Il concetto della realtà nell'arte contemporanea
a cura DI D. PICCHIOTTI
Il concetto della realtà
nell'arte contemporanea
Un problema del rapporto tra arte e realtà è, quando sia posto in questi termini, un problema irresolvibile, assurdo. E' irresolvibile e assurdo perché l'arte è, essa stessa, realtà concreta, esistente. E' impossibile pensare l'arte separatamente dalle opere d'arte; è impossibile porre un concetto dell'arte che immediatamente non si identifichi con l'intera fenomenologia dell'arte. Se l'arte è realtà, il problema del rapporto dell'arte con la realtà è ancora il problema tra una parte della realtà e la realtà come un tutto sicché il problema si traduce nell'indagare come l'arte sia nella realtà, cioè quali siano le qualità che distinguono i fenomeni artistici nel mondo dei fenomeni; o, ancora, come operi e agisca la realtà dell'arte nell'ambito di una realtà che non possiamo considerare come immobile costante e che, dunque, è modificata continuamente anche dall'arte. Anzitutto dobbiamo chiederci se, considerando l'arte come fenomeno e chiamando con la parola arte null'altro che la serie dei fenomeni artistici, questa serie fenomenica sia in relazione con altre serie fenomeniche, e quali. La risposta è, evidentemente, molto semplice: l'arte è in rapporto con tutta la serie dei fenomeni prodotti dalla volontà e dalla mano dell'uomo, dunque con tutto ciò che chiamiamo, con parola che ha la sua radice in comune con quella della parola arte, artificiale. Indubbiamente, la pròblematica dell'arte è un aspetto della problematica del fare. Nella problematica del fare, l'arte è un aspetto egemone, preponderante: non è soltanto un fare, ma un fare bene o meglio o ottimamente, cioè un fare che, benché necessariamente legato allo sviluppo storico e suscettibile di periodizzazione, si suppone ed assume come valore indipendente dalle scadenze che sappiamo essere le scadenze delle civiltà storiche. Propongo dunque di accettare, come ipotesi per l'ulteriore sviluppo del nostro ragionamento, la definizione scolastica dell'arte: "recta ratio factibilium", intendendosi con essa che soltanto nell'ambito del fattibile può darsi arte e che il fare con arte è il fare secondo una certa ragione cioè secondo un progetto che, ponendosi come momento preliminare del valore, garantisce un indefinito prolungarsi della validità del valore stesso. Ciò premesso, il problema del rapporto tra arte e realtà si traduce in quello del rapporto tra arte e natura o, ch'è lo stesso, tra artificiale e naturale, come componenti, con pari diritto, della realtà: sicché quel problema è ancora il problema di una dialettica o di una dinamica interna del reale. E' chiaro che il rapporto si riduce allora alla relazione tra uno schema dato (la Natura), e che non può esprimersi che in termini di storia, e un fare o un agire (l'arte) che può condurre a una modificazione anche radicale di quello schema. Dopo avere impostato il problema in questi termini, e ricondotta l'arte alla categoria del fare, o delle operazioni umane, si ripropone tuttavia, e in modo da non poter essere facilmente eluso, il problema del rapporto dell'arte con i fatti della percezione. Nessuna opera d'arte figurativa si dà altrimenti che nella percezione. L'opera d'arte figurativa realizza valori che debbono essere percepiti e cessano di esistere se non siano percepiti; inoltre senza la percezione non si dà ciò che chiamiamo la fruizione o il consumo dell'opera d'arte da parte della società, quella piena estrinsecazione o alienazione, senza di che l'opera d'arte non realizza i suoi fini e quindi non si realizza. Il solo fatto che l'opera d'arte, per esistere come valore estetico, debba essere percepita, indica che essa è in relazione con il mondo della percezione. Infatti: perché mai si dovrebbe fare un oggetto la cui prima e fondamentale qualità è di essere visibile, se poi questo oggetto non avesse la funzione di chiarire i problemi inerenti al visibile? Ma abbiamo detto che l'arte è un fare: dobbiamo perciò spiegare il rapporto tra il vedere e il fare e indicare perché mai quel fare, ch'è