martedì 29 aprile 2008

"CONFUCIO" IL GRANDE MAESTRO

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Originario dello Stato di Lu, parte sud-orientale dell'attuale provincia dello Shandong, Confucio nacque nel 551 a.C. dalla famiglia Kong e gli venne dato il nome Qiu perché, come avverte lo storico Sima Qian, "al momento della nascita aveva una protuberanza sulla cima del cranio, perciò derivò da questo il suo nome
personale che fu Qiu (letteralmente collina)". Il nome italiano Confucio deriva da Confutius (o Confucius), latinizzazione dell'espressione Kong Fuzi (letteralmente Maestro Kong) ad opera dei primi missionari gesuiti in Cina.
Confucio visse in un'epoca in cui la Cina era divisa in una decina di stati rivali. La famiglia di aristocratici dello Stato di Song da cui proveniva, era da molto tempo caduta in disgrazia, ma la morte di suo padre, avvenuta quando aveva solo 3 anni, precipitò la sorte della casata che si impoverì
di giorno in giorno. Il giovane Confucio era tuttavia assiduo negli studi e divenne un piccolo funzionario, incaricato della gestione dei magazzini e del controllo dell'allevamento del bestiame bovino ed ovino. Nello stesso tempo si occupava dei matrimoni e dei funerali delle famiglie ricche, un'occupazione che gli diede l'occasione di vedere da vicino la miseria del popolo, ma anche, certamente, gli permise di familiarizzare con i riti dell'alta società. Avendo acquisito molte conoscenze sulla cultura antica, divenne un grande erudito. Per un breve periodo fu anche un giudice competente nel tribunali dello Stato di Lu.

Confucio provava una viva ammirazione per il Duca Zhou, uomo politico della dinastia dei Zhou Occidentali (XI sec.-771 a.C.), di cui egli desiderava applicare i principi politici nel suo paese, al fine di far rinascere l'età d'oro che aveva conosciuto questa dinastia. Ma nella società in piena mutazione quale era quella di Confucio, le contraddizioni tra governanti e governati erano arrivate a un punto tale di esasperazione che la sua azione restò vana. Come molti altri filosofi dell'epoca, egli viaggiò di Stato in Stato, conducendo per 13 anni una vita errante e offrendo i suoi servigi ai principi feudali. Ma il suo entusiasmo non era né condiviso né compreso tanto dai principi quanto dal popolo, divenendo spesso oggetto di calunnie e vessazioni. La soluzione che egli proponeva era semplice: per salvare la società bisogna salvare l'uomo. Si poneva come educatore: bisogna educare l'uomo, tanto colui che governa quanto colui che è governato.

Disperando nella causa, ritornò nello stato di Lu; aveva allora 68 anni e da allora si consacrò interamente all'insegnamento. Organizzò una nuova scuola in cui i suoi allievi erano i suoi discepoli. La scuola, fino ad allora diretta dallo Stato, conobbe dei cambiamenti: Confucio ruppe per la prima volta il monopolio dell'insegnamento ufficiale, organizzando una scuola creativa e progressista con sei corsi: politica, musica, calligrafia, tiro con l'arco, guida del carro e matematica. In quanto educatore, Confucio voleva fare dei suoi discepoli degli uomini completi utili allo Stato. Insegnò in tutto a 3000 allievi, di cui 72 divennero dei "saggi". Nello stesso tempo, secondo quanto gli attribuisce la tradizione, corresse il Classico delle Odi (Shi jing) e il Classico dei Documenti (Shu jing), rivide le Memorie sui Riti (Liji) e il Classico della Musica (Yue jing), aggiunse alcune sezioni al Classico della Mutazione (Yi jing). Apportò un contributo indelebile alla diffusione, riorganizzazione e conservazione del patrimonio della Cina antica. Morì nel 479 a.C. all'età di 73 anni.

Molti dei suoi discepoli domandavano a Confucio del sovrannaturale. Egli rispondeva differentemente a seconda delle circostanze e del livello dei suoi allievi. In tutte le sue risposte, Confucio evitava ogni investigazione metafisica e conduceva sempre i suoi allievi verso la pratica. Confucio era umanista e realista. Il giorno in cui il suo discepolo Zilu lo interrogò sul modo di onorare gli spiriti, Confucio rispose: "Non sai ancora come servire i vivi, come vuoi saper servire gli spiriti?". Se Confucio evita i problemi del sovrannaturale, si interroga tuttavia sul mistero dell'Universo. Osservava il cambiamento delle Quattro stagioni, ma non ne conosceva la causa. Secondo lui, era una forza misteriosa che dirigeva il mondo. Questa forza era la volontà del Cielo, la "legge naturale". Diceva: "il Cielo non parla, ma dispone del cambiamento delle Quattro stagioni e decide da maestro della crescita della natura". Secondo lui, il Cielo aveva una volontà propria, era personificato. Confucio, non solo credeva alla "legge naturale", ma la temeva anche. I suoi celebri "Tre Timori" dicevano che bisognava temere il Cielo, il Signore, e la parola del Saggio. La volontà del Cielo, dell'autorità suprema e del Saggio era inviolabile. Esagerava il mistero del Cielo e affermava l'impossibilità di arrivare a comprenderlo senza una grande esperienza. "Non si comprende il Cielo che a partire dai 50 anni" diceva. Per Confucio l'essenza dell'uomo è la "virtù". Non la virtù imposta, esteriore, bansì la virtù interiore, quella che è nascosta in noi, forza che dobbiamo sviluppare. Confucio chiama questa qualità il ren. Colui che possiede il ren cerca di perfezionarsi e aiuta gli altri a diventare migliori. Il termine ren è stato tradotto in differenti modi: benevolenza, amore, altruismo, bontà, umanità, virtù perfetta. La differenza nelle traduzioni viene dal fatto che Confucio ha applicato questo termine in sensi molto differenti tra loro. Il ren può essere positivo o negativo, ad esempio quando si dice: "Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te" è il ren negativo, che Confucio chiama shu, l'aspetto positivo del ren, il zhong, si traduce così, "Fai agli altri ciò che vorresti venga fatto a te". Per Confucio il principe ideale è colui che governa attraverso la sua virtù. Un giorno in cui il Signore Ji Kang lo interrogò sulla necessità della pena di morte, Confucio rispose: "Per governare il popolo, avete bisogno della pena di morte? Siate voi stesso virtuoso e il vostro popolo sarà virtuoso". Confucio raccomandava la pietà filiale. Ai giorni nostri questo principio ha rivestito un nuovo significato: più che l'obbedienza cieca ai maggiori d'età è un principio di rispetto delle persione anziane.
La saggezza di Confucio si ritrova sovente in piccole massime quali "Imparare senza riflettere o riflettere senza imparare non vi porta alla buona comprensione". Imparare e riflettere sono due principi essenziali della sua filosofia. "Imparare senza mai soddisfarsi, insegnare senza mai stancarsi" è il suo motto. "Se si incontra un saggio bisogna seguire il suo esempio; se costui non è un saggio, bisogna fare un giro su se stessi", questa massima vuol dire che si deve prendere l'altro, che sia saggio oppure no, come uno specchio per esaminarsi, al fine di trovare il buon esempio e trarne la lezione.
È tuttavia sul piano dell'insegnamento che Confucio ha portato il più grande contributo alla storia della cultura cinese. È per questo motivo che venne qualificato "modello eterno degli insegnanti" e "saggio" nella società feudale. Fu il primo a preconizzare "l'insegnamento come mezzo per impedire la divisione degli uomini in buoni e cattivi", una proposizione che abolì il monopolio dell'insegnamento da parte dell'aristocrazia e giocò un ruolo importante nell'eredità, la diffusione e lo sviluppo delle idee nell'antichità. L'insegnamento è sempre al servizio di uno scopo politico preciso e non fa eccezione in Confucio, il cui ideale si riassume con: "Ai brillanti letterati le alte cariche". Per la società antica questa è un'idea ragionevole e progressista. Secondo lui, il potere deve essere nelle mani degli uomini virtuosi e competenti e non dei membri della nobiltà che "non sanno far altro che bere, mangiare e godere". Tuttavia, Confucio si oppone al fatto che i suoi allievi partecipino alla produzione agricola, poiché pensa che l'insegnamento ha come scopo primario mantenere e perfezionare l'ordine sociale e sopire le contraddizioni tra governati e governanti. È per questo motivo che gli allievi devono imparare i metodi di governo.
Estremamente coscienzioso e serio negli studi, Confucio diceva: "Quando io so, dico che so, quando io non so, dico che non so, ecco ciò che si chiama sapere", un concetto molto vicino a quello di Socrate, ed anche: "Quando il nome non è giusto, il discorso non è conforme; quando il discorso non è conforme, gli affari non possono essere condotti bene", una delle frasi chiave del sistema di pensiero del Maestro. Particolarmente prudente, sosteneva ancora: "Chi ascolta molto e misura le sue parole commette meno errori; chi vede molto e agisce prudentemente ha meno rimorsi". Per ciò che concerne il metodo di riflessione, metteva in guardia contro la soggettività, l'arbitrario, la cocciutaggine e l'attitudine presuntuosa. Per ciò che concerne la pratica dell'insegnamento, consigliava di adattare il proprio insegnamento a ciascun individuo e di ragionare per analogia: "Non istruite un allievo che quando questi abbia veramente voglia di conoscere ma è incapace di conoscere senza l'aiuto altrui, non illuminate un allievo che quando questi brucia di voglia di esprimersi ma non riesce a dire ciò che ha nel cuore". Tutti questi precetti sono conformi in una certa misura alle regole universali dell'insegnamento.
Raccogliere l'eredità del passato per aprire il cammino del futuro, è un'altra caratteristica importante del pensiero di Confucio. Non preconizza di ripetere semplicemente il passato, ma di ispirarsi a ciò che è buono nel passato per impiegarlo nel presente. Egli adotta lo stesso comportamente a proposito dell'eredità del patrimonio culturale. Se Confucio dà grande importante alle esperienze storiche, non è affatto per ripetere ciò che si sa da molto tempo (wengu), ma per imparare il nuovo (zhixin). Diceva: "Non sono nato saggio, ma è con gli studi che sono diventato saggio". Confucio era positivamente avido di progresso, triste a causa dell'infelicità del Paese e del popolo, ottimista e distaccato da tutto. In tutta la sua vita non ha mai passato un solo giorno senza studiare. Di lui si diceva che amasse talmente lo studio da dimenticarsi sovente di mangiare; che provava un tale piacere a studiare da dimenticare le preoccupazioni della vita e anche la sua stessa veneranda età.
Diceva: "Lavoro con accanimento al punto di dimenticar di mangiare, sono felice al punto di dimenticare le mie preoccupazioni e non mi sento invecchiare". In realtà, in vita, la sorte di quest'uomo che aveva un così grande ideale, non fu per niente invidiabile. Le autorità non lo apprezzarono mai per il suo vero valore.
Dopo la sua morte, la Cina entra nell'epoca detta delle "Cento Scuole rivali", sino la momento in cui, per servire la sua politica di unificazione nazionale, l'imperatore Liu Che, della dinastia Han occidentale (206 - 25 a.C.) accettò la proposta di Dong Zhongshu (circa 129 - circa 104 a.C.), specialista dei libri canonici, di mettere fine alla fioritura delle correnti di pensiero per tenere soltanto la Scuola confuciana. Da allora, tutti gli eruditi che seguiranno, sia "conservatori" che "riformisti", faranno riferimento a Confucio, in funzione delle necessità delle loro differenti epoche, per ciò che avranno bisogno per sviluppare il loro confucianesimo e farne un'ideologia al servizio del loro potere politico.

Per commemorare Confucio, si sono costruiti ai quattro angoli della Cina dei templi di cui uno che si situa nella sua città natale (Qufu, nello Shandong) e che riceve tutti i giorni folle di visitatori.
Nel 1985, nel grande tempio di Confucio a Beijing, è stata fondata l'Associazione per lo studio del confucianesimo.

