che si occupasse di scienza (e anche di riunire ecumenicamente le chiese cristiane): sogno in parte realizzato con la fondazione (molti anni dopo, nel 1700) di quella che diverrà poi la Accademia prussiana. Cominciò in quel periodo a corrispondere con moltissimi intellettuali e scienziati dell'epoca e il suo epistolario (12000 lettere!) è importantissimo per la conoscenza del sapere di allora. Nel 1676 entrò al servizio dei duchi di Hannover (come bibliotecario e storiografo) e resterà con loro praticamente per tutto il resto della sua vita. Morì nel 1716.
Ricordiamo tra gli scritti : Discorso di metafisica (1686), Monadologia (1714), Nuovi saggi sull'intelletto umano (è un'analisi capitolo per capitolo del Saggio di Locke) del 1705, Saggio di teodicea (1710) ecc.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

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