l'arte, esiga un fondamento e un esito nel vedere. Il problema potrebbe porsi in questi termini : è possibile considerare il vedere come un fare o, inversamente, il fare come un vedere? La risposta è sicuramente affermativa. Sappiamo che il vedere o percepire non è un atto semplice ma complesso, che implica un processo controllabile nelle sue fasi; e sappiamo che la percezione è influenzata dalle condizioni del soggetto, e che queste sono condizioni di cultura o di educazione, storicamente determinate. Il vedere è dunque una condizione della realtà e attualità del fare. Molte azioni, forse tutte, richiedono un accertamento della situazione spaziale in cui debbono attuarsi. Tuttavia, questa percezione è diversa da quella che riceviamo durante il fare. Sollecitati dalle esigenze pratiche del fare, e dal suo fine, noi non vediamo più lo spazio come struttura fissa, ma come insieme di funzioni lo stesso spazio diventa allora, come dice Heidegger, distanza da superare (Entfernung), disposizione delle cose in un certo ordine (Ausrichtung), in rapporto al nostro preoccuparci del fine (Besorgen). Il problema, però, acquista ben maggiore portata quando si pensi che il vedere è, ab antiquo, posto in relazione immediata col conoscere, il fare con l'attività morale. E' dunque legittimo chiederci se il rapporto tra vedere e fare, che abbiamo visto essere essenziale per l'arte, non investa per avventura il ben più grave rapporto tra il conoscere e l'agire, tra gli interessi gnoseologici e gli interessi morali. Per definire meglio questo punto del problema ci rifaremo ad alcuni facili esempi storici. Nei periodi che chiamiamo classici, cioè nei periodi in cui, come nel Rinascimento italiano, l'arte si pone come conoscenza positiva del mondo, il vedere è assunto come modo totale, esauriente di esperienza. Non voglio dire con questo che per gli uomini del Rinascimento tutta l'attività umana si risolvesse nel contemplare, anzi proprio il Rinascimento è il trionfo della vita attiva sulla contemplativa; ma infine, se si assume che la natura è l'opera di Dio e che in Dio si compendia ogni possibilità d'esperienza, è chiaro che il fare artistico si giustifica interamente sulla base della esperienza visiva. Ma, muovendo da questa premessa e ammettendo che ogni esperienza è implicita nella volontà che ha creato l'universo e provvidenzialmente lo regge, ogni fare sarà sempre un rifare, né si potrà fare nulla che non sia già scritto in quel disegno provvidenziale. Nasce allora, o per lo meno si ripropone con significato nuovo, il concetto di arte come imitazione o mimesi; e il processo che attua la mìmesi o la rappresentazione sarà sempre, non già un fare, ma un rifare: un rifare con la limitatezza dei gesti e dei mezzi umani l'atto creativo, divino, dal quale si pensa essere uscito il mondo. Ma posso ammettere anche l'ipotesi contraria: posso ammettere che l'esperienza non sia data a priori e che io debba costruirla attraverso un processo d'indagine che non si compie senza un atto di volontà: il quale, a sua volta, è già un fare o almeno un'intenzione, un progetto di fare. Così la nozione che io ho della realtà non esaurisce, né mai lo potrebbe, quella mia volontà d'esperienza: rimarrà sempre un margine d'ignoto nel quale dovrò avventurarmi, un'ulteriore possibilità di ricerca. Allora il mio fare, proiettato in quella dimensione ancora ignota e che il mio fare stesso andrà passo per passo delucidando, non sarà un rifare ma, veramente, un fare. Ma che cosa mi dà, in questa incerta avventura, il mondo visibile? Null'altro che una traccia, un frammento, un disegno che io debbo completare, definire; una specie di mappa di cui conosco alcune parti; ma dopo avere delucidate quelle linee, che segnano il cammino storico dell'umanità, nessuna altra guida mi rimane, per il cammino da compiere, che l'esperienza del già fatto. Non so in quale sistema potrò inserirmi, non so neppure se mai arriverò a disegnare un sistema della realtà. So soltanto che seguito un'esperienza. So che, finché seguito quell'esperienza, ho possibilità davanti a me. Quando non potrò più