Appunti per una poetica dell’interazione inconsapevole

a cura DI D. PICCHIOTTI

Il pensiero nasce dal coraggio di essere, di rappresentare, di agire in modo assolutamente
personale:spesso siamo schiavi di abitudini come se così potessimo evitare la solitudine di vedere , comprendere e cercare di trasformare situazioni che altri sembra non vedano, non comprendano e non abbiano desiderio di cambiare.
Nessuno si può esimere dall’esigenza di manifestare il proprio essere più profondo, nel dare immagini alle idee, nel tradurre in gesti concreti le attitudini che avrebbero potuto rimanere solo belle speranze mai attuate.
Il coraggio di vivere è un’incessante ricerca. La chiarezza non è una maschera della coscienza, valori esibiti piattamente da predicatori laici che pretendono di essere più puliti dei preti, ma nasce dal rapporto con ciò con non è consapevole oltre la logica delle buone maniere e del saper vivere in cui eccellono i cortigiani. Chiarezza, onestà che una volta conquistata elimina la paura perché in fondo ciò che dobbiamo temere non è più in noi stessi.
Quanto ci accade lo vediamo solo come un momento,una pietra miliare ai margini di una antica strada, sulla quale la presenza di un numero ci fa pensare al tempo, alla distanza necessaria , mentre dalle parole che deponiamo sulla carta nasce la sensazione del futuro. Verrà un giorno ma noi non sappiamo prima quando sarà in cui ciò che ora intravediamo come un’ombra verrà alla luce e ci sentiremo come quei cercatori d’oro che solo una vaga intuizione aveva spinto agli estremi del mondo conosciuto.
Ricchi di una speranza che non abbiamo lasciato morire e di quell’idee che ci hanno nutrito mentre intorno spesso c’era solo desolazione.
Il coraggio è nell’affermare quanto molti sostengono di aver già compreso,pronunciando spesso solo parole vuote, dando ad esso un volto diverso così che nessuno si riconosce più in esso. Le immagini nuove sono percepite e subito trasformate in innumerevoli specchi d’acqua nei quali potrebbe naufragare una moltitudine di narcisi. Il pensiero si perde cade nel vuoto nel momento in cui la ragione non ha più credenze.
…la trasformazione…
…ed il coraggio della trasformazione…
la trasformazione è come una musica composta da tanti suoni diversi che generano linee invisibili,intersezioni di affetti di pensieri che si moltiplicano all’infinito come armonici ai limiti dell’udibile.
Il coraggio del pensiero è l’ intuire anche là dove il corpo sembra non seguirci per una sorta di sordità che forse è solo un limite della percezione mentre le sensazioni ci immergono in una complessità che potrebbe apparirci insondabile.
E’ da questa dimensione apparentemente muta che sorgono correnti tramite le quali
percorriamo distanze enormi mentre la nostra esistenza non ci sembra nemmeno più la stessa
..arte strappata dall’abbraccio mortale con la malattia in cui l’aveva confinata una scienza nazista
_nessuno potrà più credere che sia la follia a regalarci il dono di creare
l’immagine di una bellezza che è solo degli esseri umani l’arte patologica
è la marchiatura infame di Hans Prinzhorn, un cantante fallito che è divenuto psichiatra a cui ha creduto uno psichiatra fallito che ha cercato di diventare artista,Andrè Breton
l’arte patologica è un fraintendimento mortale così come l’idea di una arte che sarebbe terapia curare attraverso l’arte quando l’arte è espressione di una sanità che non può essere insegnata_
bisogna innanzitutto rendere possibile l’arte della cur _
l’arte della cura …. la trasformazione del pensiero che si rivolge ad ogni uomo e non solo all’artista
arte della cura che si concretizza nell’abbandono del delirio,della fantasticheria, di quell’impulso a reagire all’horror vacui ed a costruire sulla tela e con i colori, a scolpire sul marmo od incidere sul legno o ad incollare alla moviola forme, figure inanimate quando l’immagine sembra svanire e non aver più posto nei sogni e nella veglia..
Lo psichiatra nella cura si rivela artista e forgia la materia di un pensiero nuovo che comincia a pulsare e rende possibile l’essere insieme oltre l’isolamento in cui la ragione, fin dai tempi di Rousseau, aveva confinato il buon selvaggio….
…coesistere, collaborare con modalità prima sconosciute…
…movimenti collettivi dai quali può scaturire in un fare artistico…
…e molti rimangono stupiti di come si possa creare insieme e pensano alla dissociazione di sempre…taluni vaneggiano di un “impastamento”
.. vaneggiano e pensano al cadavre exquis, al foglio piegato dei surrealisti in cui ciascuno scriveva all’insaputa dell’altro ed ciò che veniva fuori era un testo senza senso..
Le cadavre exquis boira le vin nouveau
La frase dissociata dei surrealisti fa pensare che non sia mai esistita nella storia dell’arte la possibilità di una collaborazione inconsapevole: senza la scoperta della nascita e dell’immagine interiore essa non è realizzabile se non in forme razionali e perverse.
torna alla memoria Andy Warhol che succhiò il sangue a Basquiat con la complicità di Clemente…
può essere rievocata la cooperazione di Cucchi e di Chia…o di Walter Dahn e Georg Dokoupil che produceva giustapposizioni, contiguità spaziali di figurazioni che rimanevano estranee l’una all’altra.
taluni vaneggiano e pensano al calcolo cosciente di galleristi furbi…
ma in fondo gli artisti hanno sempre collaborato attraverso l’espediente della “citazione”..
ogni “citazione” è un chiamare ad una collaborazione anche se con intenzioni quanto mai diverse..
la storia dell’arte è una “citazione” continua un richiamo incessante alla ricerca degli altri. Pur nel rifiuto di citare si potrebbe pensare sia implicito un confronto.
Ogni forma di pensiero che si traduce in un linguaggio espressivo fa riferimento inevitabilmente a significanti comuni
…consapevolmente od inconsapevolmente…
ciò che non si è mai compreso è che l’artista, l’artista che ha la fantasia e l’immagine interiore, eccelle in quella “citazione” che è memoria inconsapevole nella deformazione che rende irriconoscibile l’analogia e la somiglianza fino a quella mutazione che dà vita ad immagini nuove mai viste prima.
Ma quest’ultime a ben guardare risulterebbero assolutamente incomprensibili se anch’esse non mantenessero un nesso sia pure lontanissimo con un discorso precedente che ci consente comunque di ricondurle nell’alveo di una storia collettiva.
La collaborazione inconscia è l’elemento essenziale di ogni fare artistico come nella musica in cui l’autore scrive le note in una superficie bidimensionale ed altri le interpretano trasportandole coi loro strumenti in uno spazio a tre o quattro dimensioni.
L’adesione cosciente, intenzionale alla partitura nulla toglie a quella deformazione involontaria che ogni interprete, artista anch’esso opera come avviene anche quando il disegnatore affida ad altri la realizzazione della scultura.
Realizzazione che, in quest’ultimo caso è una “citazione” letterale consapevole di un disegno altrui che deve contenere però un elemento di fantasia, una deformazione inconsapevole.:
Deformazione a volte impercettibile e neppure coscientemente avvertita che conferisce un senso artistico all’opera e le impedisce di essere semplicemente una copia manierata od una traduzione piatta e letterale.
Ma nella malattia non è possibile l’operare insieme, l’interazione inconsapevole perché quella che sembra espressività artistica è spesso solo una mimesis invertita.
“Mimesis invertita” che anche non obbedendo ai canoni della figurazione classica non riesce ad essere rappresentazione
La “Mimesis invertita” pur non essendo riproduzione realistica, cattura oggettiva di una figura percepita fuori di sé non va oltre il tentativo vano e compulsivo di colmare l’horror vacui manipolando un oggetto materiale a cui viene attribuito in modo delirante il senso dell’immagine perduta., come se quest’ultima non potesse manifestarsi senza un supporto fisico.
Supporto fisico, feticcio magico in cui si cerca di vedere se stessi come in uno specchio opaco.. supporto fisico come simulacro di un’unità che sembra essere svanita per sempre, esteriorizzazione manierata di una forma irreale, allucinatoria in cui si esprime la malattia della mente. Specchio opaco che spinge ad una sfida mortale come il ritratto di Dorian Gray.
E se le immagini possono essere create insieme e condivise ed espresse con linguaggi diversi in quella continua deformazione che opera attraverso la fantasia, il delirio e l’allucinazione spezza il legame fra gli uomini e crea manufatti isolati non assimilabili al mondo dell’arte.
Mondo dell’arte reso possibile da comunicazioni invisibili, messaggi misteriosi che un tempo si pensava mandassero gli dei.
Un artista, riconosciuto come Dubuffet, potrebbe cercare allora di imitare le forme della pazzia, specchiandosi all’inverso, volgendosi all’interno verso quei frammenti “artistici” svuotati di significato che non gli rimandano l’immagine dell’altro ma solo la propria effige clonata all’infinito, dietro un’apparenza di diversità. Cercando di spezzare la dittatura della coscienza, “l’artista”ricade in una materialità bruta in cui l’errore volutamente esibito o la traccia di animale riprodotta tale e quale sulla tela parla di una concretezza che è assenza di pensiero, spaesamento e delirio. Le forme naturali, le macchie, le impronte sono esibite come tali: i ritratti, i corpi di donna diventano paesaggi , rocce nude dove domina l’inumano ed la desertificazione nell’intenzione sempre frustrata di rappresentare il vuoto ed il nulla.
La collaborazione nasce invece dall’interazione inconsapevole, dal reciproco reagire delle immagini interiori all’interno di un gruppo che crea una mentalità artistica comune che elabora continuamente idee e rappresentazioni…
Idee, rappresentazioni, immagini che si trasformano in parole e parole che diventano immagini in un flusso continuo di pensiero … Domenico Fargnoli 31-10-03

giovedì 24 aprile 2008

Il concetto del male nel Corano

a cura DI D. PICCHIOTTI

Il lavoro affronta un tema delicato per due ragioni principalmente. In primo luogo perché affronta un problema che tocca nel più profondo dell'essere umano, quello del male e della sofferenza; problema che quindi riguarda innanzi tutto l'esperienza esistenziale umana e che è stato affrontato dal pensiero filosofico senza il dovuto rispetto per la componente reale del negativo, quella quotidiana ed esistenziale appunto. Infatti secondo il filosofo L. Pareyson la filosofia razionalistica, nel tentativo di definire il male in termini assoluti, ha sempre sacrificato la realtà del negativo (che include tanto il male etico- morale quanto la sofferenza fisica) alla sua comprensibilità, attenuandone e spesso annullandone la componente esistenziale. In secondo luogo il tema è delicato per il valore dell'oggetto d'analisi; il lavoro infatti si è svolto sul testo sacro di una tradizione religiosa che non mi appartiene, scritto in una lingua che non è la mia lingua naturale; perciò esiste sempre un certo pericolo di indiscrezione nel cercare di comprendere un testo che comunque è stato e rimane riferimento e fonte di speranze per una gran parte dell'umanità.
Il lavoro inizia con un'analisi di quelle che si possono considerare le origini del male secondo il Corano; lo si farà confrontando il racconto biblico della genesi con quello coranico per far emergere differenze fondamentali importanti per lo sviluppo del tema in questione. Si vedrà infatti che una piccola differenza nel racconto della caduta di Adamo ed Eva si ripercuote sul concetto del male di quest'altro monoteismo, se non addirtittura sull'intera concezione di ordine e disordine cosmico che caratterizza la spiegazione della tradizione cristiana al male. Ci si concentrerà pure sull'apparentemente (perché forse lo è solo ad un orecchio giudeo-cristiano) ambiguo rapporto che sembra esistere tra il Dio coranico ed il male che tocca l'uomo, che si tratti di una calamità o finanché di quel male etico-morale che porta l'uomo ad allontanarsi dalla guida divina. Nel fare questo si affronterà inevitabilmente la questione di libero arbitrio e divino arbitrio che ha diviso le scuole teologiche islamiche medievali, sottolineando in particolare quanto sia inopportuna, anche alla luce della posizione scuola teologica più determinista e sopratutto della piu ampia concezione di onnipotenza divina, l'accusa di fatalismo spesso rivolta al testo sacro dell'Islam. Per finire si approfondirà, nel terzo ed ultimo capitolo, la figura di Iblis, il Satana del Corano, e l'indefinibile rapporto che sembra esserci tra l'angelo ribelle e l'Onnipotente, terminando con le piu sconvolgenti interpretazioni (sopratutto ad un orecchio abituato alla figura diabolica biblica) del suo atto ribelle che lo stesso testo sacro sembra permettere in alcuni suoi passi analizzati anche dal punto di vista linguistico. Il lavoro, in altre parole, vuole presentare una questione, non intendendo di certo risolverla, che ad ora è stata affrontata da un unico lavoro in italiano (a cui ci si è in parte ispirati nella scelta dei passi coranici) che per quanto sia esaustivo nel presentare le fonti, sopratutto i commentari coranici (tafsir), mantenga una posizione prevalentemente fatalistica non condivisa da nessuno dei credenti musulmani (pure laureati in scienze islamiche ad Al-Azhar, la più prestigiosa sede di elaborazione del pensiero islamico sunnita) a cui ho domandato l'interpretazione di alcuni passi usati impropriamente per sostenere la tesi fatalista. aurea liv.I Tesi di Gionatan Di Consoli

L'ecologia profonda

a cura DI D. PICCHIOTTI

L'idea più corrente che viene evocata quando si parla di azione “ecologista”  è che questa consista essenzialmente nel vigilare affinchè il “naturale progresso dell’umanità” avvenga senza inquinamenti e senza modificare troppo l’ambiente, che è considerato bello e quindi “da salvare”. La componente di pensiero sopra accennata è oggi abbastanza presente nell’opinione pubblica e la sua massima diffusione è certamente utile.

Tutto questo non è sufficiente, perché il problema ecologico nasce dall’atteggiamento della cultura dominante, dal pensiero di fondo della civiltà industriale, dal suo inconscio collettivo. E’ un problema filosofico, molto più che un problema pratico o tecnico. Se non si modifica profondamente la visione del mondo, si ottengono solo risultati transitori, effetti di spostamento nel tempo di problemi insolubili.
Perché si cambi una visione del mondo, cioè una cultura, si richiedono di solito tempi dell’ordine di un paio di secoli.
   La nostra civiltà attuale è di per sé una cultura non-ecologica; inoltre:
-   si considera una meta agognata da tutte le civiltà tradizionali, vede i propri pregiudizi come frutto della natura umana e la propria scala di valori come un punto d’arrivo per tutta l’umanità;
-   distrugge le altre culture fagocitandole e imponendo le proprie concezioni di fondo, cioè assimilando a sé ogni varietà culturale;
è in sostanza il processo che sta divorando la Terra: solo la sua fine può risolvere il dramma ecologico. 
Comunque cercherò di evidenziare i guai dell’Occidente solo perché è la cultura dominante e per mettere in luce molte idee di cui non si parla solo perché sono considerate ovvie. Ma non intendo dimostrare che è una cultura “peggiore” delle altre: è una cultura come le tante altre apparse sulla Terra.
 
      Anche se le schematizzazioni sono sempre riduttive, al solo scopo di intendersi più facilmente, adotterò la distinzione del filosofo norvegese Arne Naess, dividendo il pensiero ecologista in due categorie:
 
- l’ecologia di superficie, che ha per scopo la diminuzione degli inquinamenti e la salvezza degli ambienti naturali senza intaccare la visione del mondo della cultura occidentale;
 
- l’ecologia profonda, in cui vengono modificate radicalmente le concezioni filosofiche dominanti dell’Occidente: in questa forma di pensiero si dà un’importanza metafisica alla Natura, superando il concetto restrittivo e fuorviante di “ambiente dell’uomo”.
 
     Una delle obiezioni che viene mossa all’ecologia profonda è che non comporterebbe azioni concrete: è bene evidenziare ancora che le svolte culturali non sembrano concrete solo perché si svolgono su tempi lunghi. Sono però molto più profonde e radicali.
         Non è possibile pensare di salvare il mondo dalla catastrofe ecologica senza analizzare il concetto di sviluppo e senza ricordare che questo concetto è il prodotto di una sola cultura umana in un determinato momento della sua storia.
 
 L’ecologia di superficie
Secondo questa ecologia, in cui si mantiene la distinzione fra “l’uomo” e “l’ambiente”, la Terra va tenuta pulita e piacevole perché è “l’unica che abbiamo”, è “la nostra casa”, è un Pianeta fatto per noi. E’ necessario “difendere l’ambiente” perché l’umanità possa viverci meglio. In sostanza non si intaccano mai le concezioni globali dell’Occidente, il paradigma dominante resta lo stesso. Sia l’ecologia nata dalla problematica dei “limiti dello sviluppo”, sia quella che cerca di tenere “bello” l’ambiente e abitabile la Terra lo fanno soprattutto per il benessere dell’uomo, la cui posizione centrale e particolare non viene minimamente scossa.
Anche l’idea di conservare la Terra in buono stato per le generazioni future attribuisce valore alla Natura soltanto in funzione della nostra specie: l’antropocentrismo non viene messo in discussione.
 
         Il tipo di pensiero qui accennato si è diffuso all’inizio degli anni Settanta con la pubblicazione del famoso rapporto del Club di Roma “I limiti dello sviluppo”, titolo in cui è già evidente l’impostazione dello studio: lo sviluppo va arrestato lentamente, perché ha dei limiti fisici, oggettivi. Quindi non possiamo fare a meno di fermarlo: occorre frenare per l’uomo, anche se con grande dispiacere.
         Non si intacca alcun principio dell’Occidente, anzi il mondo è considerato un sistema meccanico straordinariamente complesso: la concezione meccanicista non è minimamente messa in dubbio.
         Il rapporto del Club di Roma ebbe sostanzialmente tre grossi pregi:
- di introdurre il problema con un linguaggio scientifico-matematico, che viene di solito abbastanza accettato dagli ambienti ufficiali, anche se soltanto come metodo;
-  di evidenziare l’idea di crescita esponenziale, cioè invitare alla meditazione su cosa significano i fenomeni che hanno un simile andamento nel tempo;
- di richiamare l’attenzione sulla gravità del problema demografico: se non si arresta l’attuale esplosione della popolazione mondiale, ogni altro provvedimento diventa inutile; oggi l’umanità aumenta di un milione di individui ogni quattro giorni.
         A questo proposito à bene ricordare che l’area del mondo più sovrappopolata -anche se non cresce quasi più - è l’Europa, con alte densità e con impatto altissimo, dato l’insostenibile livello di consumo pro-capite dei suoi abitanti.
        
     Una delle politiche dell’ecologia di superficie è quella di tenere isolate alcune aree naturali del Pianeta salvandole dall’invadenza del cosiddetto progresso. Tale pratica, pur non intaccando i fondamenti che causano il dramma ecologico e lasciando a volte il sospetto che fuori da queste aree sia consentito ogni sfruttamento, è comunque da sostenere in ogni modo. Infatti è uno dei modi concreti in tempi brevi per salvare specie ed ecosistemi altrimenti destinati all’estinzione: essi potranno riprendersi nelle aree adatte del Pianeta quando sarà cambiato il paradigma corrente.
     Spesso la finalità pubblicizzata per i Parchi è piuttosto antropocentrica, cioè essi verrebbero creati per il “godimento dell’uomo”, ma questo è l’unico modo - date le premesse della cultura dominante - perché tali Parchi possano essere accettati.
 
         Se portiamo il problema in termini giuridici, nell’ecologia di superficie la natura va protetta perché è “res communitatis” e non è “res nullius”. Resta comunque sempre “res”, si tratta di proprietà, di patrimonio comune, qualcosa da salvaguardare, ma che si può e si deve utilizzare o godere da parte di qualcuno o di tutti. L’uomo è sempre al centro, è il riferimento di tutto, vivente o non vivente.
         Gli ecosistemi, gli animali, le piante hanno valore solo in funzione umana: l’animale o l’ecosistema sono evidentemente considerati “non coscienti” o “non senzienti”. Non si capisce proprio come venga stabilito il confine, o quale sia la caratteristica che fa attribuire la qualifica di “soggetto morale” o “soggetto di diritto”. Se fosse qualunque forma di “intelletto” o di facoltà intelligente, non si capirebbe proprio come vengano assegnati diritti ben precisi (come soggetti) a un pugno di cellule o ai menomati o cerebrolesi gravi, o a persone in coma.         
L’etica religiosa dell’Occidente ha riservato scarsa attenzione ai non-umani, escludendoli da ogni considerazione morale e relegandoli, in quanto privi di anima, nella sfera dei mezzi al servizio dell’uomo. L’ascesa della filosofia dello scientismo tecnologico, che degrada tutto a oggetto, ha ulteriormente peggiorato l’atteggiamento collettivo.
Oggi comunque sappiamo dall’etologia che almeno gli animali provano piacere e dolore e hanno interessi preferenziali: insomma non esistono differenze rilevanti fra umani e altri animali. Anche gli studi di neurobiologia non rivelano differenze qualitative fra le strutture umane e quelle di altri animali. Quindi non ci sono ragioni plausibili per escluderli da considerazioni etiche.
 
         Ogni movimento ecologista che derivi da concezioni marxiste, cattoliche o protestanti rientra nella categoria dell’ecologia di superficie. Tali posizioni sono figlie dell’Occidente, danno grande valore all’uomo e alla “storia” e hanno come mito il “progresso”. Queste concezioni ritengono che l’universale (cioè la “materia” o il “mondo fisico”) sia una specie di orologio che l’uomo, unico essere diverso, può e deve modificare a suo vantaggio.
         Il fatto di ritenere che esista un Orologiaio (il Dio dell’Antico Testamento) oppure che non esista (materialismo) provoca differenze ben poco rilevanti. Con entrambe le posizioni ci si comporta nei confronti della Natura pressochè allo stesso modo. Da una parte si ritiene che il diritto-dovere di modificare il mondo provenga da Dio, dall’altra da una specie di “merito selettivo” che ci ha resi, in sostanza, gli unici detentori di “spirito”; ma gli effetti sono praticamente gli stessi.
         Entrambe le posizioni si ispirano alle concezioni filosofiche del pensatore francese del Seicento René Descartes, comunemente noto con il nome di Cartesio, oltre che all’idea esasperata di dominio dell’uomo sulla Natura, propria del filosofo inglese Bacone, tanto per fare solo qualche esempio.
         Nell’immaginario dell’Occidente, l’Universo è un’enorme, complicatissima Macchina smontabile, con l’optional del Grande Ingegnere.
         Quasi tutti i movimenti ecologisti oggi esistenti, essendo figli della cultura occidentale e della sua concezione del mondo, si ispirano ai princìpi qui accennati: del resto, se così non fosse, probabilmente avrebbero un sèguito numerico minore.
         Questa posizione assomiglia abbastanza all’idea di un organismo visto come “ambiente” delle cellule nervose o di qualsiasi organo considerato come centrale (l’uomo): questo organo, o gruppo di cellule, avrebbe il diritto di modificare il corpo, tenendolo vivo, per trarne vantaggio, cioè per ottenere la sua espansione equilibrata e il suo sviluppo. In sostanza, tutto può continuare come prima, installando filtri e depuratori e salvando qualche isola di Natura in giro per il mondo.
        
         Dall’ecologia di superficie viene anche l’illusione dello “sviluppo sostenibile”, locuzione che ha in sè una contraddizione di termini.
         Invece l’unica conclusione evidente ma che non viene detta perché è intollerabile alla civiltà occidentale è che lo sviluppo non è sostenibile, è un fenomeno impossibile sulla Terra, è incompatibile con il sistema biologico globale.
         Cullarsi nell’illusione che stiamo per scoprire la via dello sviluppo sostenibile può essere pericoloso. E’ invece perfettamente lecito parlare di “modello sostenibile”, intendendosi come tale un sistema che si mantiene in situazione stazionaria, cioè senza alcuna crescita materiale permanente.
 
L’ecologia profonda
         Nell’impostazione di pensiero dell’ecologia profonda, la nostra specie non è particolarmente privilegiata. Gli esseri viventi e gli ecosistemi, come tutti gli elementi del Cosmo, hanno un valore in sé. Tutta la Natura ha un valore intrinseco e unitario, così come ha un valore in sé ogni sua componente, formatasi in un processo di miliardi di anni. La specie umana è una di queste componenti, uno dei rami dell’albero della Vita.
         Il mondo naturale non è “patrimonio di tutti”, ma è ben di più: è di miliardi di anni anteriore alla nostra specie. Se proprio si vuol parlare di appartenenza, è l’umanità che appartiene alla Natura e non viceversa.
         In questo quadro l’idea occidentale-biblica sulla posizione umana appare più o meno come un curioso delirio di grandezza.
         Mentre nell’ecologia di superficie la Terra va rispettata perché è di tutte le generazioni presenti e future, nell’ecologia profonda la specie umana non è depositaria né proprietaria di alcunchè. Anche l’idea di “progresso” sottintende una determinata concezione culturale ed una certa visione della storia che non sono condivise da tutta l’umanità. Gran parte delle culture umane sono vissute nella Natura senza preoccuparsi del progresso e della storia. Anche se niente è statico, tutto è dinamico e fluttuante, questo non significa che siano necessari i concetti di progresso e regresso: il miglioramento o il peggioramento si riferiscono solo a parametri e valori propri di un particolare modello e non hanno alcun significato universale.
         Nell’ecologia profonda non esiste alcun modello privilegiato. Sono valori “in sé” la situazione stazionaria e la varietà e complessità delle specie viventi, degli ecosistemi e delle culture. I termini “crescita” e “diminuzione” sono complementari, in equilibrio dinamico, senza connotazioni positive o negative.
         Di conseguenza i concetti di risorse e rifiuti non sono necessari: essi presuppongono infatti l’idea che si eseguano processi o modifiche tali da prelevare qualcosa di fisso - le risorse - e scaricare qualcos’altro - i rifiuti, il che significa un funzionamento non-ciclico, incompatibile con la condizione stazionaria e vitale dell’ecosistema.
Con queste premesse la cosiddetta “produzione” è - in ultima analisi - una produzione di rifiuti. Lo stesso termine “civiltà” è inutile e pericoloso, perché sottintende un giudizio di merito basato su una scala di valori particolare. In sostanza nell’ecologia profonda il concetto di “ambiente” viene superato per lasciare posto alla percezione di far parte di una Entità psicofisica molto più vasta, cioè della Natura, che si manifesta nella massima varietà ed armonia, nel più grande equilibrio dinamico delle specie; è un sistema autocorrettivo dotato di Mente.
 