seguitare, non avrò altre possibilità: sarò morto. Ma, in questa realtà che si dà solo per frammenti, ogni frammento è insieme se stesso e l'indizio della propria limitatezza, l'allusione alla realtà che lo trascende. Questa realtà per frammenti non può più appagare, come faceva la classica Natura, il mio impulso interiore a conoscere e agire; ma, denunciando continuamente il mio limite e spronandomi a oltrepassarlo, a scoprire oltre il limite del frammento un segno che tradisca il seguitare, il protrarsi, nello spazio e nel tempo, della realtà. Ecco dunque che quel segno, che l'arte moderna cerca di ridurre alla essenzialità semantica più rigorosa, è anche atto. E' percezione, ma una percezione che reca già in sé il principio, lo scatto del fare. La scoperta dell'identità di segno e atto, e dunque dell'assoluto valore di realtà del segno, è stata fatta dalla generazione che ha operato nell'altro dopoguerra: dalla generazione di Mondrian, di Kandinsky, di Klee. Il punto di crisi è segnato, meglio che da altri, da Hartung; il passo oltre la crisi, e forse su un terreno anche più minato, è quello che si chiama Informale. Mondrian è l'uomo che dà alla scelta e la scelta è sempre il processo di base dell'arte, in quanto scelta del meglio, gravità di dilemma. Nel mondo storico in cui vive l'uomo moderno non si sceglie più tra il meglio e il peggio, tra il buono e il meno buono, ma tra l'essere e il non essere. Ogni parola detta è verità assoluta o menzogna. Ma quanto più Mondrian sì avvicina a quella che si ostina a credere la verità, e verità assoluta e matematica, tanto più intorno a quel piccolo punto, che si fa sempre più brillante, dilaga l'oscurità più profonda. Non vale cercare di diffondere quella luce, è meglio intensificarla in quell'unico punto, su quel grumo di verità allo stato puro, che si suppone insistere al centro stesso della coscienza. Dal terrore e dal disordine, terrore e disordine storicamente concreti, Mondrian vuole e riesce a salvare una piccola, infinitamente preziosa verità matematica. E quanti sacrifici, per salvarla, senza neppure sapere se la salvezza sarà certa e definitiva. Prometeo a rovescio, Mondrian cerca di riportare in cielo, nel cielo delle verità eterne, il principio razionale di quella civiltà, che gli uomini non sono più degni di possedere e sembrano ansiosi di distruggere. Ma, per salvare la matematica, Mondrian deve trasformarla in pittura. Il preziosissimo a priori per poter sopravvivere, in questa tragica condizione della coscienza, deve celarsi e confondersi come Achille travestito nel gineceo, nel mondo caotico, confuso, carnevalesco delle sembianze. Per salvare il noumeno, Mondrian deve trasformarlo in fenomeno; per salvare l'essere deve trasformarlo in esistere, cogliere nel 'dasein' almeno la traccia, il riflesso del 'sein'. Nella sua pittura il segno, e proprio il segno nero che separa quasi sempre le zone del colore, è il segno del programma, dell'utopia, ma, nella sua ricalcata pesantezza, nella quasi dolorosa gravezza, sta a indicare che, nella condizione storica attuale, l'utopia è ancora la più concreta delle realtà morali. A sua volta, Kandinsky cerca un'identità di valore fenomenico e valore spirituale del segno, nel segno stesso identificando l'immagine autentica dello hic et nunc, il segno d'uguaglianza finalmente posto tra spazio e tempo, quantità e qualità. Il suo ideale è ancora di arrivare a comprendere nel frammento o nel segno la realtà infinita, in una piccola certezza la dimensione illimitata del possibile. La certezza di spazio e di tempo che acquista il segno in Kandinsky è la controparte di una illimitatezza (ché ormai non si può neppur più parlare di infinito) che infatti si esprime nella designazione di uno spazio non più proporzionale né dimensionale, ma direzionale. Quanto a Klee, cerca una nuova figurazione della storia: tutta la storia dell'umanità, e tutta la sua preistoria, devono compendiarsi nella storia e preistoria dell'individuo: benché, meglio che di storia, dovrebbe parlarsi di esperienza, di Erlebnis. E' una proposizione estremamente