         Nell’ecologia profonda non si tratta di “coniugare sviluppo e ambiente” ma di rendersi conto che il dramma ecologico è nato nella civiltà industriale e ha invaso il mondo al seguito della tumultuosa espansione di questo modello.
         Il problema non è soltanto pratico, ma soprattutto culturale. Infatti, solo come esempio, le scoperte pratiche fondamentali per “far partire” la tecnologia erano già note nella cultura cinese da diversi secoli. Ma in Cina non hanno fatto nascere il processo di industrializzazione, che vi è stato importato solo in tempi molto recenti, di ritorno dall’Occidente. Evidentemente il sottofondo del pensiero cinese - ispirato in gran parte alle filosofie del Tao e del Buddhismo – non poteva indirizzare quelle conoscenze sulla via poi seguita in Europa: le motivazioni sono state quindi essenzialmente culturali. La spiegazione ufficiale che gli Europei erano “più avanti” è solo un giro di parole. Anche la cultura indiana tremila anni orsono aveva concetti probabilmente più raffinati di quella europea del millecinquecento: nell’India di allora non mancava certamente la capacità di fare certe scoperte, c’era però la precisa percezione che era impossibile e inopportuno seguire una certa via.
         Invece il fondamento ispiratore della cultura occidentale, o ebraico-cristiana, è l’Antico Testamento, e qui va ricercata una delle cause del nostro atteggiamento verso la Natura. Ma ci sono state altre evoluzioni successive, soprattutto l’estendersi nel pensiero generale della filosofia di Cartesio e della fisica di Newton, proprio nei secoli che hanno immediatamente preceduto la nascita della civiltà industriale.
         Tutta la nostra cultura “ottocentesca” di oggi è permeata dall’antitesi, dalla contrapposizione con la natura: la vita è vista come “lotta contro le forze della natura”. In altre filosofie questo significherebbe “lotta contro l’Organismo al quale apparteniamo”, il che è privo di senso e causa di nevrosi e conflitti. L’idea di uomo, nel pensiero dell’Occidente, è costruita in contrapposizione all’idea di animale: umanità e animalità vi appaiono come termini antitetici, sia nella concezione biblica che nell’idea scientifica di derivazione baconiana. Ma si tratta di una contrapposizione largamente mitica e scientificamente insostenibile.
        
         Gli studi di un’etica non limitata soltanto alla nostra specie e di una giurisprudenza che non veda gli umani come unici soggetti di diritto sono appena nascenti in questi ultimi anni, a parte isolate eccezioni di precursori.
         Fra questi possiamo certamente ricordare Aldo Leopold che, nel suo A Sand County Almanac affermava che “una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità e la bellezza della comunità biotica nel suo complesso. Una cosa è sbagliata quando manifesta la tendenza contraria”. La concezione di Leopold è olistica, in quanto la Natura è intesa come un tutto, avente vita e valore propri.
         Se sentiamo usare per elementi della Natura termini come anima, dignità, diritti, ambito morale, non dobbiamo pensare che si stia parlando in senso analogico o poetico, o che si tratti di accostamenti arditi.
         “Lo spirito dell’albero, della montagna, del fiume” non sono analogie azzardate, ma rispecchiano l’anima del mondo, che era ben riconosciuta da quelle culture umane che dedicavano gran parte del tempo al magico e al sacro.
         Inoltre, per confronto con le concezioni dell’ecologia di superficie, ricordiamo che rispettare il naturale non-umano solo nella misura in cui è simile a noi è una concezione ben misera del rispetto, che dovrebbe invece fondarsi su una filosofia che riconosca i diritti dei non-umani in quanto entità che ne sono degne.
 
Conclusioni
L’ecologia profonda - come filosofia di vita - non è nata negli anni Settanta dalle idee di Arne Naess o da qualche movimento di minoranza di oggi: da tremila anni in India, e da tempi ancora più lunghi in tante culture animiste, idee ben diverse da quelle che hanno poi foggiato la civiltà occidentale avevano avuto modo di diffondersi nella mente collettiva, come dimostrano questi pensieri, tratti da antichi testi indiani: “Ogni anima va rispettata e per anima si intende ogni ordine, ogni vitalità che la sostanza possa assumere: il vento è un’anima che si imprime nell’aria, il fiume un’anima che prende l’acqua, la fiaccola un’anima nel fuoco, tutto questo non si deve turbare”.
 
Dal libro di Fritjof Capra Il punto di svolta (Ed. Feltrinelli, 1984):
La nuova visione della realtà è una visione ecologica in un senso che va molto oltre le preoccupazioni immediate della protezione dell’ambiente. Per sottolineare questo significato più profondo dell’ecologia, filosofi e scienziati hanno cominciato a fare una distinzione fra “ecologia profonda” e “ambientalismo superficiale”. Mentre l’ambientalismo superficiale è interessato ad un controllo e ad una gestione più efficienti dell’ambiente naturale a beneficio dell’”uomo”, il movimento dell’ecologia profonda riconosce che l’equilibrio ecologico esige mutamenti profondi nella nostra percezione del ruolo degli esseri umani nell’ecosistema planetario. In breve, esso richiederà una nuova base filosofica e religiosa.
                                                                                     (Riassunto dal libro: Guido Dalla Casa - ECOLOGIA PROFONDA -

mercoledì 23 aprile 2008

Destini incrociati tra Oriente e Occidente" UN LIBRO DI NEDIM GÜRSEL"

a cura DI D. PICCHIOTTI

È una caccia all'«uomo con turbante»; non una caccia militare contemporanea, ma la ricerca di personaggi ottomani nei quadri del Rinascimento italiano. Questo l'oggetto di uno studio che spinge un professore di storia dell'arte turco ad effettuare un primo viaggio a Venezia.
L'accademico, chiamato Kâmil Uzman (che letteralmente vuol dire «di età adulta» o «esperto»), frequenta le biblioteche alla ricerca di informazioni su Gentile Bellini, pittore veneziano del XV secolo, famoso per aver dipinto il ritratto di Mehmed il Conquistatore e aver vissuto nell'impero ottomano, nemico della Serenissima. Venezia offre quindi al ricercatore l'occasione per vedere da vicino le opere della famiglia Bellini: Jacopo, il padre, Gentile, il figlio primogenito, e Giovanni, il più giovane, il figlio bastardo diventato pittore di stato. Il romanzo si costruisce sul filo delle osservazioni dei quadri e dei racconti della vita dei pittori. Si scoprono così le grandi innovazioni che hanno fatto la ricchezza della pittura del Rinascimento (prospettiva, colori, giochi di luce e ombra, pittura ad olio); si incrociano Giorgione, Dürer, Tiziano e Leonardo da Vinci.
Ma, mentre conduce la sua ricerca storica, lo studioso si perde, comincia ad errare inseguendo i suoi ricordi e le sue divagazioni.
Vive questo soggiorno veneziano come un esilio, e si paragona a Jem, figlio del sultano, e Fikhret Muallâ, pittore turco, entrambi morti in esilio lontani da Istanbul. E, a furia di incrociare destini, perde di vista l'obiettivo della sua venuta. «Ma, chi lo sa, potrebbe anche darsi che un ricercatore più rigoroso o più fortunato di lui scopra questa influenza e faccia nascere l'immagine che riconcilia l'Oriente e il Rinascimento». Perché Uzman non vedrà mai i quadri di Gentile che, a tale scopo, voleva studiare all'Accademia.
Per prima cosa, sono le Madonne di Giovanni a sviarlo. Le rappresentazioni di Maria e di Gesù, particolari per l'assenza di sguardi tra la madre e il bambino, gli ricordano dolorosamente la sua infanzia vissuta senza madre, come il pittore. Saranno poi i suoi vagabondaggi nel dedalo di viuzze e canali fino a Mestre, dove vivono le prostitute, a farlo sprofondare nell'abisso. Perché l'uomo, letterato erudito ma piuttosto volgare nell'animo, frequenta con lo stesso ardore musei e bordelli. Quando incrocia Lucia, che lavora alla biblioteca Correr, crede di ritrovare Caterina d'Alessandria, santa rappresentata in un quadro di Giovanni. Ma, in questo slancio amoroso fallirà, come fallirà nella sua vocazione di pittore e nella sua ricerca di un oggetto che assume sempre più l'aspetto di un Graal irraggiungibile.
Questo racconto di esilio nel freddo invernale d'Occidente è anche l'inno amoroso di Nedim Gürsel per un'Istanbul cosmopolita e mutevole di fronte ad una Venezia immobile, ossessionata dalla «danza degli spettri nei palazzi oggi abbandonati di quella che una volta era la più sontuosa città del Mediterraneo». Nonostante gli indizi ottomani nascosti nei quadri veneziani, «è meglio viaggiare o non mettere mai piede fuori dalla propria città?» si domanda ancora Uzman. Il viaggio di Bellini gli fornisce la risposta: «Il mondo gli sembrava più grande, il suo orizzonte si era allargato. Come nei quaderni del padre Jacopo, l'occhio non conosceva ostacoli, l'unico suo limite era la sua immaginazione». VIOLAINE RIPOLL

L’arte nel Rinascimento

a cura DI D. PICCHIOTTI

Il termine "Rinascimento" deriva dal verbo "rinascere", infatti si diceva che la cultura era morta con le invasioni barbariche e la caduta dello Impero Romano, e rinasceva solo allora, dopo mille anni.
Benché con ogni probabilità già in uso, questo termine, fu usato per la prima volta dal primo grande storico cinquecentesco dell’arte, il Vasari ,nel suo famoso lavoro sulle vite dagli architetti, scultori e pittori "dalle origini al suo tempo", designando quel periodo storico compreso tra la fine del '300 e la seconda metà del '500, caratterizzato dal rifiorire (rinascere) della vita culturale ed artistica.
Gli studiosi moderni circoscrissero questo periodo storico ponendone l’inizio intorno al secondo decennio del XV secolo, con l’opera più famosa del Brunelleschi, la cupola di Santa Maria del Fiore ,affermando però che è impossibile stabilire una periodizzazione precisa del Rinascimento poiché si tratta di considerare o meno ,come rinascimentali due fasi estreme: il periodo umanistico(così detto dalla specifica attenzione rivolta dagli studiosi del ‘400, ed anche da molti artisti , alla humanae littere, vale a dire alla letteratura e al mondo dei classici, già anticipata nel trecento da Dante e da Petrarca ),e il periodo manieristico ,che si svolgerà come conclusione delle premesse rinascimentali. D’altra parte sta l’ipotesi di considerare l’Umanesimo non già come un periodo a sé ,quanto come una dimensione di ricerca implicita allo stesso Rinascimento , ed anzi una componente costantemente rinnovata ed approfondita dentro di esso.
Nella stessa misura il Manierismo può essere ricondotto all’unità complessiva della cultura rinascimentale, la quale avrebbe espresso, pressochè contemporaneamente, due diverse, ma intrecciate, "visioni del mondo".
Il Rinascimento ebbe origine in Italia e da qui si espanse in tutti i paesi d'Europa. I principali centri di diffusione furono la Roma dei Papi, Firenze e Venezia, le corti dei signori divengono così motori di propulsione dell’arte, che viene vista dal potente anche come mezzo ideale per autocelebrare la propria forza e lungimiranza politica, e colpisce che il principe dialoghi con l’artista in rapporto paritario come ben documenta il noto esempio di Lorenzo il Magnifico.
Con il Rinascimento si giunse a formulare una nuova concezione dell’esistenza.
L’antico venne rivisto con occhio purificato da formalismi e dogmatismi medioevali, si diffusero principi di dignità individuale e di razionalità che posero l’uomo al centro dell’universo, essere raziocinante e creatore che domina la natura.
Il Rinascimento esprime, dunque, il desiderio di far rinascere il vero volto dell'arte classica; ed è da questa, infatti, che gli artisti del rinascimento ereditano l'ideale dell'armonia e dell'equilibrio, l'ideale dell'uomo inteso come sintesi di bellezza e di bontà ideale di armonia tra l'uomo e la natura, tra l'uomo e Dio, tra ragione e fede.
In campo artistico il Rinascimento è ripresa degli ideali e delle forme classiche, dopo la frattura medioevale, in un'ideale continuità culturale col mondo antico.
L’arte dunque si laicizza e si imbeve dei segni di una cultura pagana come quella classica, ponendosi verso i modelli che derivavano dall’antico con spirito critico e mai con intento imitativo, estrapolandone aspetti di modernismo che originarono espressioni figurative del tutto nuove, in sintonia con la visione critica che pervade l’uomo rinascimentale.
L'arte non è più attività "mechanica", cioè manualità artigianale, ma attività "liberalis", cioè intellettuale.
L'arte diviene strumento di conoscenza e di indagine della realtà; scienza vera e propria su fondamenti teorici razionali, come le leggi della prospettiva.
Il concetto chiave di "imitazione del naturale" è basato sì sulla tradizione classica contrapposta a quella bizantina, ma è anche da intendersi come organizzazione matematico -geometrica dei dati visivi (che sono oggetto della pittura) in uno spazio (una tavola o una parete da affrescare).
Oltre l'invenzione della xilografia e delle tecniche di incisione che risalgono a questi tempi troviamo anche: la definitiva fortuna del "quadro" come opera autonoma, circondato da una cornice che ne definisce l’entità e la funzione; la rappresentazione di nuove "figure" tematiche, come l’ambiente naturale e quello architettonico, che fungono dapprima da sfondo e che, in seguito, assumono, un significato fondamentale,;la conquista di una definitiva autonomia del disegno, come arte a sé, e non più atto preparatorio alla pittura e l’inizio della attività riproduttiva di incisione, che sostituiranno le medioevali miniature delle pagine nei primi libri a stampa.
Ma fu un'altra invenzione a restare nella memoria di tutti come tipicamente rinascimentale: la teoria della prospettiva, formulata da Brunelleschi e teorizzata ufficialmente da Leon Battista Alberti.
Anche in questo caso, non si trattò di un'invenzione vera e propria, perché non solo era stata anticipata dal plasticismo giottesco, ma pare ormai certo che già gli egizi ne conoscessero la tecnica, ma evitassero di applicarla per scelta religiosa.
Nel Rinascimento dunque ha un ruolo di fondamentale rilevanza la presenza del "teorico"(come si è visto nel caso della teoria della prospettiva), lo studioso che ,talvolta coincidendo con lo stesso artista produce delle osservazioni di carattere "filosofico" sulla metodologia dell’atto artistico, sulla sua finalità e sui suoi significati: la "teoria dell’arte" acquista una vita indipendente rispetto alle opere diventa un sapere autonomo.
Il "modello teorico" della prospettiva, questa grande invenzione del Rinascimento, permette un nuovo sistema di collegamento delle varie arti tra loro, attorno ad un insieme di principi comuni, che muovono dalla stessa concezione della storia, della realtà, della natura, dell’uomo e della società.
Nello stesso tempo avviene una netta separazione "professionale" tra l’architetto, lo scultore e il pittore, che costituiscono delle "figure" storiche, di consapevole autonomia; proprio per questo motivo è ambizione di artisti particolarmente geniali il voler ricoprire contemporaneamente più "ruoli", nell’intento di rappresentare una figura di "super-artista", che rifletta l’immagine dell’uomo "universalmente colto".
Il fenomeno che infatti meglio caratterizza il fenomeno dell’epoca è proprio la "cultura", vale a dire la dimensione complessiva della curiosità, della ricerca, dello studio, della problematizzazione, dell’analisi e della soluzione di problemi teorici e pratici.
Il Rinascimento artistico, in Italia, si espresse dapprima nel campo dell'architettura, con il ritorno ai metodi di costruzione usati nell'arte greco-romana.
Lo stile gotico fu abbandonato per tornare alle linee rette dei templi greci. L'arco acuto fu sostituito dall'arco romano e la volta dalla cupola.
L'architetto più notevole fu il Brunelleschi, che costruì la cupola della cattedrale di Firenze fu il primo che concepì spazi precisamente definiti e impostati geometricamente a principi informati all’arte prospettica.
Nella scultura emergono Ghiberti, autore dei bassorilievi delle porte di bronzo del Battistero della cattedrale di Firenze, e Donatello, che introdusse il nudo nella scultura rinascimentale. Ad introdurre il nudo nella pittura fu il Botticelli.
I maggiori maestri dell'arte italiana del Rinascimento furono Leonardo, Michelangelo e Raffaello.
Leonardo da Vinci, fiorentino, divenne celebre per i suoi dipinti "Ultima cena" e "Gioconda". Si distinse anche come scultore, poeta, musicista, filosofo, ingegnere e scienziato.
Michelangelo fu famoso come pittore, scultore e architetto. I suoi dipinti più famosi sono gli undici affreschi che si trovano nella Cappella Sistina, in Vaticano, e il celebre "Giudizio universale", in fondo alla stessa Cappella. Le sue sculture più rilevanti sono il "David", il "Mosè" e la "Pietà". Egli costruì anche la cupola della cattedrale di S. Pietro in Roma.
Raffaello, nativo di Urbino, divenne famoso per le sue "Madonne", ritratti e dipinti su temi religiosi. In Vaticano c'è il suo affresco la "Scuola di Atene", in cui si vedono Platone e Aristotele circondati da discepoli.
Nel panorama artistico italiano non bisogna però dimenticare il rilevante sviluppo avuto durante il Rinascimento dalle arti così dette "minori" come ad esempio la musica.
Il Rinascimento fu un secolo che soprattutto attraverso l’arte, ha aperto all’uomo moderno un orizzonte nuovo, una prospettiva prima inimmaginabile.
Il Rinascimento visto a mezzo millennio di distanza, può forse apparire una parziale utopia, le cui premesse di armonia universale e di recupero di una civiltà governata dalla serenità del pensiero hanno trovato solo in parte realizzazione: tuttavia, con la meravigliosa testimonianza della pittura ,resta nella storia del mondo una delle epoche più esaltanti dello spirito e della mente dell’uomo.

L'arte nel 1400

a cura DI D. PICCHIOTTI

Il termine Rinascimento fu utilizzato da Vasari nelle “Vite”, proprio per identificare quella rinascita delle arti che, in Italia si stava sviluppando già dall'inizio del XV sec.
Consiste in quella nuova visione culturale, in quel rinnovamento d'arte e di pensiero, che nasce nel 1400, e che si avvale in una prima fase delle tematiche formatesi in seno all'Umanesimo per poi definirsi compiutamente nella prima metà del '500. L'Umanesimo, sorto come movimento letterario, anche sotto il punto di vista etimologico del termine, ci conduce agli Studia Humanitatis, volti alla conoscenza delle problematiche dell'uomo da un punto di vista etico. 
Centro della cultura umanistica sarà Firenze... l'arte, non sarà più considerata come un'attività manuale bensì intellettuale. Da Firenze partiranno quei principi che, anche per ciò che riguarda l'arte e l'architettura, si irradieranno in varie parti d'Italia. La corte di Lorenzo il Magnifico si compone di una vasta cerchia di letterati che mirano a diffondere il pensiero di Platone, in diretta opposizione con le dottrine aristoteliche. La filosofia di Platone viene ripresa per ciò che riguarda il primato dello spirito dell'uomo, e la sua capacità di salire dalle tenebre alla luce. Determinante fu l'influsso dell'Accademia neoplatonica di Firenze, che si era formata proprio nel periodo di Lorenzo il Magnifico. 
L'umanista Marsilio Ficino sancisce con i suoi scritti un nuovo rapporto con l'epoca classica: nella saggezza degli antichi si può ritrovare quella valorizzazione del pensiero e dell'azione dell'uomo al di fuori delle tradizionali visioni collegate alla religione cristiana. Ficino aveva tradotto le opere di Platone e un insieme di scritti attribuiti ad Ermete Trimegisto, leggendario personaggio, dal quale si dedussero dei principi esoterici. L'ermetismo voleva indagare i rapporti dell'uomo con il cosmo. 
C'è un riferimento con tutto quel repertorio di simboli alchemici e astrologici della tradizione medievale, insieme ai miti dell'antichità. Non bisogna pensare che il recupero della tradizione pagana e del pensiero classico si siano voluti riprendere in contrapposizione alla religione cristiana....Si tenterà anzi, in questo periodo una sorta di mediazione, di conciliazione tra le tematiche dell'umanesimo e la visione religiosa. Conseguenza dell'umanesimo è una nuova concezione dell'arte che conduce ad una ricerca del rapporto uomo-natura. 
In arte il “naturalismo”, che parte dal principio che l'arte debba imitare la natura, condurrà a considerare l'uomo al centro dell'universo come misura di tutte le cose. In scultura questo porterà ad una più attenta e consapevole caratterizzazione di gesti ed espressioni, anche se, questo “realismo” sarà sempre attenuato dall'esigenza di tendere agli ideali di bellezza e perfezione. Il classicismo rinascimentale, attuerà quel continuo riferimento, alla produzione artistica dell'antichità classica, latina e greca per risvegliare quel principio di bellezza come equilibrio ed armonia, razionalità e perfezione di proporzioni. Anche se, nelle rappresentazioni non si perverrà nel corso del 1400 a caratteri prettamente descrittivi. 
La riscoperta del mondo classico comporterà pertanto il recupero dei modelli artistici dell'antichità e si farà un sempre più esplicito riferimento al “Classicismo”, ma soprattutto l'innovazione consisterà nel fatto che adesso l'uomo, con tutte le sue facoltà intellettive sarà considerato protagonista della storia e la rappresentazione del mondo circostante si porrà in funzione di colui che lo osserva. Così avviene che al punto di vista dell'osservatore, nella rappresentazione visiva, tutti gli elementi diventano subordinati. L'arte del Quattrocento pertanto si baserà, su un nuovo modo di rappresentare lo spazio: la prospettiva. Approccio scientifico alla visione e bisogno di stabilire regole fra le parti, per ottenere l'armonia dell'insieme, si tradurranno anche nello studio delle proporzioni.
Pittura e scultura ormai completamente autonome, esprimeranno la ricerca di armonia ed equilibrio fra i vari elementi compositivi. Tre le personalità di spicco: Bruneleschi, Donatello e Masaccio. È il concorso del 1401 per la porta bronzea del Battistero di Firenze, cui parteciperanno Brunelleschi e Ghiberti, a far notare per la prima volta quella nuova tendenza che propende per il naturalismo e il classicheggiante. Mentre la scena realizzata da Ghiberti si inserisce nel riquadro della formella, Brunelleschi carica le sue figure di una dinamica visione che, volendo come rifuggire dalla costrizione della cornice, appare più movimentata e libera, dell'opera svolta dal Ghiberti. 
Donatello si può senza dubbio considerare l'iniziatore del classicismo rinascimentale del 1400. Egli realizza quella sintesi tra le tendenze culturali ed estetiche dell'epoca, fondendo il gusto dell'antico con una innovativa impostazione naturalistica e le recenti teorie sviluppate nel campo dell'arte: la prospettiva e la teoria delle proporzioni. Donatello non si fa ingabbiare dai modelli classici della statuaria; Trae anzi spunto da essi per delle soluzioni originali. Tutto il repertorio classico viene filtrato dalla sua capacità di reinterpretazione. Emergono prepotenti le caratteristiche espressive dei volti, gli atteggiamenti posturali. Si è parlato per Donatello addirittura di anticlassicismo.... ed in effetti volendo valutare la scultura in legno della “Maddalena”, spicca una decadenza corporea che si mostra nella sua cruda realtà. Questo ci porta ben lontani dagli ideali classici di bellezza. 
Il monumento più canonicamente classico di Donatello è il "Gattamelata", monumento equestre che si riferisce esplicitamente alla statua equestre di Marco Aurelio in Campidoglio. Ma è il "David" di Bronzo del Bargello l'opera più emblematica di questo grande scultore...denominato David, si potrebbe anche trattare del Mercurio vincitore di Argo. L'opera si ispira ai modelli classici, però l'accennata instabilità della postura e l'atteggiamento suggeriscono un qualcosa di nuovo, di straordinariamente umano. Forse un preannuncio dei primi sintomi della succesiva crisi degli ideali dell'umanesimo, oltre che della sua particolare sensibilità di render partecipe un rapporto, quello con le antichità classiche, con la realtà umana della gente. Per ciò che riguarda la pittura, si abbandonano progressivamente i fondi oro ed i corpi sono definiti nell'anatomia e nel movimento. Si afferma il ritratto. 
Masaccio è colui che, al pari di Donatello e Brunelleschi opera una rivoluzione nell'arte del 1400, portando alle estreme conseguenze il cammino intrapreso da Giotto. Vi è in Masaccio una definizione rigorosa dello spazio, sulle leggi della prospettiva formulate da Brunelleschi. Le figure non si trovano inserite in uno sfondo che allude semplicemente ad un determinato ambiente, ma in uno spazio architettonico o in un ambiente naturale concreto. La struttura volumetrica delle figure è definita dal sapiente uso delle luci, delle ombre e dal chiaroscuro. Si fanno strada le caratterizzazioni della fisionomia dei personaggi... Osservando la “Cacciata dei progenitori”, - 1425- opera realizzata nell'ambito degli affreschi della cappella Brancacci in S. Maria del Carmine a Firenze, notiamo una composizione piena di drammaticità, che non tende alla bellezza ideale ma solamente ad evidenziare il dolore, dovuto al peso della colpa. Questo dolore, tuttavia, non è mai urlante, ma sempre composto, dignitoso...e le scene, che sono inserite in uno spazio reale, vogliono acquisire il diritto di essere dato nella storia, eterna attualità di una documentazione di un avvenimento universale. 
Sensibile all'opera innovativa di Masaccio fu Beato Angelico, frate domenicano. La concezione dello spazio in chiave prospettica è utilizzata da Beato Angelico per dare spessore alle composizioni che conservano una struttura di tipo rinascimentale, dal carattere ovviamente spirituale e trascendente. Di Beato Angelico si ricordano sovente le Annunciazioni, che sono un tema ricorrente nella sua arte. Ne definisce un modello iconografico che vede la Vergine Maria seduta a destra inquadrata all'interno di una struttura architettonica in prospettiva. L'angelo a sinistra è nell'atto di svolgere il suo compito di messo.
Un altro modo di concepire il problema della prospettiva è quello di Paolo Uccello, considerato tra i più importanti pittori rinascimentali. Chi non ricorda la “Battaglia di San Romano”. Qui anche gli spazi vuoti e le linee, diventano elementi compositivi centrali. Danno il senso di un ritmo incalzante. L'autore coltiva proprio una passione per la prospettiva, tanto da aver fatto giungere a noi tramite un aneddoto di Vasari la frase: “ Che dolce cosa è questa prospettiva”. La vede non tanto in funzione della rappresentazione dello spazio, ma in se stessa; come un modo per tradurre la realtà in termini geometrici. I corpi sono oggetti da ridurre a forme geometriche da poter mettere in prospettiva. Ecco perché la figura di P. Uccello si può accostare agli artisti dell'arte contemporanea, ecco perché è così profondamente innovativo. 
Principale teorico della nuova concezione dell'arte, esposta in tre trattati sulla pittura, scultura e architettura è L. B. Alberti, architetto. Ad Urbino è attivo Piero della Francesca. La sua formazione avviene a Firenze. Piero della Francesca si pone in stretta relazione con gli ideali estetici di Alberti, e la sua arte si può comprendere meglio alla luce dello studio di questo Architetto. Piero applica la costruzione prospettica alla figura umana, e la concepisce come corpo solido nello spazio. 
Atra grande personalità artistica sarà Andrea Mantenga che riuscì a fondere la sua ricerca anatomica con la prospettiva e a realizzare nelle sue opere sorprendenti scorci della figura. 
Ad Antonello da Messina, si deve la diffusione in Italia della tecnica della pittura ad olio, appresa dai fiamminghi. Di Antonello, che si confermò come uno dei maggiori maestri del Quattrocento europeo, restano in Sicilia: Ritratto di ignoto marinaio; la "Annunziata" della Galleria di Palermo, il "Polittico di S. Gregorio"del Museo di Messina, e l'"Annunciazione" del Museo di Palazzo Bellomo a Siracusa. 
Infine Sandro Botticelli porta il fluido disegno dalle limnee sinuose dei Fiorentini ad uno stile proprio di soavità e bellezza. In un primo tempo la sua produzione è contraddistinta da una propensione verso le visioni idealizzanti, vicine alle tendenze della corte di Lorenzo il Magnifico. Successivamente anche lui si avvierà verso una più tormentata visione che lo porterà ad un rifiuto della cultura classica, e lo congiungerà alla crisi degli ideali della cultura dell'umanesimo. C'è da dire che Botticelli era diventato seguace di Savonarola, che venne arso nel 1498. 
Addirittura sul finire della sua vita, Botticelli assumerà nei confronti della prospettiva e della anatomia un atteggiamento ostile, giudicando le scienze come malvagie e auspicando un ritorno alla semplicità dei primitivi. Di Botticelli si ricordano maggiormente “La Primavera” del 1478 e la “Nascita di Venere” del 1485. Tali opere vanno inquadrate nel contesto nel quale Botticelli agiva. Tra gli anni 1470 e 1485 infatti frequenta la corte di Lorenzo il Magnifico e viene influenzato dalle teorie neoplatoniche e dall'ermetismo di Marsilio Ficino. Lui cerca la bellezza ideale, ma non come pura espressione di un fatto estetico bensì come risultato di una bellezza principalmente spirituale. Ricorre all'allegoria e al simbolo di ispirazione classica.