drammatica, poiché in questo tentar di condensare ed esemplificare nella storia-preistoria dell'individuo la storia-preistoria dell'umanità, Klee tenta disperatamente di risolvere il problema della qualità (cioè dell'individuo) e della quantità (cioè della moltitudine, della società, della massa). E tutta la sua opera è ancora una negazione; termina ineluttabilmente in una continua, eppure lucida e serena scoperta o, meglio, identificazione della morte. Si potrebbe dire dell'opera di Klee, e specificatamente dei suoi aspetti "popolari", ciò che Thomas Mann fa dire al suo Kretzschmar delle ultime sonate di Beethoven "In queste composizioni gli elementi soggettivi e la convenzione combinavano un nuovo rapporto, un rapporto caratterizzato dalla morte." Mondrian, Kandinsky, Klee hanno operato nell'altro dopoguerra; quando si pensava o ci s'illudeva di poter risalire da un disordine e dolore precoci (per citare ancora una volta Mann) ad una armonia universale nella realtà storica dei singoli paesi e dei loro solidali rapporti. Essi hanno voluto offrire al mondo proposte o programmi di riforma; hanno mortificato consapevolmente il loro esprit de finesse per l'esprit de géornetrie col quale si fanno le rivoluzioni. Ma quando Hartung inizia la fase più significativa del suo lavoro pittorico, la situazione è ben più drammatica: la minaccia delle dittature incombe sulla civiltà europea. E' questa la causa concreta, storica e non metafisica, dell'angoscia: del determinarsi storico di quell'angoscia che da tempo i filosofi riconoscevano come tipica condizione dell'uomo e, segnatamente, dell'uomo moderno. Il segno di Hartung, dunque, non ha origine da una tesi spaziale, né si inquadra in un programma : esso è, in pittura, esattamente la stessa cosa che, in scienza, un ipotesi: una proposizione che non si dimostra astrattamente vera o non vera, ma che vale per la sua funzionalità operativa. Non è di fondamentale importanza che l'ipotesi sia vera (cesserebbe di essere ipotesi, se dimostrata per vera): ciò che importa è che l'ipotesi permetta di seguitare l'esperienza, cioè abbia un valore operativo al fine del proseguimento dell'esperienza. Il pericolo al quale Hartung innegabilmente si espone è il pericolo dell'atto come mera asserzione d'esistenza: e si sa che non tutto il fare è morale, ma è morale il fare che si deve fare. Nella pittura di Hartung non bisogna cercare una condizione di libertà, ma di necessità: è questo il suo contatto con la realtà, che è sempre necessità. Nella sua pittura ogni segno segna veramente, cioè crea con la sua sola forza visiva un campo entro il quale esercita positivamente una forza. Attua una dimensione spazio-temporale, determina una concreta condizione d'esistenza. Raggiungere di colpo una lampeggiante immagine dello spazio-tempo, e non quella continuità che accompagna l'azione, ma in quell'intuizione immediata che accompagna la decisione o la scelta morale dell'azione, è appunto lo scopo della sperimentazione continua di Hartung: la cui pittura di segni implica la persuasione del totale e irrevocabile iscriversi di ogni atto o gesto o pensiero umano nella forma o nel volto del mondo, nella realtà. E come negare, oltre questo che già pareva essere l'orizzonte ultimo delle possibilità, il valore del furor morale dell'opera di Pollock; come non sentire che ogni suo quadro è una furibonda partita in cui si gioca concretamente il destino umano e, quel ch'è peggio, una partita che si combatte non per vincere, bensì soltanto per sopravvivere? Come non sentire, infine, che il cosiddetto Informale non è affatto arbitrio né riconquista tardiva e pentita di un naturalismo, ma la tentata e rischiosa conquista dell'attimo d'esistenza, d'un carnale ma deludente contatto con la realtà? Credo che null'altro cerchi l'arte moderna se non questo formulare ipotesi formali che consentano di proseguire l'esperienza, di sopravvivere, di essere comunque nella realtà, con tutte le difficoltà che questo essere indubbiamente comporta. E questo è già realismo. Si badi, quanto più ci si discosta dalla natura che è schema e nozione, tanto