martedì 22 aprile 2008

Cesare Lombroso l'inventore dell'Antropologia criminale

a cura DI D. PICCHIOTTI

Cesare Lombroso nasce a Verona il 6 novembre 1835 da un'agiata famiglia ebraica. Sofferente di angina pectoris, morirà il 19 ottobre 1909 nella sua casa torinese.
Nel 1852 si iscrive alla facoltà di medicina dell'Università di Pavia, dove si laurea nel 1858. 
La fama di Lombroso è legata soprattutto alla teoria dell'uomo delinquente nato o atavico, individuo che reca nella struttura fisica i caratteri degenerativi che lo differenziano dall'uomo normale e socialmente inserito.
Nel 1866 Lombroso è nominato professore straordinario dell'Università di Pavia.Nel 1871 Lombroso ottiene la direzione del manicomio di Pesaro dove vivrà una felice esperienza professionale, in quel periodo elabora una proposta che sottopone alle autorità ministeriali: la creazione di manicomi criminali destinati agli alienati che delinquono e agli alienati pericolosi. L'anno dopo rientra a Pavia e inizia gli studi che lo porteranno alla elaborazione della "teoria dell'uomo delinquente".
Nel 1897 pubblica la quinta edizione dell'Uomo delinquente, in quattro volumi, di cui uno contenente un singolare "ATLANTE". (qui in parte riportato e che possediamo in originale)
L'analisi dei caratteri somatici criminali nelle immagini dfi questo atlante si fa sempre più dettagliata e l'Autore propone le caratteristiche proprie dei tipi criminali, differenziati in base alle anomalie proprie della classe a cui appartengono. Si delinea quindi il profilo criminologico del pazzo morale e del pazzo epilettico, accomunando nella stessa classe degli epilettoidi i pazzi morali, i delinquenti epilettici e i delinquenti nati; segue l'analitica descrizione dei mattoidi, ovvero individui alienati che passano per geni, ma che in realtà sono persone comuni affette da un'ideazione patologica che li porta a dedicarsi ad attività estranee alle loro capacità.
Essi si improvvisano politici seduttori, ammalianti predicatori, venditori di fumo, e via di seguito e sono animati da una esagerata laboriosità oltre a sfoggiare un nascisistico culto della propria personalità.
 
Conscio che la teoria atavica del delinquente è stata messa in discussione dagli studi dei suoi stessi allievi e seguaci, fra i quali Enrico Ferri, Lombroso, pur restando fedele alla primitiva impostazione della teoria antropologica dell'uomo delinquente, introduce nuovi elementi nello studio del fenomeno criminale, nel tentativo di sfuggire alle critiche, talvolta acute.
Nella Funzione sociale del delitto, pubblicato nel 1897, infatti, la prospettiva si amplia e Lombroso tenta un'analisi sociale del delitto a vasto raggio, proponendo un'interpretazione della società e del delitto, riferito non più soltanto al criminale atavico, ma a settori della vita pubblica e politica, dove nuovi reati "nuovi rami di truffa o di intrigo politico, o di peculato" crescono "quanto più la civiltà si va avanzando".
Lombroso osa sfidare il senso comune proponendo una visione della realtà del delitto che investe anche uomini di governo, parlamentari, che agiscono attraverso la menzogna, la truffa, il segno del vizio, dell'amoralità, della delinquenza (spesso legalizzata con leggi e norme fatte da loro stessi).

Oggi nessuno potrebbe sostenere la validità scientifica delle teorie lombrosiane, ma è doveroso mettere in evidenza lo sforzo e la novità del lavoro di Lombroso che, partendo dal dato bio-antropologico, ha aperto la strada ad un approccio multifattoriale che comprende anche gli aspetti sociali, su cui lavoreranno i suoi allievi Ferri e Garofalo.
Con Lombroso l'Italia ha cominciato a interrogarsi su aspetti fino ad allora trascurati, e lo studio del delitto è stato affrontato per la prima volta come fenomeno umano e sociale.
Con le teorie di Lombroso, all'insegna del consenso o del dissenso, si confrontano un po' tutti gli studiosi che si occupano di criminologia ma per alcuni di questi il rapporto con Lombroso è particolarmente forte tanto che si usa parlare di scuola positiva.
Il museo creato da Lombroso, negli spazi messi a disposizione dall'Università, intanto, aveva assunto dignità scientifica e, nella nuova versione, fu inaugurato nel 1898, in occasione del Primo Congresso Nazionale di Medicina legale.
Il ministero di Grazia e Giustizia l'anno dopo emanò una circolare con la quale dispose che le cancellerie penali consegnassero al museo di Torino armi o altri strumenti con i quali erano stati commessi delitti. La disposizione sarà riconfermata in data 21 giugno 1909 con la precisazione che fosse fatta un'equa ripartizione dei corpi di reato tra il museo di Torino e il museo di Roma, già istituito nel 1904 dal medico legale Salvatore Ottolenghi, ex allievo di Lombroso, nell'ambito della prima scuola di Polizia scientifica, situata nell'edificio delle Carceri Nuove, in via Giulia.
Sorsero poi, altri musei criminali, di Polizia scientifica e di antropologia criminale annessi, quasi sempre, ai gabinetti scientifici delle università e delle questure. Lo scopo principale era quello di esporre reperti anatomici e oggetti provenienti dalle carceri, manufatti di detenuti, testimonianze del mondo criminale, foto di "tipi" ripresi ai fini della classificazione e dell'identificazione di criminali, foto di tatuaggi, scritti vari per gli esami grafologici e quant'altro.
La fisionomia del museo lombrosiano poi cambia assumendo sempre più quella di un museo di medicina legale. Superato il periodo della guerra, nel 1948 il museo subisce un nuovo trasferimento nei locali appositamente costruiti per l'Istituto di Medicina Legale in corso Galileo, destinato all'Istituto di Antropologia Criminale.

Mentre quasi tutti i suoi reperti sono oggi raccolti nel Museo di antropologia criminale di Torino, nell'ultima edizione della sua opera sull'Uomo Delinquente Lombroso aveva allegato - come abbiamo già detto - un ATLANTE fotografico e corredato di singolari tabelline, frutto di accurate catalogazioni delle varie tipologie nelle varie nazioni, e in particolare quella Italiana, suddivise in Regioni e anche in Province.

CHI ERA FOUCHE'

a cura DI D. PICCHIOTTI

Anno 1759: Il 31 maggio, a Nantes, nasce Joseph Fouchè. I suoi genitori sono gente di mare e commercianti; gli avi sono marinai. L’idea iniziale è quella di farne un capitano di lungo corso ma il ragazzo è lungo e sparuto, anemico, sgraziato, privo di energia e di attitudine al lavoro.
Nel 1770 lo si avvia verso la Chiesa dove egli cresce con una certa attitudine alle scienze esatte; diventa prefetto di collegio ma non prende i voti sacerdotali; già ripugna a legarsi definitivamente a qualcuno o a qualche cosa. Egli veste come un prete e porta la tonsura ma non è consacrato.
Anno 1778: Monastero degli Oratoriani.  FOUCHE' insegna Matematica e Fisica a Niort, Saumur, Vendome, Parigi. Ad Arras è ammesso nella Società dei Rosati dove conosce Lazzaro CARNOT, Massimiliano ROBESPIERRE, il medico svizzero MARAT e il tenente NAPOLEONE BUONAPARTE. 
Fa la corte a Carlotta Robespierre sorella di Massimiliano. Ad Arras il piccolo avvocato Robespierre viene eletto deputato agli STATI GENERALI DI VERSAILLES ed è proprio Fuchè che gli presta poche monete d'oro per pagarsi il viaggio ed un abito adatto alla bisogna. Partito Robespierre anche gli Oratoriani di Arras fanno la loro piccola rivoluzione e Fouchè si butta a capofitto, cosa strana..., e dichiara le simpatie della classe sacerdotale locale per il TERZO STATO.
Viene punito. I superiori lo trasferiscono da ARRAS a NANTES nella casa sorella dove il Nostro aveva studiato. Ora però è diventato esperto e maturo. Non si sente più di insegnare matematica agli adolescenti. Egli,da buon segugio, intuisce che la bufera sociale sta per scoppiare e non ha più voglia di raccattare briciole alla tavola di ricchi borghesi. 
La politica dominerà il mondo: si entri nella politica!. Di colpo getta la tonaca e non si rade la tonsura; tiene discorsi ai ragazzi del seminario e ai cittadini di Nantes; diventa improvvisamente il presidente del Club Amici della Costituzione; esalta il progresso ma con prudenza visto che il barometro di quella città tende al moderato. A rafforzare la sua posizione sposa la figlia di un ricco commerciante. E' una ragazza bruttina ma con dote. Egli sarà un buon marito e un buon borghese perchè è il TERZO STATO quello che è destinato al dominio.
Appena vengono proclamati i comizi per la CONVENZIONE, Fouchè si presenta candidato: promette tutto a tutti. Sorride ed inveisce contro i presunti soprusi che gli vengono denunciati. A Nantes il clima è destrorso e quindi i suoi discorsi sono coerenti a quel giro della vite. Nel 1792 è finalmente nominato deputato e la coccarda tricolore sostituisce la tonsura.
Egli ha circa trentadue anni. Con quella figura magra ed allampanata, quel viso lungo e sporgente,quella carnagione priva di linfa vitale, quegli occhi vitrei e sfuggenti sotto sopraciglia rossastre non passa certamente inosservato. Mai egli si è abbandonato all'ira; mai si è visto vibrare un muscolo del suo viso. Egli è un animale a sangue freddo ed è in questa freddezza inamovibile che sta la sua forza: la forza intellettuale di Joseph Fouchè da Nantes. 
IL GRANDE GIORNO
1792- La mattina del 21 settembre i nuovi eletti alla Convenzione fanno il loro ingresso nell’aula. Non dovranno più salutare l’unto del Signore LUIGI XVI visto che, trasformato in Luigi Capeto, egli langue nelle prigioni del Tempio in attesa che se ne decida la sorte.
Al suo posto governa l’Assemblea; dietro il banco della presidenza sono esposte le nuove tavole della legge: la Costituzione. Sulle pareti spiccano fasci littori con scure cruenta. Il popolo assiste dalle gallerie all’entrata di una singolare miscellanea di individui provenienti dalle professioni più disparate.Vi sono intellettuali e militari, borghesi ed ecclesiastici, avventurieri e preti spretati.
Nella disposizione dei seggi vi è un tentativo di ordinare questo magma che dal fondo tenta di venire alla superficie.
Gli uomini senza passione, i prudenti, i ragionevoli siedono in basso costituendo una zona che Robespierre sprezzantemente definisce la palude, le marais. In alto, sulla montagna, si siedono gli impazienti, i radicali, le truppe da sbarco. Queste due forze si equilibrano.
CONDORCET, ROLLAND ed i girondini sono i rappresentanti del medio stato. Per loro l’arrivo della Repubblica è già stato un passo gigantesco. Ora sarebbero lieti di arginare la Montagna che spinge sempre più radicalmente verso una rèvolution intégrale sino all’ateismo e al comunismo. MARAT, DABTON, ROBESPIERRE, duci del proletariato, vogliono abbattere dopo il Re, il danaro e la religione. Sta per iniziare una lotta per la vita e per la morte,  per lo spirito e per il potere.
Quando entra Joseph Fouchè molti si chiedono dove si siederà. Tra i radicali della Montagna o tra i moderati del Fondo?. Fouchè non ha dubbi: egli starà sempre per la maggioranza. Con passo quasi leggiero egli si siede con Condorcet e Rolland. Dall’alto il vecchio amico Massimiliano Robespierre lo osserva, ironico, attraverso il suo occhialino.
Fouchè si accorge che il vecchio amico di Arras lo indica ai suoi campioni radunati sulla Montagna e sa che quello sguardo scrutatore ed insinuante da ostinato puritano mai lo abbandonerà. Prudenza; ci vorrà prudenza.  Egli si imbosca nella palude con abilità. Il deputato di Nantes non prende la parola per parecchi mesi né parteciperà ad inutili chiassate e a concioni senza costrutto.
Egli si fa scegliere nelle commissioni dove si impara a gestire il potere e si acquista pian piano influenza senza controlli e senza farsi invidiare. La sua capacità di lavoro lo rende ricercato e preferito. Chiuso nella sua solitudine, rotta solo dagli affetti familiari, aspetta che Montagna e Gironda si sbranino. 
VERGNIAUD, CONDORCET, DESMOULINS, DANTON, MARAT, ROBESPIERRE si feriscono, ogni giorno, a morte. Fouchè sa che bisogna solo aspettare la loro fine e che tenersi nell’ombra sarà un atteggiamento che dovrà assumere per tutta la vita se vorrà raggiungere il potere a cui aspira. Egli desidera potere ma ne detesta, quasi, i simboli e la veste. Gli basta sentirlo tra le mani e avere la capacità di usarlo per modificare a suo piacimento l’ambiente esterno. Già si intravede in questo atteggiamento la stoffa del futuro ministro di polizia, carica che ricoprirà tra qualche anno.
Queste ambiguità lo rendono sempre più misterioso e solitario. Arriva, però il giorno in cui bisogna dare un voto preciso e pubblico con un SI od un NO. E’ il 16 gennaio 1793. Robespierre insiste spietatamente che ogni convenzionale voti per la morte o per la vita di Luigi XVI.
Gli indecisi del branco hanno premuto per una votazione segreta ma Robespierre è irremovibile. O vita o morte in modo esplicito e diretto.
Fouchè interroga gli amici; parla con Condorcet; prepara un discorso per la grazia che legge in privato ai colleghi della Gironda. La sera tra il 15 e il 16 i sobborghi di Parigi ribolliscono sapientemente indotti dai montagnardi. Le Tuileries sono piene di facinorosi capitanati da Teroigne de la Mericour, isterica megera, caricatura di Giovanna d’Arco.
E Fouchè, dopo aver fatto i conti da buon contabile, vede che la maggioranza della palude si assottiglia sempre più. Non gli va di stare con una minoranza. Quindi sale rapido e felpato i gradini della tribuna e con labbra esangui ed occhi quasi dispiaciuti ma decisi pronuncia piano, per Luigi Capeto, le due parole fatali: LA MORT.
Il Moniteur le riporta, assieme a quelle degli altri deputati, il giorno dopo e non sarà mai possibile cancellarle dalla storia. Joseph Fouchè è regicida!  
Il giorno dopo Fouchè fa stampare un manifesto in cui proclama pomposamente i suoi, presunti, ideali rivoluzionari.Vuole anticipare eventuali contestazioni al suo operato in assemblea e scrivere è, per lui, meglio che parlare.
Eccone il testo:
 

I DELITTI DEI TIRANNI HANNO COLPITO TUTTI GLI OCCHI 
E RIEMPITO DI SDEGNO TUTTI I CUORI.
SE QUEL CAPO NON CADRA’ SOTTO LA MANNAIA, I MASNADIERI E GLI ASSASSINI ALZERANNO LA TESTA E SAREMO MINACCIATI DAL PIU’ TERRIBILE DEI CAOS…; QUESTA E’ LA NOSTRA STAGIONE ED ESSA SI PONE CONTRO TUTTI I RE DELLA TERRA.
Egli, astuto calcolatore, ha ragione! I bravi cittadini di Nantes che lo hanno eletto si lasciano intimidire. Imbarazzati ed incerti plaudono alla decisione di Fouchè; avvertono una vaga vicinanza alla sua natura codarda ed opportunista ed aderiscono pur con un vago senso di disagio.
Da ora il grande camaleonte da moderato è diventato arciradicale, giacobino e ultraterrorista. Assume il gergo violento e sprezzante in uso sulla Montagna. Chiede misure contro i preti; eccita, inveisce, si infuria quasi per farsi notare dall’incorruttibile Robespierre e rinnovare l’antica familiarità. Ma l’antico amico ha capito il suo gioco e lo tiene lontano quasi a non contaminarsi.
Fouchè ne è sorpreso ma intuisce il pericolo della sua ostilità. Egli capisce che deve eclissarsi per un po’. Dovrà dimostrare in provincia il suo ardore repubblicano e le sue capacità politiche. Egli ottiene di essere inviato commissario nel suo dipartimento: la Loira (Nantes, Nevers, Moulins). Il potere di un commissario, fascia tricolore e cappello rosso piumato, è quello di un proconsole della antica Roma. E’ un padrone assoluto che rappresenta il potere centrale con una totale responsabilità politica ed amministrativa.
Egli si scaglia contro i ricchi ed i moderati ed espone un preciso programma radicale e "comunista". Assieme a Collot d’Herboise, suo collega, emana il più stupefacente documento dell’epoca rivoluzionaria che precorre i tempi futuri ed assume significato di 
MANIFESTO DEL COMUNISMO.
Che la storiografia non ne parli sta nel fatto che il Fouchè ministro di polizia ne distrusse minuziosamente le tracce fino ad annullarne il ricordo, eliminando anche chi ben ricordava o aveva imprudentemente fatto capire di ricordare. Il manifesto uscì sui muri di Nantes sotto il nome..
 
INSTRUCTION
TUTTO E’ PERMESSO A COLORO CHE AGISCONO SECONDO LA RIVOLUZIONE.
PER IL REPUBBLICANO NON ESISTE ALCUN PERICOLO, FUORCHE’QUELLO DI NON PROCEDERE DI PARI PASSO, CON LE LEGGI DELLA REPUBBLICA.
FINCHE’ ESISTERA’ ANCHE UN SOLO INFELICE SULLA TERRA, LA RIVOLUZIONE DOVRA’ CONTINUARE LA SUA MARCIA IN AVANTI.
LA RIVOLUZIONE E’ FATTA PER IL POPOLO.
IL POPOLO E’ L’UNIVERSALITA’ DEI CITTADINI FRANCESI CHE FORNISCE UOMINI ALLA PATRIA, DIFENSORI ALLE FRONTIERE, CITTADINI CHE NUTRONO LA SOCIETA’ CON IL LORO LAVORO.
LA RIVOLUZIONE DEVE CREARE UN POPOLO COMPATTO; 
UN POPOLO DI UGUALI.
NON ILLUDETEVI!  PER ESSERE VERAMENTE REPUBBLICANO ED APPARTENERE AL POPOLO OGNI CITTADINO DEVE OPERARE SU SE STESSO UNA RIVOLUZIONE INTEGRALE COME QUELLA CHE HA CAMBIATO IL VOLTO DELLA FRANCIA.
PERTANTO CHI POSSIEDE PIU’ DEL NECESSARIO DEVE ABBANDONARLO.
LA PATRIA ESIGE OGNI SOVRABBONDANZA PER RIDISTRIBUIRLO EQUANIMAMENTE, ESIGE PER SE’ ORO ED ARGENTO, METALLI VILI E CORRUTTORI, PER ACCORPARLI AL TESORO NAZIONALE, ESIGE LAICITA’ E DEDIZIONE ALLA REPUBBLICA, ESIGE FERRO ED ACCIAIO PER FAR TRIONFARE LA REPUBBLICA.
APPLICHEREMO CON SEVERITA’ L’AUTORITAS CONFERITACI.
LIBERTA’ O MORTE! 
RIFLETTETE E SCEGLIETE!
Per mettere in atto tale istruzione, egli fonda i COMITATI FILANTROPICI ai quali i possidenti possano donare i loro beni.  Egli serio e compiaciuto continua a martellare i suo scherani: ogni buon rivoluzionario ha bisogno soltanto di ferro, pane e quaranta scudi.
Scriverà alla Convenzione: “ QUI CI SI VERGOGNA DI ESSERE RICCHI”.
Joseph Fouchè è il primo comunista della storia. 
FOUCHE’ CONTRO LA RELIGIONE 

Nella sua azione Joseph Fouchè si rivela sempre più radicale e comunista comportandosi come il più impetuoso e violento campione anticristiano. Sembra che reciti a soggetto.”Conviene che sia comunista? Sarò comunista! “. E ne assume il linguaggio e la fede come un consumato attore creando un personaggio che appare convincente perché l’azione ed il verbo sono rapide ed incisive. Ed egli ha bisogno di azione per mostrare alla Convenzione che Fouchè è all’ordine; preparato e serio come nessuno; capace di interpretare la parte che la Patria gli ha affidato. 
In realtà il nostro eroe persegue i suoi personalissimi scopi con pazienza e sacrificio. Già ha cominciato a catalogare tutti gli eventi ed i personaggi.Vizi e debolezze sono trascritti in fascicoli; una piccola banda di scherani, reclutati tra la feccia dell’umanità, ripuliti e riforniti di mezzi, viene distribuita in posti chiave. Fouchè non sa solo quello che non si fa!
Nel contempo tuona contro la Chiesa: “Questo culto superstizioso va sostituito dalla fede nella REPUBBLICA e nella MORALE. E’ proibito a tutti i sacerdoti di comparire nei templi coi loro costumi. E’ tempo che questa classe altezzosa, ricondotta alla purezza dei principi della Chiesa primitiva, rientri nella classe dei cittadini!”
Ben presto Fouchè, forte del suo assoluto potere, non si accontenta di essere il capo militare, il sommo magistrato nei tribunali, il podestà amministrativo ma pretende il potere religioso.
Abolisce il celibato, comanda ai sacerdoti di sposarsi entro un mese, stringe ed annulla matrimoni, sale sui pulpiti spogli di crocefissi e simboli religiosi, tiene prediche atee negando l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio.
Nei cimiteri viene abolito il cerimoniale e sulle lapidi l’unico motto da porre sarà: LA MORTE E’ UN SONNO ETERNO.
A Nevers il PONTEFICE FOUCHE’ introduce il battesimo civile ed impone, come esempio, alla sua ultima nata il nome Nievre, da quello del dipartimento. La cerimonia è suggestiva; la guardia nazionale è chiamata a raccolta nella piazza del paese ed egli battezza la sua piccola davanti alle bandiere della repubblica.
E’ perfino esagerato quando attraversa Moulis a cavallo, cinto del tricolore, piumato di rosso, con un martello in mano, alla testa di un corteo di facinorosi, per rompere le sacre immagini simboli del fanatismo religioso antirepubblicano.
Le mitrie sacerdotali vengono bruciate e davanti al fuoco egli parla, parla, straparla… fino a che il vescovo Francesco LAURENT trascinato dalla eloquenza del nostro si strappa la tonaca e si pone sul capo il berretto frigio. Trenta preti lo seguono. A Parigi la notizia infiamma gli animi. Si parla di questo Fouchè che arruola volontari per la difesa dei confini; che manda casse piene d’oro alla Convenzione, frutto della spoliazione dei templi cristiani; che appare un prefetto di ferro agli ordini del potere centrale; che vive spartanamente ; che disprezza ostentatamente il denaro e gli onori.
L’ultragiacobino CHAUMETTE  pubblica un inno: Il cittadino Fouchè ha operato miracoli repubblicani. Ha soccorso i poveri, rispettato le sventure, distrutto il fanatismo religioso e borghese, perseguitato e punito esemplarmente i prepotenti e gli sfruttatori.”