più ci si addentra nella realtà, ch'è movimento e problema. Vogliamo essere realisti perché siamo reali, ma realismo non è certo la rappresentazione o l'oggettivazione del mondo esterno. Rappresentare la realtà significa oggettivarla, dunque metterci al di fuori di essa, distinguerci da essa come il soggetto dall'oggetto: il naturalismo è sempre stato, sarà sempre irrealistico. Ciò vale anche per il cosiddetto realismo socialista, spesso addotto ad esempio di arte impegnata. Non bisogna aver paura delle parole. L'urto delle forze nella realtà, le contraddizioni che si determinano in essa, le lacerazioni che ne fanno sanguinare il tessuto, sono realtà concrete che interessano direttamente anche l'artista. Ma quando quell'interesse si dovrebbe tradurre in azione e invece si fissa in immagini naturalistiche, cioè in sistemi di segni che in passato sono serviti a rappresentare l'unità e la struttura sistematica della creazione, nonché l'ammirata contemplazione degli uomini di fronte al miracolo naturale, allora si fa, di quella che avrebbe dovuto essere un'arte impegnata, l'arte più evasiva e più assurdamente, baroccamente allegorica. Realismo non significa dunque rappresentare oggettivamente o interpretativamente la realtà, ma essere dentro la realtà; dentro la realtà storica e sociale non meno che dentro la realtà naturale, dentro la realtà non sensibile non meno che in quella afferrabile con i sensi. Il solo realismo che si possa predicare all'arte è un realismo morale, che investa a fondo il problema del fare artistico in quanto effettivo intervento nella situazione. Se della situazione storica non si ha una percezione viva, o realistica, non si potrà evidentemente intervenire con un'azione valida. Non si creda dunque, che tutto lo sforzo dell'arte moderna sia rivolto a rappresentare aspetti di realtà che semplicemente sfuggono alla percezione sensoria o che pur dandosi alla percezione, non siamo abituati a registrare in quanto per lo più irrilevanti ai fini dell'azione umana se così fosse, l'arte sarebbe ancora imitazione, mimesi. Ciò che importa affermare è che, allorché decido d'intervenire nella società mediante un'azione mirante a produrre certi effetti, e di fatto intervengo, non posso non modificare la stessa nozione del mondo in rapporto alla necessità, alle direzioni, al ritmo dell'azione. Ma davvero l'arte moderna ha siffatti intenti etici e sociali? Davvero è così profondamente politica? E perché allora non dispiega una più evidente e programmatica azione? Ma si rifletta alla crisi in cui la civiltà moderna ha posta l'arte: privandola di quasi tutte le sue funzioni tradizionali, sviluppando una tecnica diversa da quella ch'era da sempre concresciuta all'arte, istituendo miti che non hanno riti nell'arte, ideali che non hanno simboli formali, sentimenti che non sono, certamente non sono Naturgefuehle. Ciò che l'artista cerca di preservare o riscattare è la sopravvivenza di certi valori e, con essi, la giustificazione etica del proprio agire. Non credo alla crisi dei valori, ma credo alla loro continua trasformazione e constato che tale trasformazione si compie oggi secondo un processo più rapido: essere nella realtà significa trasformare rapidamente e radicalmente i processi tradizionali dell'arte. Non siamo al tramonto, ma all'alba di un periodo storico. E l'alba è un'ora triste e difficile, favorevole alle angosce e ai collassi; ma è anche l'ora che decide come sarà il giorno. Come altri intellettuali, gli artisti moderni stanno giuocando su una carta sola, con molto coraggio e molta determinatezza, il destino di tutti quei valori che formano il patrimonio dell'umanità. Stanno scoprendo a quali condizioni, forse durissime, quei valori potranno sopravvivere e tramandarsi. Ma credo che anche soltanto in questo giocare tutto per tutto pur di poter ancora fare, si realizzi la profonda eticità dell'arte moderna.
Fonti: 'Salvezza e caduta nell'arte moderna' Giulio Carlo Argan, Alberto Mondadori Editore, 1964
1 commento:
ieri era il compleanno di Peggy Guggenheim... ;O)
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