Fouchè torna a Parigi nel 1793. Chi non lo conosce si precipita da lui per encomiarlo. Robespierre continua a tenerlo al largo anche quando chiamato a gran voce dai montagnardi si sceglie un posto più comodo sulla Montagna. Fouchè vorrebbe avvicinarsi ma l’Incorruttibile, sprezzante ed ironico, lo tiene sotto la lente del suo occhialino quasi a non contaminarsi. Tra sé Joseph Fouchè, un po’ spazientito, conclude che prima o poi bisognerà concludere questa partita.
Di: Luigi Cerritelli

domenica 20 aprile 2008

L'opera d'arte tra ragione e passione

a cura DI D. PICCHIOTTI

Domani a Napoli, presso l'istituto per gli studi filosofici, una giornata di studi dedicata al grande psicoanalista Ignacio Matte Blanco. Il titolo dell'incontro «Le logiche del sentire» allude a un percorso avviato per superare la contrapposizione classica tra le due logiche che governano il `ghiaccio' della filosofia e il `fuoco' della creazione artistica: secondo un progetto che ci lascia in eredità la ricerca di una «super-logica» capace di unificare coscienza e inconscio, pensiero e emozione
Chi non ha provato, ascoltando musica, guardando un quadro o assistendo a una tragedia sulla scena, un senso di intensa commozione, di gioia esplosiva o di struggente malinconia, come se fossero state toccate e vibrassero in lui le corde più profonde dell'anima? Di fronte a tali tempeste emotive Adorno ha potuto sostenere che la «la capacità di rabbrividire» definisce l'atteggiamento spontaneo di fronte alla bellezza, «come se la pelle d'oca fosse la prima immagine estetica». La percezione della bellezza si riduce dunque a un fremito, a un turbamento o a uno stravolgimento delle facoltà mentali? Si è a lungo dibattuto (e si discute ancora, specie in ambito anglo-sassone) per stabilire se l'esperienza estetica dipenda da fattori emotivi o cognitivi. È certo che la poesia e l'arte in genere costituiscono la «lingua degli affetti», ma esse - come mostra la musica in maniera eminente - possono anche congiungere il massimo di rigore formale, addirittura matematico, con il massimo di pathos e di vaghezza. Del resto, la tradizione pitagorica, che ha dominato in Europa per oltre millecinquecento anni, ha ritenuto la bellezza calcolabile e governata da criteri di misura, armonia, simmetria e proporzione. È stato solo dopo il Barocco che si è definitivamente affermato il principio secondo cui il bello non ha natura esattamente calcolabile e non è determinato tanto dai sensi pubblici dell'esattezza misurabile (la vista e l'udito), quanto da un elemento imponderabile, da un «non so che», assimilabile al senso del «gusto», dunque a qualcosa che possiede, almeno in parte, una natura soggettiva e privata, educabile secondo determinati standards.
Il nesso conoscenza/emozione è rimasto tuttavia sempre oscuro, anche quando - per restare al panorama italiano - Giacomo Leopardi ha proposto l'idea di una «ultrafilosofia», che riesca a pensare la poesia senza però invaderne il campo e, per converso, di una poesia che, «nulla al ver detraendo», possa servirsi della filosofia senza diventare ragionamento o difesa di una tesi. Dice, infatti, che - se non vuole essere un «filosofo dimezzato» - il pensatore è tenuto a sperimentare passioni e illusioni: «Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, d'illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l'immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto e sentito i poeti, non può essere un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d'occhio assai debole, di penetrazione scarsa ... Non già perché il cuore e la fantasia dicano sovente più vero della fredda ragione, ma perché la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura, e svilupparlo ... La ragione ha bisogno dell'immaginazione e delle illusioni ch'ella distrugge» (Zibaldone, 4 ottobre 1821).
Filosofia e poesia, ciascuna al suo posto e con strumenti differenti ma complementari (il «ghiaccio» e il «fuoco»), devono perciò contemporaneamente unire e separare la ragione e la passione, il finito e l'infinito. Benedetto Croce, a sua volta, ha cercato di conciliare l'idea dell'arte come conoscenza dell'individuale (intuizione e fantasia) e quella dell'arte come sentimento (o passione oggettivata e controllata, trasformata in serena contemplazione). Ha respinto sia l'attribuzione ad essa di forme intellettuali, sia il torbido sensualismo dannunziano, sia `il tormento e l'estasi' da cui il senso comune ritiene invasato l'artista.
Con un percorso a prima vista improbabile ed impervio, Ignacio Matte Blanco è riuscito a trovare una originale soluzione a questo antico e dibattuto problema, scoprendo nella poesia e nell'arte in genere il risultato del particolare intreccio tra pensiero simmetrico e pensiero asimmetrico, tra logica dell'inconscio (per cui la proposizione «A è il padre di B» può trasformarsi in «B è il padre di A», ignorando ogni ordine temporale, spaziale e casuale) e la logica del pensiero vigile del senso comune e della scienza, mai completamente raggiungibile nella sua purezza, ma che mantiene fermamente le differenze, assicurandoci la sopravvivenza e il fruttuoso contatto con la realtà. L'opera d'arte riuscita è pertanto una ibridazione non sterile tra queste due logiche, che fa rabbrividire l'animo di commozione, forzando il linguaggio della comunicazione in modalità paradossali che si sottraggono alla logica simmetrica.
Memore della sua nativa cultura latino-americana, in Estetica ed infinito, Matte Blanco ricorda, con un esempio, come le leggi della logica classica (il principio di identità, di non-contraddizione o la dicotomia vero/falso) non vengano applicate dall'arte e, spesso, neppure dalla vita quotidiana. Si tengono formalmente in alta considerazione, ma non si mettono in atto: «Si racconta che quando gli amministratori del Cile al tempo della colonia ricevevano dei plichi che contenevano le disposizioni del re e che erano arrivati dopo mesi di navigazione, frequentemente succedeva che le circostanze cui si riferiva il plico erano cambiate. Così si arrivò alla seguente prassi: davanti ai plichi, i funzionari si toglievano il cappello, si mettevano agli attenti e sentenziavano: 'gli ordini del re si rispettano ma non si eseguono'. Nella vita ordinaria tutti noi abbiamo un simile atteggiamento verso le regole della logica classica, che rispetta i principi di identità, di contraddizione e ha due valori di verità».
In effetti, la razionalità - nel ragionamento scientifico, come nel buon senso - procede secondo concetti tendenzialmente univoci, concatenati in base a criteri di coerenza e/o di verifica empirica. L'opera d'arte, al contrario, si serve di immagini o di idee polisemiche e vaghe, crea campi semantici vasti e indeterminati, scombina il cauto procedere dell'intelligenza congiungendo nella metafora ciò che è lontano o usando nella sineddoche la parte per il tutto. Rasenta l'ineffabile, non perché sia incapace di esprimere qualcosa (vale anzi il contrario), ma perché dice troppo, perché le sue riserve di senso risultano inesauribili, tant'è vero che una poesia si può leggere infinite volte, trovandovi sempre aspetti prima non colti, eppure già virtualmente contenuti in essa. L'opera d'arte non si può quindi ridurre a qualcosa di rigidamente chiuso: parafrasando Gombrich, in luogo di «arte come illusione», bisognerebbe parlare di «arte come allusione», in quanto rinvia a un insieme indefinito - e, forse, infinito - di implicazioni e di significati impliciti.
Essa non tiene conto, inoltre, dei vincoli imposti dalla realtà. Così, se Eraclito afferma che tutti gli svegli partecipano ad un mondo comune, mentre i dormienti vivono ciascuno in un universo privato, la poesia costituisce un paradossale mondo intermedio, in cui la dimensione pubblica e privata, il linguaggio della ragione e quello delle passioni confluiscono e scambiano continuamente i rispettivi ruoli. I mondi prodotti dal poesia non costituiscono pertanto né un semplice rispecchiamento della «realtà», né il frutto di una immaginazione arbitraria. Si situano in un `terzo regno', intermedio tra il presunto `reale' riflesso dalla conoscenza (intesa come riproduzione logico-percettiva di esso) e gli altrettanto improbabili prodotti per partenogenesi di una fantasia creatrice dal nulla. Due concetti specularmente opposti e complementari vengono pertanto messi in mora o distrutti nella loro assolutezza: l'idea di una realtà di per sé vera ed indipendente dal linguaggio che la enuncia (una `iper-realtà' che la poesia o l'arte in genere dovrebbero mimeticamente rispecchiare) e quella di una immaginazione arbitraria, brada, che - a partire da appigli offerti dall'esperienza - si inventa un mondo che non ha più alcun rapporto con quello in cui effettivamente si vive. È, invece, possibile intendere il territorio della poesia come atopia, luogo inclassificabile, che non appartiene né al dominio della realtà assoluta, né a quello - che ne è l'opposto speculare - dell'utopia, del non-esistente per definizione.
Matte Blanco cerca di spiegare questo 'terzo regno' come frutto di un peculiare intreccio tra diversi tipi di logica. Utilizzando nelle sue ultime riflessioni il linguaggio pascaliano, parla così di «ragioni del cuore», che la ragione non conosce, ma anche di `ragioni della ragione' che le ragioni del cuore non conoscono. Ognuno di noi è, tuttavia, oltre che homo duplex, anche, e contemporaneamente, un essere umano integrale, composto da cuore e intelletto, che non deve sentire senza pensare e pensare senza sentire. Per questo, il nostro pensiero è in grado di «immergersi» nelle ragioni del cuore e, anche senza capirle, senza abbracciarle a pieno, di navigare e nuotare in esse. Quando ci riesce, entra in un mondo che non è estraneo al comprendere, ma certo «alieno alla conoscenza che ci fornisce, da solo, il pensiero». La stessa idea viene espressa, sempre in Estetica ed infinito, con un'altra similitudine: «La differenza tra arte e scienza sarebbe, da questo punto di vista, che nella scienza il pensiero mette a fuoco un argomento ben definito, che può studiare con precisione: il suo soggetto di studio sta, per così dire, dentro l'ambito della visione maculare dell'occhio della coscienza. Nell'arte, invece, l'oggetto è così esteso e così molteplice che non può entrare nel circoscritto spazio della visione maculare. Si potrebbe dire che l'oggetto dell'emanazione artistica occupa tutto il campo della visione della coscienza, inclusa la visione maculare».
Tale occupazione ed inclusione del pensiero nella sfera dell'emozione non ne distrugge l'autonomia. Il primo comprende la seconda, cogliendone però una sola dimensione, mentre l'emozione ha più dimensioni e fonde, al calor bianco, nell'«indivisibile» tutte le determinazioni dell'intelletto, trasformandone il faticoso e cadenzato passo da «formica» in turbinosi e trascinanti movimenti. All'epoca in cui scriveva L'inconscio come insiemi infiniti, Matte Blanco pensava che l'emozione fosse «la madre del pensiero». Ora il suo sguardo si è leggermente spostato, senza invalidare la precedente ipotesi: il pensiero è anche emozione, che mette però nell'arte i suoi strumenti espressivi al servizio dell'emozione stessa. Al pari dei funzionari cileni dell'età coloniale, l'intelletto rispetta paradossalmente i propri ordini, ma non li esegue prevedendo delle deroghe al proprio sovrano potere.
E questo avviene in diversi modi. Ad esempio, sovvertendo in senso `simmetrico' la logica asimmetrica oppure stravolgendo i parametri temporali comuni. Già Franco Fornari, nel recensire L'inconscio come insiemi infiniti, aveva indicato quale modello eminente di simmetria il verso dantesco «Vergine madre, Figlia del Tuo Figlio». La scelta è perfetta, in quanto esso stabilisce la doppia equivalenza di elementi incompatibili quale «madre» e «vergine» e «madre» e «figlio». L'impensabile viene così espresso attraverso la dissoluzione delle differenze, che sfociano in una indistinta e indivisibile totalità, in una specie di presocratico En kai pan o Uno-Tutto. L'alterazione dei parametri temporali viene invece mostrata da Matte Blanco mediante i versi di Pablo Neruda di Alturas de Machu Picchu, dove il poeta invita gli umili morti delle sue terre andine a salire dalle loro tombe e nascere con lui, pur dicendo a ciascuno di loro che non rivivrà più: «Non tornerai dal tempo sotterraneo. / Non tornerà indurita la tua voce. / Non torneranno i tuoi occhi trapassati». Ma è proprio questo caos temporale, che stravolge le normali sequenze del prima e del poi, che crea dei morti viventi e fa scendere i vivi tra i morti a produrre la più profonda emozione, come se ci si data licenza di violare le barriere del tempo e della morte.
Sia in Dante, sia in Neruda la parola poetica sprigiona una profonda emozione, che cresce di grado e s'innalza fulmineamente verso l'infinito, quanto più si abbassa il livello di coscienza critica, razionale. Esiste, infatti, un diretto rapporto tra lo sprofondare nell'Inconscio e l'elevarsi e «infinitizzarsi» tendenziale dell'intensità dell'emozione. Le grandi opere d'arte sono capaci di compiere questo miracolo, di procurare una discesa controllata e riuscita del pensiero cosciente e dividente nel pensiero inconscio e indivisibile, di condensare la ricchezza del mondo facendo coesistere e collaborare - mantenendoli, insieme, uniti e distinti - il pensiero logico che discerne sulla base dei criteri di vero e falso e il pensiero simmetrico che fa di ogni erba un fascio. Secondo un'immagine presentata in Pensare, sentire, essere, la logica simmetrica e quella asimmetrica, «sono come l'azoto e l'ossigeno nell'aria: insieme e, tuttavia, separati e mai combinati a formare biossido di azoto». Ed è proprio questa collaborazione antagonistica che Matte Blanco ha cercato di comprendere e di articolare negli ultimi anni della sua vita, lasciando in eredità, quale progetto incompiuto, la ricerca di una «super-logica» capace, eventualmente, di unificare il pensiero simmetrico e quello asimmetrico, la coscienza e l'inconscio, il pensiero e l'emozione. DI REMO BODEI